Quadro economico

Lettera Anesti. Prezzo del petrolio e rischi finanziari nel 2015

di Eutimio Tiliacos |

Sempre più commentatori ritengono che un ulteriore rafforzamento del dollaro rischierebbe di creare forti tensioni sulle economie dei paesi particolarmente indebitati in dollari.

Prosegue la pubblicazione su Key4Biz della ‘Lettera ANESTI’ di Eutimio Tiliacos, analista internazionale con cui cerchiamo di comprendere meglio le dinamiche che stanno riformulando i ranking internazionali tra economia, finanza, manifatturiero, conoscenze e istituzioni internazionali.

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Lo scrittore e drammaturgo irlandese Spike Milligan soleva affermare che “Il denaro non può comprare gli amici ma può procurarti una categoria superiore di nemici”. Tutto ciò è vero anche quando la rincorsa al denaro cambia direzione e punta verso il basso come nel caso delle svalutazioni valutarie e in quello del crollo del prezzo di alcuni beni primari quale il petrolio.

Così al riguardo si leggeva sul Financial Stability Report, Executive Summary pubblicato dalla Banca di Inghilterra il 16 Dicembre scorso (quando il problema delle elezioni in Grecia era lontano e giudicato ancora di marginale importanza) a proposito del peggioramento del clima economico e dei rischi che lo affliggevano: “Il quadro economico globale mostra attualmente segni di indebolimento rispetto al Giugno 2014 e le preoccupazioni di mercato riguardanti il persistere di uno scenario segnato da una crescita nominale ancora debole e da rischi geopolitici crescenti, sono aumentate. Questi sviluppi potrebbero minare in futuro la stabilità finanziaria nel Regno Unito qualora il perdurare del basso tasso di sviluppo dovesse produrre un aggravamento delle condizioni economiche dei paesi più indebitati o qualora un modificarsi significativo delle valutazioni dei rischi (presso gli investitori ndr) dovesse causare sommovimenti di forte entità minando la fiducia sia fra gli operatori del settore business sia fra i risparmiatori . La recente caduta dei prezzi del petrolio che dovrebbe sostenere la domanda globale e la crescita economica nel Regno Unito aggrava tuttavia al contempo i rischi di instabilità finanziaria. Gli aggiustamenti potrebbero assumere carattere fortemente distruttivo qualora gli investitori dovessero attribuire prezzi eccessivamente elevati ai rischi che oggi caratterizzano gli impieghi della loro liquidità senza che i prezzi attribuiti a questi rischi rifletta i cambiamenti strutturali che proprio sul mercato si stanno determinando in tema di liquidità (ossia: se gli investitori si facessero prendere dal panico indotto dai forti cambiamenti strutturali in atto sul mercato dei capitali e su quello valutario ndr)”.

Ecco dunque quali sono i cambiamenti strutturali in atto accennati dalla Banca di Inghilterra. I vasti e ondivaghi movimenti di capitali che hanno caratterizzato l’economia internazionale, da quando essa è entrata in crisi nell’Agosto 2007 ad oggi, stanno subendo una accelerazione. Ai flussi finanziari netti che dal resto del mondo –Europa compresa – si dirigevano in quei primi anni di paura per le sorti dell’economia mondiale verso gli Stati Uniti, era seguito – dal 2009 alla metà del 2013 –  il fenomeno di un ammontare crescente di investimenti che dai paesi sviluppati muoveva verso i paesi emergenti, asiatici in particolare, pur rimanendo gli Usa – anche se in modo a volte intermittente – un polo di attrazione di capitali internazionali. Dal terzo trimestre 2013 però il magnete Usa ha ricominciato ad attrarre capitali in modo continuo e stavolta anche dai paesi emergenti; il fenomeno ha subìto una accelerazione lungo tutto il corso del 2014.  I movimenti di capitali in ingresso costituiscono per il paese che li riceve un debito verso il resto del mondo, nel senso che se un investitore europeo acquista Treasury Bonds emessi dal Tesoro Usa questo processo andrà registrato come un impegno alla restituzione a scadenza di quell’importo e quindi entra a far parte del debito pubblico Usa; come pure se l’acquisto da parte dell’investitore europeo è di azioni emesse da società private americane, trattandosi di sottoscrizione di capitale, questo è un debito che la società ha verso gli azionisti (in questo caso esteri). Tutto ciò per dire che non bisogna farsi ingannare dal segno meno con cui statisticamente il fenomeno dell’afflusso di capitali viene registrato nel paese di arrivo dei capitali.

