questo numero

Democrazia Futura. Presentazione del fascicolo numero dieci (secondo tomo)

a cura di Bruno Somalvico, direttore editoriale di Democrazia futura, con la collaborazione di Giulio Ferlazzo Ciano |

Come è costruito l’impianto e cosa offre l’edificio di questo decimo fascicolo, il secondo del 2023.

Bruno Somalvico

Venerdì 15 settembre abbiamo pubblicato la Presentazione del primo tomo del decimo fascicolo di Democrazia futura, dedicato nella sua prima sezione alla Geopolitica. Qui di seguito l’illustrazione di come è costruito e cosa offre il secondo tomo del decimo fascicolo della nostra rivista. 
Questo secondo tomo articolato in tre sezioni: 
1) la seconda sezione sulla comunicazione e l’innovazione tecnologica; 
2) la terza sezione, da questo numero dedicata alla storia del presente e alla critica del presentismo nella società;
3) la quarta ed ultima parte contenente la consueta Rassegna di varia umanità unitamente alle Rubriche finali.

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Giulio Ferlazzo Ciano

Questo decimo fascicolo chiude a fine settembre con novanta giorni di ritardo. Una fra le ragioni è il rinnovamento della struttura editoriale, se volete anche il menabò di Democrazia futura. Anche in questa occasione il fascicolo si divide in due tomi: il primo tomo, ampiamente dedicato – com’è tradizionalmente la prima parte – alla dimensione geopolitica e contenente due focus di approfondimenti nati da seminari promossi dalla nostra testata insieme a Key4biz; il secondo tomo articolato in tre parti: la seconda sulla comunicazione e l’innovazione tecnologica, la terza, da questo numero dedicata alla storia del presente e alla critica del presentismo nella società, contenente un terzo focus di approfondimento, mentre la consueta Rassegna di varia umanità prosegue nella quarta ed ultima parte insieme alle rubriche finali.

Qui di seguito l’illustrazione dei contributi presenti nel secondo tomo

B. Secondo tomo

Parte seconda Comunicazione e guerra. Storie di media e società nell’era del conflitto in Ucraina

All’indomani della scomparsa di Silvio Berlusconi, Marco Mele scrive un pezzo “Il Cavaliere: una lunga storia, mai raccontata”[1] che ne contiene i “primi appunti”   sotto forma di tre interrogativi iniziali: 1) Berlusconi ha inventato la televisione commerciale? No – risponde Mele – Altri stavano sperimentando nuovi formati, nuovi programmi, nuovi linguaggi, a livello nazionale e locale, prima di lui. 2) Berlusconi ha inventato la concessionaria di pubblicità che ha cambiato il mercato italiano della comunicazione e le stesse modalità di tale comunicazione? Sì Publitalia, più di Fininvest, è stata la sua creatura, la società che ha cambiato quello che era un racconto (lo sceneggiato Rai) in prodotto e poi, per dare spessore culturale e sociale alla marca, ha cambiato il prodotto in racconto, integrandolo al suo interno. E ha introdotto – chiarisce Mele – modalità di acquisizione dei budget innovative, come le over-commission, rispetto al vecchio traino della Sipra (vuoi Carosello e la Rai? Compra i giornali). La costituzione di Auditel è stata fondamentale in questo percorso di trasformazione dei media e della stessa società. Si vendono teste agli inserzionisti: Auditel le rileva e le certifica. 3) Il duopolio non esiste più? Forse, ma continua ad essere prorogato nel futuro: l’attuale governo, a novembre a Dubai, – scrive Mele – chiederà di lasciare alle televisioni digitali terrestri le attuali frequenze, dopo la cessione della banda 700, oltre il 2030. Traduzione: tre multiplex digitali alla Rai e tre a Mediaset, diventata Mfe, con sede legale in Olanda. Un solo multiplex alla tv locali, in ogni regione. La crescita di Mediaset prosegue per anni, a scapito degli altri media, a favore delle multinazionali del consumo, attratte dai bassi prezzi degli spot rispetto ad altri paesi europei, concentrando progressivamente ascolti, risorse, diritti di trasmissione e ritrasmissione, frequenze. E cambiando progressivamente, insieme alla televisione, il pubblico della stessa televisione, abituandolo a vedere i film a spezzoni (come oggi i contenuti video in streaming…), un sistema che mandava in onda circa un milione di spot l’anno, 24 ore su 24. Non senza passi falsi e alcune sconfitte. Come la chiusura de La Cinq in Francia, tutta politica, senza alcun fallimento imprenditoriale. O quella, cocente e costosa, sulla pay tv, con Mediaset Premium, favorita dal clamoroso errore di partenza delle tessere prepagate sul modello telefonico, che impedivano qualsiasi feedback sulle scelte le caratteristiche degli utenti”. 4) Le tre Telepiù, all’origine, nacquero in una sola notte, senza alcuna autorizzazione…Com’è stato possibile? Lo scontro Berlusconi- Murdoch, tra il Biscione e lo Squalo, contrassegna una fase del sistema italiano, con la Rai – ricorda Mele – che si accoda, togliendo i suoi canali da Sky e rinunciando a centinaia di milioni di euro. E ora che Mediaset e Sky hanno trovato un’intesa, che ha cambiato diverse regole del gioco, la Rai non se n’è accorta, e ancora continua a criptare molti suoi programmi sui decoder di Sky, al contrario di Mediaset, perdendo ascolti e togliendo Olimpiadi e Mondiali a quegli italiani che pagano il canone ma hanno il solo decoder della pay tv oggi passata dallo Squalo a Comcast. Tivùsat è un mistero dell’Antitrust nazionale […] è chiaro che l’affermazione di un modello, unico in Europa, di televisione commerciale, dove un solo soggetto privato fa tv generalista (almeno finora), tiene bassi i prezzi degli spot, accumula una massa enorme di diritti e di frequenze, non avrebbe potuto affermarsi senza un solido “sostegno” dato a tutti i livelli da chi avrebbe dovuto difendere l’interesse generale. Ma il pubblico non contava nulla in quest’Italia. Ora le cose cambiano, un cellulare, con un programma di editing, può offrire uno scoop audiovisivo rispetto ai professionisti delle immagini. E, infatti, il duopolio sta scoppiando; e per difendersi sta frenando perfino il passaggio al nuovo standard digitale DVB-T2.  È questa la vera morale di questi appunti, primi appunti, di una lunga storia. Una storia che tutti conoscono. Ma che nessuno ha mai raccontato” conclude Mele.

