il confronto

Web tax, perché slitta al 2019 e perché non piace a tutti nel PD

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Via libera della Commissione Bilancio del Senato all’emendamento di Massimo Mucchetti (PD) che vuole introdurre la web tax in Italia: ‘l’imposta al 6% sulle transazioni digitali’. Entrate previste: 114 milioni l’anno, però la tassa sarà in vigore (se approvata) solo dal 2019 e non piace a tutto il Partito Democratico.

La web tax all’italiana ha ottenuto il primo voto favorevole in Parlamento. La Commissione Bilancio del Senato ha approvato l’emendamento alla manovra depositato da Massimo Mucchetti (Pd) sulla tassazione dell’economia digitale. Un’imposta del 6% sulle transazioni digitali: le imprese italiane, clienti delle multinazionali del web, la trattengono sulle fatture e la versano al Fisco. Al tempo stesso gli intermediari finanziari, banche in primis, dovranno segnalare all’Agenzia delle Entrate tutte le transazioni verso questi colossi, questo prevede l’emendamento (A.S. 2960) che introduce nella Legge di Bilancio 2018 la misura, la cui entrata in vigore, in caso di approvazione, scatterebbe solo dal 2019.

Tecnicamente come è stata prevista l’imposta

Quando un soggetto non residente supera in un semestre le 1.500 operazioni per almeno 1,5 milioni di euro, l’Agenzia delle Entrate lo convoca per verificare se opera attraverso una stabile organizzazione. Se al confronto emerge che la sede è presente in Italia, il non residente redigerà un bilancio normale dichiarando il reddito d’impresa. Diversamente, subirà il prelievo del 6%. In sostanza per i soggetti non residenti, saranno poi chiamate in causa le banche che dovranno applicare in qualità di sostituti una ritenuta d’imposta non più sul valore delle singole transazioni ma sull’ammontare dei corrispettivi. Sarà lo spesometro a monitorare, e se del caso a stanare, i big della rete. La competenza degli accertamenti sulla web tax sarà affidata alla direzione regionale delle Entrate della Lombardia.

“Se Google attribuisse alle attività italiane il pro quota del suo consolidato, pagherebbe 150 milioni. Con l’imposta sui ricavi 120”, ha dichiarato Mucchetti, che ha anche ricordato che Big G nel “2016 ha estratto dall’Italia ricavi stimati in 2 miliardi, ma ne ha dichiarati 90 milioni pagandone meno di 5 per imposte. Google non è l’eccezione, ma il caposcuola”. 

E quindi non possono essere paragonati a Google le imprese agricole, i soggetti che hanno aderito al regime forfettario e i cosiddetti “minimi”, sono infatti queste le categorie escluse a priori dall’obbligo di pagare l’imposta.

114 milioni di entrate l’anno grazie alla web tax

Nella terza riformulazione del testo dell’emendamento, approvato dalla Commissione Bilancio del Senato, nella cella 2018 è scritto 0, zero entrate previste perché la norma, in caso di approvazione, entrerà in vigore dal 2019. Dall’anno prossimo e per gli anni a seguire è stato stimato in 114 milioni di euro l’anno il gettito derivante dall’introduzione della norma.  Ma perché la web tax slitterebbe al 2019 e non subito dal primo gennaio 2018? Lo spostamento in avanti dell’entrata in vigore, secondo lo stesso Mucchetti, consentirà al Governo di ampliare la platea dei soggetti obbligati al pagamento 6% sulle prestazioni di servizi e di conseguenza assicurare alle casse dell’Erario un gettito più consistente. La nuova base imponibile comprenderà infatti tutti i tipi di attività non solo business to business ma anche il business to consumer. Spetterà al ministero dell’Economia definire con un apposito decreto da varare entro il 30 aprile 2018 i “confini” tra prestazioni di servizi e cessioni di beni cui applicare l’imposta.

L’emendamento Mucchetti non piace a tutti, neanche nel PD

La norma così come è stata scritta non piace a tutti i parlamentari del PD a partire da Francesco Boccia, fautore della web tax dal 2013 quando la Commissione Bilancio della Camera, da lui presieduta, l’approvò, per poi essere bocciata da Matteo Renzi, da poco segretario del Partito Democratico. “Vediamo come chiudono al Senato e se sarà necessario fare delle ulteriori correzioni le faremo alla Camera”. Boccia teme il rischio di vedere applicata la cedolare del 6% anche ai prodotti targati made in Italy venduti all’estero, in questo modo si andrebbe a snaturare una tassa pensata esclusivamente per i giganti del web e non per far pagare le tasse e a chi già le paga in Italia. Infatti dopo queste critiche è stato pensato un credito d’imposta per non penalizzare le imprese italiane e quelle residenti nel territorio dello Stato. Così entra in gioco il credito d’imposta pari all’imposta digitale versata sulle transazioni digitali.

Più duro nei confronti del testo scritto dal senatore Mucchetti e approvato dalla Commissione Bilancio del Senato è stato Sergio Boccadutri (PD) responsabile Innovazione del partito. Su Twitter ha scritto diversi tweet: Il testo 3 della #webtax di Mucchetti è un pasticcio senza eguali. Non scalfisce OverTheTop mentre aumenta costi per clienti finali (e forse anche quelli di chi non usa servizi digitali).

Qui Boccadutri ha messo in evidenza gli effetti negativi della norma sulle piccole e medie imprese italiane: “E poi ancora #Webtax approvata riduce margini di pmi italiane che usano market place stranieri per vendere loro prodotti. Ma studiare come funziona #ecommerce prima no, eh?”

La discussione sia nell’Aula del Senato sia in quella della Camera sarà di sicuro accesa sulla web tax, non, si spera, sulla necessità di approvarla, ma nel definire correttamente a chi deve essere applicata.

Infine non va dimenticato che prima dell’Italia, qualora la legge dovesse entrare in vigore dal 2019, potrebbe spuntarla l’Unione europea. Giovedì scorso, infatti, il commissario europeo alla Concorrenza Margrethe Vestager ha dichiarato: “se non c’è una risposta internazionale dell’Ocse a questa domanda entro la prossima primavera, produrremo la nostra proposta per nuove regole Ue per assicurarci che le compagnie digitali siano tassate in modo corretto”.