Come ogni anno a fine Dicembre lo U.S. Department of Commerce Bureau of Economic Analysis ha pubblicato i dati relativi alla posizione netta degli investimenti internazionali riguardanti gli Stati Uniti aggiornata alla fine del terzo trimestre dell’anno: “U.S. assets were $24,614.6 billion at the end of the third quarter. U.S. assets excluding financial derivatives were $21,816.4 billion at the end of the third quarter………..U.S. liabilities were $30,772.5 billion at the end of the third quarter. U.S. liabilities excluding financial derivatives were $28,028.5 billion at the end of the third quarter”. A quella data pertanto le passività eccedevano le attività Usa per un ammontare pari a – 6,157,9 miliardi di dollari (erano appena -1.300 miliardi di dollari 7 anni prima, a fine 2007  e -4.994 al termine del terzo trimestre 2013).

L’andamento riflette due fenomeni paralleli e distinti: A) da un lato ad attrarre capitali verso gli Usa è la consapevolezza di una economia più solida di quelle asiatiche o europee, un mercato finanziario più efficiente e “liquido” dove cioè chi ha necessità di vendere trova più facilmente un compratore, la prospettiva di una ripresa dei consumi privati che rimetta in moto l’economia con meno vincoli di bilancio di quelli delle economie europee, B) dall’altro il rafforzamento del dollaro contro Euro (da 0,73 a 0,83) e contro altre valute, manifestatosi con una impennata lungo l’arco del 2014 dovrebbe interessare ancora secondo le previsioni di molti autorevoli operatori –pur se in forma più discontinua e più moderata- anche il 2015. L’incremento di valore del dollaro fa sì che cresca di conseguenza il controvalore espresso in altre valute del debito che gli Usa hanno con il resto del mondo, mentre per contro diminuisce il controvalore di titoli di debito estero nelle mani di possessori statunitensi.

Questi fattori spiegano anche in parte l’andamento borsistico del 2014 che ha visto gli investitori in titoli azionari statunitensi registrare un “total return” (dividendi e variazione corsi) del +14,5 % nell’anno appena conclusosi, mentre in Europa hanno registrato un total return negativo: del -42,3 % i titoli del mercato borsistico Russo, del -37,2 % di quello portoghese,  del -29,0 % di quello austriaco, del -26,9 % di quello ungherese, del -20,3 % su quello norvegese, del -9,3% e del -9,1% rispettivamente dei mercati borsistici tedesco e francese. L’Italia ha registrato un -8,5% seguita dal Regno Unito con  -5,8% e dalla Spagna -3,8% (rif: Financial Times, January 2  2015).

Sempre riguardo agli Usa va aggiunto che la mappa del loro indebitamento verso il resto del mondo per come pubblicata sempre dallo U.S. Department of Commerce Bureau of Economic Analysis ci rivela come gli investimenti diretti (in attività manifatturiere e di servizi) negli Usa da parte di soggetti non residenti ammonti oramai a 6.044 miliardi di dollari e quelli in attività finanziarie (di portafoglio) a 16.478: di quest’ultimi ben 5.454 miliardi di dollari, rappresentati da Treasury Bonds emessi dal Tesoro americano per finanziare il debito pubblico, sono detenuti da investitori esteri (in particolare cinesi); all’importo vanno aggiunti 3.803 miliardi di dollari di “long term securities” sempre in mani estere per un totale di 9.257 miliardi di dollari su un totale di indebitamento pubblico Usa pari oramai a 18.050 miliardi.

 

Sono sempre più i commentatori che ritengono che qualora il rafforzamento del dollaro verso le valute estere ed in particolare verso quelle dei paesi emergenti dovesse continuare e manifestarsi in modo consistente come nel 2014, si creerebbero le condizioni per forti tensioni sulle economie dei paesi particolarmente indebitati in dollari. Parliamo stavolta soprattutto di paesi emergenti, ma non solo. Benché nel corso del 2014 il total return di un investitore che avesse acquistato titoli sulle borse egiziane (+30%), indonesiane (+26,6%), filippine (+26,4%), indiane (+22,6%), tailandesi (+16,8%) o turche (+17,8%) sia stato ancora estremamente favorevole (rif: Financial Times, January 2  2015), il 2015 si prospetta molto incerto a causa della forza del dollaro che potrebbe rendere insostenibile l’indebitamento e minare l’intera costruzione economica di questi paesi; quindi i risparmiatori che si affidano a fondi di investimento faranno bene a far estrema attenzione a come e dove (in quale parte del mondo) tali fondi investiranno i loro soldi.