Un secolo fa: uno sguardo sulla nascita della radiofonia in Italia, dall’URi all’Eiar, alla Rai

Prosegue la ricostruzione di Bruno Somalvico della storia della radiodiffusione in Italia in previsione delle celebrazioni del centenario dell’inizio delle trasmissioni radiofoniche che si celebrerà nell’ottobre 2024. Nell’articolo “Cento anni di radiofonia e settant’anni di televisione in Italia. Parte Prima. 2. Gli anni dell’EIAR (1928-1944)”[2] Somalvico ripercorre le tappe della storia della prima emittente radiofonica nazionale ufficiale segnate dai titoli delle sezioni dell’articolo: “Le caratteristiche della radiofonia in Italia. Un sistema misto di finanziamento. La nascita della Sipra nel 1926”; “Le decisioni della Commissione Turati”; “Il controllo governativo sui programmi e la nascita del Minculpop”; “L’entrata in guerra e l’unificazione dei programmi (giugno 1940”; “Il crollo del regime e la radio nell’Italia occupata”; “La liberazione di Roma, la nuova denominazione Radio Audizioni Italia e la riunificazione delle attività nel dicembre 1945”; “La radio nei primi anni della Repubblica”; “La ricostruzione degli impianti e le nuove sperimentazioni televisive”; “Il rinnovo per decreto della Convenzione del 1952 e l’ingresso della Rai nelle partecipazioni statali”; “La sperimentazione della televisione”. “Per ovvie ragioni – chiarisce in un cappello introduttivo Somalvico – ci limitiamo ad una carrellata rapida sui tratti essenziali nel periodo che va dalla nascita dell’Eiar al cambio di denominazione voluto nel 1944 per segnalare la discontinuità rispetto all’ingombrante passato. Soprattutto gli anni di guerra e nella fattispecie quelli dalla caduta del regime alla liberazione nell’aprile 1945, passando per l’armistizio e le due Eiar sotto il comando delle forze di occupazione, meriterebbero approfondimenti e studi monografici ad hoc, uno per tutti i criteri di applicazione adottati in occasione dell’approvazione delle politiche di epurazione verso il personale maggiormente coinvolto con il regime fascista e la successiva amnistia voluta dal guardasigilli Togliatti. Il contributo – precisa l’autore – va dunque preso solo come un volo d’uccello di carattere generale”.

In primo piano. La Rai negli anni del governo Meloni e il tramonto della cultura nazional popolare

Carlo Rognoni, in un pezzo intitolato “La Rai come sempre preda dei partiti vincitori delle elezioni”[3] chiarisce le ragioni per le quali “Dietro le dimissioni di Fuortes la fretta della premier di scegliere un nuovo Amministratore”. “La Rai ha un difetto tremendo, micidiale. Scrive l’ex direttore de Il Secolo XIX – piace tanto, troppo, ai partiti. E Giorgia Meloni, capo dei Fratelli d’Italia e guida del primo governo di destra, ha fretta: vuole scegliere lei un nuovo amministratore delegato. Forse non c’è da meravigliarsi, se pensiamo al passato e ai primi ministri che l’hanno preceduta a Palazzo Chigi. Sicuramente, tuttavia, c’è da indignarsi. Che il servizio pubblico radiotelevisivo continui a essere preda di quei partiti che hanno vinto le elezioni e non – come dovrebbe essere – una grande azienda culturale con l’obbligo dell’indipendenza e quindi in grado di dare ai cittadini soprattutto un’informazione la più equilibrata e oggettiva possibile, resta una ferita aperta, una triste realtà. L’attuale AD, Carlo Fuortes, ha deciso di accontentare la nuova premier. Scelto nel 2021 dall’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, d’intesa con il presidente del consiglio Mario Draghi, Carlo Fuortes ha capito il messaggio e si è dimesso. Giorgia Meloni non deve più aspettare la scadenza naturale dell’attuale Amministratore Delegato che era prevista per il giugno 2024. […]. Ora staremo a vedere su chi punterà la premier, il centro destra, per sostituire Fuortes, un uomo di grande cultura che aveva appena cominciato – magari con troppa prudenza – a cimentarsi nelle tre grandi sfide che un gruppo dirigente del servizio pubblico deve riconoscere. Primo, tenere i conti in ordine, secondo, confrontarsi con un mercato dell’audiovisivo in crescita in tutto il mondo e che tuttavia in Italia perde colpi, terzo, ridefinire il ruolo di un servizio pubblico grande e ambizioso nell’epoca della rivoluzione digitale, passando dall’informazione”.

Per gentile autorizzazione della rivista Il Mulino segue un’analisi di Francesco Devescovi su “La Rai alla prova del Governo Meloni[4]. Secondo l’ex dirigente Rai già direttore di Rai ERI, quello che per molti è l’assalto alla Rai potrebbe diventare, insieme alla fine dell’era Berlusconi, la fine del duopolio. Con molte incognite per le sorti della radiotelevisione pubblica. “Nel 2022 – scrive Devescovi – la Rai ha raggiunto il 38 per cento di share degli ascolti in prima serata, a fronte del 36 per cento raccolto da Mediaset. L’una e l’altra insieme hanno dunque il 74 per cento del totale degli ascolti televisivi. La Rai acquisisce una quota della pubblicità nazionale televisiva nettamente inferiore rispetto agli ascolti (che sono il parametro principale che determina la potenzialità pubblicitaria di un mezzo): il 20 per cento, pari a circa 700 milioni (dati Nielsen), mentre Mediaset ha una quota ben superiore, il 56 per cento, pari a 1 miliardo e 980 milioni (insieme raggiungono il 76 per cento della pubblicità televisiva). Questo particolare meccanismo, da sempre operante nel sistema televisivo, nasce dal fatto che la Rai è finanziata anche dal canone (per il 72 per cento dei suoi ricavi) e deve quindi trasmettere una quantità di messaggi pubblicitari di gran lunga inferiore rispetto ai concorrenti (più di un terzo in meno). Questo meccanismo fa sì che il canone nella pratica diventi una risorsa dell’intero sistema, finanziando da un lato direttamente la Rai ma, dall’altro, indirettamente l’intero mercato e quindi anche Mediaset. Questo meccanismo ha reso i due oligopolisti “solidali” nella difesa del sistema televisivo, un sistema che non a caso non è mai stato cambiato, dal momento che entrambi gli operatori ne traggono vantaggio: Mediaset in misura diretta, la Rai perché così allontana ogni ipotesi di privatizzazione, prospettiva che ciclicamente riappare nel dibattito politico, e perché le vengono garantiti i finanziamenti pubblici. […] L’obiettivo principale della destra sembra essere quello di “smantellare” Raitre, tanto che a questa rete vengono rivolte le accuse peggiori. Si enuncia il proposito di introdurre una nuova “narrazione” che sostituisca quella finora dominante, identificata con la sinistra (e non ci sarebbe nulla da obiettare ovviamente se questa ipotetica “nuova narrazione” dovesse aumentare il livello culturale della rete e nel contempo aumentare gli ascolti). Raitre è la rete culturale per eccellenza: è, semplicemente, “buona televisione”, realizzata da professionisti seri che, almeno nella maggioranza dei casi, non hanno alcun proposito di imporre una determinata “narrazione politica”. Diversi direttori si sono succeduti, ma la sua ossatura è rimasta intatta. Almeno finora. Il rischio è che una parte consistente del pubblico di Raitre (al momento la terza rete per ascolti, dopo Raiuno e Canale 5) passi su altri canali: perdendo anche solo la metà di quanto ora consegue, la Rai perderebbe il primato degli ascolti, per la prima volta nella storia della televisione, a vantaggio del gruppo Mediaset. Grossi nuvoloni neri si addensano dunque su viale Mazzini e Saxa Rubra. Ma a garanzia c’è il cosiddetto “partito Rai”, composto da diversi soggetti: i lavoratori interni, che come d’abitudine si assoggettano ai nuovi “padroni” politici ma tendono anche a frenare le loro pretese quando si mettono a rischio i conti e l’immagine dell’azienda; gli autori dei programmi, perlopiù esperti che non si lasciano condizionare più di tanto, così come gli agenti delle star; e poi il mondo della pubblicità, gli inserzionisti, che esigono che la Rai mantenga la sua forza editoriale. Infine, ultimo “protettore”, c’è l’Auditel, che ogni mattina comunica i risultati degli ascolti del giorno prima. I problemi maggiori per la Rai sorgeranno per un altro motivo. La scomparsa di Silvio Berlusconi rimetterà in discussione tutto l’assetto della televisione. L’attenuarsi della “forza” del partito-azienda potrebbe indebolire l’azienda del Biscione, e di riflesso anche la Rai. Quel meccanismo di ripartizione delle risorse, segnalato all’inizio, potrebbe così venir meno o almeno incrinarsi. Ma se i destini di Rai e Mediaset dovessero separarsi, è in quel momento che si capirà qual è la vera “forza” della Rai – conclude.

Stefano Rolando, nel suo pezzo “La Rai e le Italie da raccontare”[5], torna sulle recenti polemiche giornalistiche che hanno investito il servizio pubblico. Molti i dibattiti in parallelo sul destino della Rai. La governance, le risorse finanziarie (il canone, a chi, come?), professionisti che vanno e vengono, la trasformazione digitale, il rapporto pubblico-privato. Prove e controprove di nuova riforma ovvero di nessuna riforma. Ma – con un giro di opinioni di questa prima infuocata metà di luglio – anche una discussione sui contenuti. Il nuovo direttore generale della Rai (Giampaolo Rossi) e alcuni giornalisti che la Rai la conoscono (Aldo Grasso e Corrado Augias). Un’occasione per qualche commento sulle Italie da raccontare. “Quello che dovrebbe interessare di più sia gli spettatori che il mondo culturale e creativo riguarda i contenuti. Cioè, la qualità, la natura, il trattamento di ciò che si mette in onda, con una logica distributiva che è la vera strategia competitiva di una tv, di qualunque tv, che si chiama palinsesto. Cioè come distribuire nello scorrere delle 24 ore diverse tipologie di prodotti, sia per raggiungere i pubblici desiderati, sia per guadagnare ascolti rispetto ai concorrenti, concorrenti che quel giorno e a quell’ora fanno la stessa cosa. […]. Penso – aggiunge – che porsi alla testa d’una grande battaglia per la riduzione drastica dell’analfabetismo funzionale che Tullio De Mauro stimò a oltre il 45 per cento oltre venti anni fa e che l’OCSE ha un po’ retrocesso ad un terzo degli italiani (cifra pur sempre spropositata) riprodurrebbe lo stesso senso epocale di battaglia culturale e sociale che ebbe la Rai quando partendo dai duri anni Cinquanta diede l’assalto all’analfabetismo tout court […]. Oggi è tuttavia necessario aprire ai grandi temi del terzo millennio: la comunicazione scientifica, la sostenibilità, le forme di apprendimento, i divari cognitivi, la salute, eccetera. Nelle priorità della linea editoriale io in questa fase storica collocherei anche il tema di una forte impronta euro-mediterranea della programmazione (per temi, linguaggi, connessioni valoriali, economiche e identitarie) a sostegno dell’unica prospettiva importante per la geopolitica italiana. Questo comporta un ruolo al tempo stesso popolare ma anche critico dell’informazione e dell’intrattenimento. Il cui obiettivo maiuscolo diventa più importante – perché misuratore del lavoro di tutti e di tutta l’azienda – di questo o quel giornalista autocelebrativo o socialmente inerte o persino provocatore, così da riallineare l’idea del management pubblico ad obiettivi per l’appunto pubblici e non rivelatori di una cultura da ‘suk’. Per non essere frainteso voglio dire che sulla parte di rilancio della competitività della Rai – di cui parla Giampaolo Rossi – sono d’accordo in via di principio, ma penso che questa espressione debba contenere non solo il tema dei compensi artistici e professionali ma soprattutto i temi di cercare nuovi pubblici oggi estranei al servizio, costruendo questo rapporto su grandi presupposti di innovatività”.