La situazione si va facendo sempre più insostenibile anche a seguito della pressione esercitata dalla moneta giapponese che si è svalutata contro dollaro di circa il 60 % dalla fine 2011 ad oggi. A quella data (fine 2011/inizio 2012) era possibile acquistare un dollaro pagando circa 75 yen; ora occorrono più di 120 yen per comprare lo stesso dollaro. E’ normale che in tale situazione altri paesi in concorrenza con il Giappone per l’esportazione delle loro merci operino svalutazioni competitive per non perdere la concorrenzialità dei prodotti da loro esportati sul mercato mondiale. Ma questo processo di svalutazioni “concorrenziali”, come già detto, provoca anche un aumento del loro indebitamento quando tradotto da dollari a valuta locale. Per queste situazioni (e questi paesi) il 2015 vedrà la “prova del fuoco” indipendentemente dall’esito delle elezioni greche che alcuni superficiali commentatori vedono come l’unica causa degli sconquassi attuali.

Così scrive al riguardo un acuto osservatore delle economie dei paesi emergenti e asiatiche in particolare,  Kenneth Courtis in una recente corrispondenza dal titolo South East Asian Currencies– Will Japan’s aggressive devaluation trigger again a international financial and economic crisis? “With the Malaysian Ringgit having hit the lowest level in 5 yrs, the Thai Baht now at 33 and falling, the  Indonesia currency skidding, and Korea certainly set to devalue in order to respond to Japan’s aggressive beggar thy neighbour yen devaluation –the yen is down since its peak by 66% vs the RMB and by 61% vs the USD, — it was only a matter of time before the strongest currency in South East Asia, the Singapore Dollar broke down vs the USD. ………………More generally, I am looking for a substantial adjustment in global currency values in 2015, set off as a result of the ongoing aggressive yen devaluation strategy of the Japanese government.  We experienced a similar currency market development in the 1995-1997 period, again led by Tokyo’s aggressive yen devaluation…..  Yet it was that sharp yen devaluation, the capital flows which accompanied it, and then their reversal, which set off the devastating 1997 East Asian financial crisis.  One only needs to visit Bangkok or Jakarta to see that 18 yrs later that the scars from that crisis are not all fully healed. ………when the big countries engage in aggressive devaluation strategies, like Japan is doing today, there will be inevitably very significant capital market disruptions in the countries which are most vulnerable, and often in places where it is least expected. In the current fragile state of the world economy it would be useful not to lose sight of this reality”.

A rendere più complessa la situazione è quanto sta accadendo sul mercato energetico di cui abbiamo fornito un’ampia panoramica nel numero di Dicembre 2014 di Lettera ANESTI. Scrive al riguardo un ex dirigente ENIBruno Velani“nel 1985, quando lo sceicco Yamani pensò di tagliare le gambe alla produzione offshore del Mare del Nord, i cui costi di estrazione si aggiravano allora attorno ai $ 15 barile, facendo calare il prezzo del petrolio fino a otto dollari a barile, l’errore dello sceicco, che gli costò il posto di ministro del petrolio, fu di non capire che quando hai investito miliardi di dollari per costruire piattaforme, oleodotti, e altre infrastrutture, anche se il prezzo di vendita non è remunerativo, continui a produrre per ottenere almeno quel poco di cash flow che ti permette di coprire i costi operativi. Penso che questo succederà anche adesso col Fracking, anche se naturalmente bloccherà futuri progetti ancora da iniziare; inoltre mentre nel Mare del Nord degli anni 80 i padroni erano le grandi compagnie multinazionali, con deep pockets e progetti pluriennali, gli attuali produttori di fracking oil and gas sono spesso piccole banche o cooperative locali e piccoli investitori. Avranno gli stamina e la lungimiranza per resistere?”.

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