Rete Internet veloce, strategie di migrazione e riprogettazione del lavoro e delle professioni

La rapida crescita degli Over the Top nella catena del valore di Internet

Troppo spesso nella nostra vita quotidiana – ad esempio quando siamo in metropolitana, in treno, o in un luogo affollato – cade la linea telefonica del nostro smartphone o improvvisamente non riusciamo più a collegarci alla rete. Quante volte si interrompe un’intervista radiofonica in diretta e il conduttore è costretto a cambiare la scaletta! La tutela dei consumatori dei professionisti e delle aziende passa attraverso il rispetto non solo delle regole della concorrenza da parte delle telco e dei regolamenti per il trattamento dei dati personali da parte degli Over-the-Top, ma anche di determinati parametri per assicurare al contempo la qualità e la sicurezza dei servizi offerti, oltre alla tutela, naturalmente, della salute degli utenti finali. Per questo motivo Democrazia futura ha chiesto a tre ingegneri fra i massimi esperti italiani in materia, come – di fronte alla “rapida crescita degli OTT nella catena del valore di Internet” che sta creando “Un ecosistema ICT con pochissimi grandi operatori globali” (così lo definisce nella premessa l’Ingegner Ciccarella) – sia possibile superare “i limiti attuali” e migliorare “La qualità dei servizi sulla rete Internet”,  tenendo altresì presente – come recita l’occhiello – “Lo scenario di riferimento verso la Rete Internet Veloce”. Daniele Roffinella, docente all’università degli Studi di Torino e lo stesso Gianfranco Ciccarella, Senior Telecommunications Consultant, chiariscono in un mini saggio, scritto in un linguaggio facilmente accessibile con un notevole sforzo pedagogico divulgativo di cui siamo loro grati, questa complessa problematica costretta peraltro a fare i conti – chiariscono i due autori – con un quadro tecnico-applicativo in continua evoluzione. L’esposizione molto esaustiva si conclude con quattro “Considerazioni finali sui trend tecnologici in atto e i loro condizionamenti  sulle scelte e sulle strategie più appropriate” a fronte della “defisicizzazione della rete”, del ruolo crescente dell’edge computing, della convergenza by design e, infine dell’automazione di rete resa possibile dalla virtualizzazione e dal progressivo impiego dell’Intelligenza Artificiale: “Riprogettare la rete… ma come?” questo l’interrogativo finale di Pierpaolo Marchese, Independent ICT Consultant. 

Internet, banda ultralarga e intelligenza artificiale. Una partita che investe molto la difesa

Nella sua “Premessa. Un ecosistema ICT con pochissimi grandi operatori globali[6] Gianfranco Ciccarella nota come“la ‘catena del valore’ di Internet ha visto prima comparire e poi crescere rapidamente nuovi soggetti, accanto ai tradizionali operatori di rete (i ‘Telco’) che offrivano e offrono i servizi di rete (cioè il trasporto delle informazioni). “In particolare – scrive Ciccarella – a livello mondiale si sono affermati i cosiddetti ‘Over The Top’ (OTT), che offrono la maggior parte delle applicazioni e dei servizi (i servizi applicativi, come browsing, streaming video, Whatsapp, e-commerce, gaming, social network, …) e utilizzano i servizi di rete per raggiungere i Clienti, che sono connessi alle reti degli operatori di telecomunicazioni (i cosiddetti Telco). Nell’ecosistema ICT i Telco offrono, oggi, i servizi di rete e una piccola parte di Servizi applicativi. Pochissimi grandi operatori globali (‘Hypergiants’) hanno rapidamente conquistato la parte preponderante del ‘valore’ generato dall’ecosistema, portando a cambiamenti drastici, come confermato anche dalla inarrestabile crescita delle capitalizzazioni di borsa di tali soggetti, a fronte di una perdita di valore di moltissimi Telco. Nuovi modelli di business, completamente differenti da quelli classici della ‘vecchia telefonia’, hanno cambiato lo scenario, e mentre la remunerazione dei ‘servizi di rete’ in senso stretto si è notevolmente ridotta (vedi il famoso ‘traffic paradox’), gli utenti utilizzano (spesso in modo apparentemente ‘gratuito’) applicazioni che sono offerte dagli OTT ‘al di sopra della rete’, secondo modalità di tipo ‘Client-Server’; i ‘Client’ sono normalmente nei terminali e negli apparati d’utente, mentre i ìServer’ sono degli OTT, e sono tipicamente situati nei loro grandi Data Center. La diffusione e l’aumento della complessità delle Applicazioni ha determinato un’enorme crescita del traffico che le reti sono chiamate a smaltire, e ci ha portati nella cosiddetta ‘Zettabyte era’. Garantire, nel nuovo contesto, che la qualità di fruizione percepita dai Clienti (la Quality of Experience) sia adeguata, richiede di superare molteplici sfide architetturali e tecnologiche, rimanendo nel contempo entro le regole del gioco dettate dagli organismi di regolazione (AGCOM per l’Italia) e dai vincoli imprescindibili di sostenibilità economica; una parte importante di questo sforzo rientra nelle responsabilità dei Telco, impegnati nei processi di trasformazione della rete, che hanno precisamente l’obiettivo di migliorare la qualità dei servizi applicativi”.

Segue l’autentico mini saggio di Gianfranco Ciccarella e Daniele RoffinellaLa qualità dei servizi sulla rete Internet. I limiti attuali e come migliorarla”[7]. Si parte dal presupposto che il PNRR ha stanziato fondi per la rete internet ad ‘alta velocità’ per quelle aree geografiche ritenute ‘a fallimento di mercato’, tuttavia restano “criticità sulla qualità dei servizi già oggi offerti su Internet” e pertanto l’articolo si propone un’analisi su come si possano realizzare tali reti veloci con il giusto grado di qualità e “quali opzioni esistano per superare i limiti attuali”. Capire  “cosa voglia dire ‘realizzare reti Internet veloci’, cioè in grado di garantire la qualità necessaria per i nuovi servizi applicativi, partendo dalla identificazione di quali fattori condizionino la qualità e quali opzioni esistano per superare i limiti attuali; questo sarà fatto senza rinunciare alla correttezza: il lettore verrà a conoscenza di alcuni aspetti ‘tecnici’ necessari per una comprensione di problematiche chiave da affrontare quando si vuole analizzare consapevolmente il tema della evoluzione della rete e dei suoi assetti.  Come noto, sullo sviluppo della rete c’è ancora molto da fare, in quanto da un lato restano criticità sulla qualità dei servizi già oggi offerti su Internet (ad esempio in molte aree geografiche la rete non risulta adeguata per i servizi video streaming a qualità full HD, oppure full 4K); dall’altro lato nuovi servizi (come applicazioni di realtà aumentata o di guida autonoma) non sono oggi disponibili sulle reti geografiche (sono realizzati solo su aree limitate, oppure all’interno di un edificio). Un punto chiave è la comprensione di ‘cosa’ limiti intrinsecamente la qualità dei servizi sulla rete Internet, e quali soluzioni esistano per migliorarla; a questo scopo è importante individuare quali sono le ‘componenti’ di Internet e quali i ‘segmenti della rete’ che maggiormente limitano, oggi, la qualità per gli utilizzatori finali, allo scopo di potersi orientare nel complesso lavoro di definizione delle priorità per gli auspicabili interventi migliorativi”. Necessario innanzi tutto “fare chiarezza circa i diversi ruoli dei principali player dell’ecosistema Internet: gli Over The Top (OTT), i Content Delivery Provider (CDP), i Telco, i costruttori di apparati di rete e di terminali, gli sviluppatori di Applicazioni, i regolatori”. Viene inoltre illustrati i vantaggi nell’installazione nella rete di soluzioni Edge Cloud Computing (ECC) per “soddisfare i bisogni degli utenti finali e contenere i costi infrastrutturali”. Un primo aspetto fondamentale è la comprensione delle differenze e delle interrelazioni fra Servizi Applicativi e Servizi di Rete; troppo spesso essi vengono implicitamente visti come una sola tipologia, e da questa confusione possono nascere analisi e valutazioni non corrette. Nell’ecosistema Internet, infatti, esistono due ‘mondi’ nettamente distinti, anche se strettamente interallacciati: il mondo delle ‘infrastrutture di rete’, che possiamo pensare come delle fondamenta, ed il sovrastante mondo delle ‘applicazioni’, costruite su quelle fondamenta. Abbiamo quindi due ‘livelli’ giustapposti.  In basso ci sono tutti gli apparati fisici delle reti fisse e mobili, e la pluralità dei terminali connessi alle reti: le linee di telecomunicazione realizzate con cavi in rame, fibre ottiche, antenne radio, gli apparati di centrale, i router, gli armadi stradali, gli apparati ADSL, 5G, LTE, WiFi, Bluetooth, i telefoni, gli smartphone, i tablet, i PC, gli elettrodomestici ‘smart’ connessi a Internet, eccetera […]. Il livello superiore è quello delle ‘Applicazioni’, i programmi software che ‘girano’ nei ‘Server’ sparsi nella rete (a cui ci si riferisce spesso quando si parla di ‘nuvola’, di ‘Cloud’), e il loro corrispettivo software che ‘gira’ nei terminali, ospitati nelle nostre case, uffici, e nelle nostre… tasche: in questo livello alto, in molti casi, le Applicazioni nel terminale (o ‘Client’) dialogano con corrispondenti Applicazioni remote (i ‘Server’), secondo modelli chiamati, appunto, ‘Client-Server’. L’articolo distingue bene le Reti dei Telco dalle Reti degli Over The Top (OTT) e dei Content Delivery Provider (CDP). Le reti dei Telco sono le infrastrutture della rete internet che gestiscono il trasporto dei dati dai terminali degli end user (o gli ‘oggetti’) ai Server, che offrono i servizi. I Server che sono, nella maggior parte dei casi, nelle reti degli OTT e, in alcuni casi, nel Core delle reti dei Telco. Le reti dei Telco sono costituite da una molteplicità di apparati di natura eterogenea distribuiti sulle aree geografiche di grande, media e breve distanza: router (detti anche ‘nodi di commutazione’ (in cui i flussi dei bit vengono smistati verso le destinazioni appropriate), cavi in rame, in fibra, antenne, ma anche tutti i sistemi di gestione e controllo, centralizzati e distribuiti, necessari per garantire in ogni istante lo scambio sicuro, affidabile, efficiente della enorme quantità di informazione fra i terminali e i Server. Nel mondo di Internet il punto chiave, già richiamato, è che tipicamente i terminali non dialogano direttamente fra loro, ma con i ‘Server in Cloud’ (normalmente gestiti dagli OTT), i quali ospitano il Software con cui interagiscono le Applicazioni ‘Client’ dei terminali”. Dal canto loro “Gli Over The Top (e i Content Delivery Provider) gestiscono a livello mondiale i servizi applicativi, che sono, in generale, completamente separati dai servizi di rete e utilizzano servizi di connettività offerti da altri player (International Wholesaler). In alcuni casi, gli OTT hanno anche proprie reti (come Google) e gestiscono quindi direttamente sia la connettività ai ‘livelli bassi’ (servizi di rete), che le comunicazioni ai ‘livelli alti’ (servizi applicativi). Le reti degli OTT/CDP si collegano alle reti dei Telco, tipicamente al segmento Core delle reti dei Telco, dove nelle reti tradizionali è visibile il Livello 3, che è necessario per l’interconnessione”. L’articolo descrive i Vantaggi offerti dalle piattaforme Edge Cloud Computing ECC nelle reti dei Telco Il termine Edge Cloud Computing fa, trasparentemente, riferimento a contesti in cui la Elaborazione (…e lo storage…) avvengono non solo nel ‘Cloud’, ma anche in luoghi fisici denominati ‘Edge’; l’Edge è, in generale, il ‘bordo’, la ‘periferia’ della Rete, qualunque luogo situato a ‘minore distanza’ dai terminali e dai sistemi dell’Utente Finale rispetto ai Server del tradizionale Cloud.  La novità quindi, rispetto alle architetture Cloud ormai consolidate da tempo, consiste precisamente nella componente ‘decentralizzata’ del ‘processing’.  L’Edge Cloud Computing rappresenta una realtà in crescita in molteplici settori dell’Information & Communication Technology (ICT). Tutte le organizzazioni internazionali degli Operatori di telecomunicazioni (GSMA, 3GPP, ETNO, ETSI), hanno assunto una chiara posizione sull’Edge Cloud Computing, che è considerato oggi uno dei pilastri dell’evoluzione dell’architettura delle reti fisse e mobili dei Telco, e può essere realizzato nella rete dei Telco in tempi relativamente brevi… Degno di attenzione è l’impegno che la Cina ha deciso su questa tecnologia, in particolare in relazione ai settori del 5G e dell’IoT, che l’ha portata a livelli di leadership mondiale. L’articolo si conclude con alcuni Commenti sull’evoluzione della rete e dei servizi offerti dai Telco e Commenti sulla regolamentazione per le reti Ultrabroadband (UBB) e Very High Capacity (VHC).

Segue il contributo di Pierpaolo Marchese “Riprogettare la rete … ma come? Considerazioni sui trend tecnologici in atto e i loro condizionamenti sulle scelte e sulle strategie più appropriate”[8]. Quattro i punti affrontati: “1) La defisicizzazione della rete. Le nuove reti stanno riducendo al minimo l’HW, e si sta diffondendo a tutti i livelli, anche all’accesso, lo sviluppo SW delle funzioni di rete, replicando i modelli di erogazione servizi già in uso nei Cloud Data Centre: virtualizzazione, separazione dei dati dalla capacità computazionale, Application Programming Interfaces (API), composizione modulare di moduli omogenei (microservizi), separazione del controllo dal flusso informativo (user plane). Questa defisicizzazione riduce notevolmente le barriere all’ingresso di nuovi attori, allarga l’orizzonte dei Service Provider e trasferisce sempre più il valore dall’infrastruttura fisica di connettività al controllo e alla orchestrazione delle funzioni e dei contenuti in cloud. I leader tecnologici di questa evoluzione sono Stati Uniti d’America e Cina. 2) Il ruolo dell’edge computing. Nella futura (ma non troppo lontana) Gigabit Society del Metaverso e dell’Augmented Reality, dell’Industrial Internet of Things e dell’Autonomous Driving, la distribuzione dell’intelligenza di rete in isole edge interconnesse e federate sarà sempre più strategica. Occorrerà costruire e gestire reti nuove non più sulla base del “solito” incremento dì velocità trasmissiva (bps, Throughput), ma anche, forse soprattutto, sulla minimizzazione della latenza, l’affidabilità della connessione, la capacità di condivisione computazione tra terminale e rete. 3) La convergenza by design. Le nuove reti, sospinte dalla necessità di armonizzazione tecnologica e riduzione del costo totale di possesso (Total Cost of Ownership – TCO) procedono spedite verso una convergenza ignota fino a pochi anni fa (fisso/mobile, media/telco, satellitare/terrestre, pubblico/privato) tendendo ad una piattaforma integrata e tecnologicamente omogenea, diversificata solo in alcuni aspetti (accesso, spettro radio) ed a livello di gestione. L’uso delle tecnologie si mescola sulle nuove reti, rompendo vecchie barriere: ad esempio, il Fixed Wireless Access su reti fisse, l’IoT su fibra, il broadcasting su reti mobili. La core network 5G è by design già predisposta dagli standard internazionali ad essere il riferimento di questa convergenza e sta prendendo forma, nella Industry, un nuovo modello di rete totalmente integrata (Integrated Optical & Wireless Network- IOWN) orientato al 2030. 4) L’automazione di rete. Le statistiche delle Telco dimostrano che circa il 70 per cento del TCO è imputabile a spere operative (Operational Expenditure dette OPEX), in particolare sulla rete mobile, e di questo buona parte è dovuto ad operatività e manutenzione. Grazie alla virtualizzazione e al progressivo impiego dell’Intelligenza artificiale il percorso verso una rete “autonoma” nelle sue modalità gestionali sta procedendo in modo interessante […] Questi scenari impattano, come naturale, sulla forza lavoro del settore almeno altrettanto quanto gli assetti societari e si porrà sempre più un problema di skills e formazione. Inoltre, per essere efficace l’automazione comporta anche la raccolta e la condivisione di enormi moli di dati dalla periferia della rete ed una visione end to end che superi le barriere tra differenti segmenti e livelli di rete. Da qui emerge un ultimo interrogativo. Sapranno le nuove reti integrate orizzontalmente impiegare nuovi modelli di collaborazione compatibili con i benefici dell’automazione e l’incremento dell’affidabilità complessiva richiesta dai clienti? Domande complesse che richiedono certamente risposte complesse – osserva in conclusione Marchese – ma che dimostrano una volta di più che la tecnologia non solo induce al cambiamento ma anche orienta la ricerca e la selezione di nuovi assetti”.

Con un’introduzione dell’IngegnerPieraugusto Pozzi, Democrazia futura apre una riflessione sul tema de “Il lavoro di fronte alla grande trasformazione digitale[9].Secondo studi accademici e istituzionali (Oxford University, McKinsey, World Economic Forum, OCSE, Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT-ILO)) molti mestieri e professioni saranno messe in discussione dal digitale: una tendenza – scrive Pozzi – rafforzata dall’irruzione delle applicazioni di intelligenza artificiale generativa. In senso generale, le statistiche, sia a livello globale sia a livello nazionale, confermano il calo costante della componente lavoro rispetto a quella rendite-profitti sul PIL, non solo nei paesi ad alto reddito medio, ma anche in quelli di recente sviluppo. Un elemento ancor più preoccupante – aggiunge Pozzi – se si tiene conto del fatto che la quota reddituale del lavoro è sostenuta da redditi, elevati o elevatissimi, di super-dirigenti e super-professionisti, mentre è mediamente e costantemente in calo per i redditi medio-bassi […]. Lavoro povero e disuguaglianze sono l’effetto evidente e ampiamente discusso di queste dinamiche.

 Segue un primo contributo di Maurizio Morini, consulente strategico per imprese e organizzazioni, esperto di innovazione ed economista, dedicato a “Le professioni in divenire e le prospettive del lavoro e dei lavori”[10], nel quale – dopo “un’analisi dell’evoluzione dell’occupazione a partire dal 2005 e delle previsioni per i prossimi anni” – l’economista affronta “La valutazione dei nuovi impatti tra automazione, intelligenza artificiale e lavoro umano”, prima di evidenziare “Il carattere cruciale delle conoscenze e delle competenze ‘tecnologiche’ da acquisire” e di indicare “La strategia da imboccare per approdare a ecosistemi lavorativi evoluti” che favoriscano quella che – nelle conclusioni – Morini definisce “[…] una nuova economia della collaborazione”. Il nuovo ecosistema di sviluppo del lavoro e le sfide che l’attendono si basano a mio avviso su una serie di argomenti chiave quali la redistribuzione del reddito, il ruolo delle attività professionali e dei lavori a chiamata, i temi relativi all’equilibrio di genere, la sostenibilità e naturalmente la digitalizzazione diffusa. Per questo il punto cruciale per il Sistema Italia resta lo sviluppo diffuso della competenza informatica.Se le conoscenze informatiche saranno la chiave per qualsiasi lavoro, anche per compilare un form su una APP a testimoniare un completato incarico, una tesi che non è così scontata è quella di far inserire questo tema anche nella contrattualistica collettiva nazionale di ogni settore d’impiego, al fine di rendere non facoltativo l’accrescimento delle competenze necessarie […] il tema del reskilling (apprendere nuove competenze), che diventa cruciale per mantenere in vari settori le persone al lavoro. Mentre la formazione si rivolge allo stesso ruolo che evolve, questo tema concerne la preparazione per svolgere nuovi incarichi, al fine di poter fornire subito apporti gratificanti anche per gli stessi interessati, soprattutto per le persone che operano in professioni a rischio di obsolescenza. Inserire la crescita trasversale della professionalità personale come tema cruciale dei lavori del futuro diventa quindi molto importante, per porre la centralità della soddisfazione delle persone e di conseguenza delle imprese. In tal senso le iniziative di coaching lavorativo e di formazione ad “intraprendere” appaiono davvero una necessità da prevedere da parte di lavoratori e aziende, e di conseguenza da normare. Per risolvere quindi le problematiche strutturali del mercato del lavoro, è opportuno concentrarsi fin d’ora su quello che può fare crescere collettivamente tutto il sistema. Per questo appare opportuno – conclude Morini – cambiare anche alcune logiche economiche di base: dobbiamo promuovere una nuova ‘economia della collaborazioneì per lo sviluppo del lavoro e dei lavori”.

Parte terza Storia del presente. Critica del presentismo

Dopo aver avviato un primo dibattito sul tema “Patria, Nazione, Paese”, apriamo un secondo cantiere dedicato agli ultimi trent’anni: con la critica del presentismo inauguriamo un “processo alla Seconda Repubblica (1993-2023)” istruito da un articolo di Stefano Rolando dal titolo “Il vituperio della seconda Repubblica. I danni prodotti nella vita pubblica per le giovani generazioni”[11], in cui invita “gli storici ad inventariare i difetti più clamorosi che hanno inciso nella vita pubblica italiana” e fra di essi ne elenca ben undici. “1) ha costruito la quadruplicazione dell’astensione; 2) ha ridotto del 50 per cento gli indici di fiducia dei cittadini italiani nei confronti delle istituzioni; 3) ha cancellato dalla scena politica tutti i partiti storici che hanno forgiato la Costituzione italiana;  4) ha generato una crescente offerta di politica attorno alle forme e alle ambiguità del populismo facendolo diventare una cultura trasversale che ha modificato sia la selezione della rappresentanza che i linguaggi della politica; 5) ha coperto l’assenza di nuovi ‘statisti’ prodotti nel contesto politico-parlamentare utilizzando almeno per il Quirinale le riserve della Nazione della prima Repubblica; 6) ha ridotto la rappresentanza parlamentare (un danno democratico) facendo credere di avere ridotto il costo della politica (una consapevole menzogna); 7) ha reso diffuso e senza scrupoli il cambio delle casacche degli eletti; 8) ha divorziato dalla cultura politica e dalla cultura tout court, generando carriere politiche non su comprovate competenze ma su militanze a spese del contribuente; 9) ha verticalizzato l’agire politico nel quadro di ‘palazzi’ capaci di parlare ad altri palazzi ma – salvo alcune eccezioni – lontani dai territori, dalla società civile e dall’associazionismo sociale e solidale; 10) ha finito per polarizzare lo schema egemonico di governo e opposizione marginalizzando la rappresentanza dello storico pluralismo sociale; 11) ha fatto credere che è solo la fragilità dei mercati a mettere le nuove generazioni che cercano la via del lavoro in condizioni di precarietà, impedimento e disarmo delle speranze che non ha precedenti nemmeno nei tempi delle emigrazioni di massa […]. Nessun giovane vorrebbe sentirsi dire che gli anni che si identificano con la propria venuta al mondo e con l’avvio della propria esperienza di vita sono così costellati da un declino impressionante della qualità della vita pubblica. Pena il rifuggire sempre più e in modo sempre più numeroso dallo slancio partecipativo, dal voler portare un contributo – collaterale agli studi, al lavoro, a qualche impegno nel sistema delle rappresentanze – orientato agli interessi generali e al bene comune. Se si crede che il declino della politica riguardi solo la dequalificazione di un settore ci si sbaglia. Esso, cioè il declino, incide trasversalmente sulla qualità sociale, sulla qualità decisionale, sulla qualità istituzionale, sulla qualità economica e sulla qualità reputazionale. Di tutti”.  Occorre “Misurare attraverso il senso della storia il declino della nazione”. “Vorrei togliere di mezzo l’idea che questo ragionamento sia dovuto ad una botta di pessimismo. È che il presentismo della politica e dei media mette quasi tutti noi in condizioni di giudicare il giorno per giorno. Andiamo a letto la sera, dopo magari un tg e un talk show e ci sembra che le cose siano un po’ più sgualcite, un po’ più preoccupanti. Ma che l’insieme non sia così diverso dal giorno precedente. È solo il senso della storia, il confronto con i decenni che precedono, a dare la misura dell’ascesa o del declino di una nazione, di una comunità, di un territorio. Si pensi che il fascismo, durato 23 anni (compreso Salò) ha prodotto un’intera biblioteca che lo stesso recente anno del centenario della nascita ha ulteriormente dilatato. La ‘Seconda Repubblica’ non comincia con una marcia su Roma ma con un video da Arcore di un imprenditore che dice ‘Io amo questo Paese’. Il copione delle illusioni è ancora parte del Made in Italy e pertanto lo scaffale è assai più limitato. Se si pensa che questa Seconda Repubblica si potrebbe concludere con un governo in cui primeggia il partito che porta come emblema visibile l’origine ideale del regime autoritario abbattuto dalla Prima Repubblica (simbolo ancora non disconosciuto) si può percepire come questa citazione non sia campata per aria”.

Patria, Nazione e Paese. Per un confronto politico a tutto campo. I. I conti con la storia: dalla caduta del fascismo alla morte della patria

Presentando la terza grande area di nuova riflessione della rivista dedicata alla storia del presente e alla critica del presentismo, il direttore editoriale di Democrazia futura Bruno Somalvico, osserva in apertura nel suo articolo “Un 25 luglio dimenticato. Giorgia Meloni e i conti con la storia: un’occasione mancata”[12] come sino ad oggi l’Italia “non è riuscita a fare i conti con il proprio passato, con quella che è stata definitiva la ‘morte della patria’ che fa seguito alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e alla successiva occupazione tedesca del Paese e guerra civile dopo la firma dell’armistizio di Cassabile resa nota l’8 settembre 1943. A sinistra la maggioranza di quello che ai tempi di Enrico Berlinguer veniva definito il popolo di sinistra non ha mai riconosciuto pienamente il carattere totalitario dei regimi comunisti del cosiddetto socialismo reale, sognando sempre altresì una terza via per distinguersi dal socialismo democratico, visto come un intralcio alla realizzazione di un’intesa con le forze del cosiddetto cattolicesimo democratico, dando vita ad un gran contenitore pigliatutti come il Partito Democratico. A destra, nonostante la fine della  conventio ad excludendum che aveva impedito al MSI di costituire un’alternativa parlamentare credibile durante la Prima Repubblica, né il successivo sdoganamento delle forze politiche provenienti dal neofascismo nella stagione a prevalenza maggioritaria nei primi anni della Seconda Repubblica, né la recente affermazione di Fratelli d’Italia che ha portato a Palazzo Chigi il primo premier con quella provenienza, hanno sinora consentito a queste forze politiche di fare pienamente i conti con il fascismo e in particolare con quelle due date. Il silenzio di Giorgia Meloni in occasione dell’ottantesimo anniversario del 25 luglio non sembrerebbe preludere ad una chiarificazione sul significato dell’8 settembre, o ad accettare la festa del 25 aprile come un momento di chiusura della frattura che segna ogni anno la comunità nazionale in occasione di quella commemorazione e quindi di celebrazione di una memoria finalmente condivisa tra tutti gli italiani otto decenni dopo”.

Stefano Rolando interviene su due date chiave della storia italiana del Novecento: “Tra il 25 luglio e 8 settembre, ottanta anni dopo. Banco di prova importante anche per l’Italia di oggi”[13]. Dalla fine del 2022 il governo italiano è guidato dalla forza politica che mantiene nel suo simbolo la memoria del fascismo che dopo l’8 settembre non sceglie – osserva lo studioso milanese esperto di comunicazione pubblica – la linea dell’armistizio e della conclusione del lungo e infelice ciclo compiutosi con la tragedia della guerra a fianco della Germania nazista. Ma sceglie la linea dell’orgoglio mussoliniano di non riconoscere l’armistizio e ricostituirsi come forza subordinata al nazismo per mantenere nel nord una forma di continuità di potere senza più alcuna libertà e indipendenza e fronte della guerra civile che sarebbe inevitabilmente nata tra territori occupati e invasi (la vera e propria Resistenza) e il nazifascismo sodale in un tragico biennio. Che significherà un violento trattamento dei nemici sul campo (alleati e resistenti) e un criminale trattamento di civili e inermi, tra cui la catastrofe umanitaria della persecuzione degli ebrei che sarà condotta – sodalmente – nel principio dello sterminio. Questa storia non è solo quella scritta dai vincitori. […] Se il governo italiano, con la sua presidente, darà in questa occasione un coraggioso definitivo chiarimento su questa indimenticabile parte della nostra storia contemporanea – prosegue Rolando – la continua invocazione della premier Giorgia Meloni alla priorità degli “interessi nazionali”, troverà un primo sincero senso di condivisione con la maggioranza degli italiani.  Se ciò non avverrà – anche sotto forma di confusive dichiarazioni – la vera nuova vertenza, cuore della campagna elettorale verso il 2024 europeo – sarà proprio quella che potrebbe apparire come la mancanza di presupposti per Fratelli d’Italia di rivendicare un qualunque presidio proprio degli “interessi” – conclude Rolando.

Per gentile concessione del professor Giovanni Orsina, promotore del convegno La Repubblica dei complotti. Lo stile paranoico nella politica italiana tenutosi a Roma, presso la School of Government della Luiss l’11 e 12 maggio u.s,,  Democrazia futura propone la relazione di  Vladimiro Satta su “Le trame eversive degli anni Settanta: le dietrologie e la realtà“[14] nella quale lo studioso di storia contemporanea e documentarista del Servizio Studi del Senato della Repubblica spiega – come recita l’occhiello –   “Perché le stragi non fecero crollare né lo Stato, né i partiti, né i leader del sistema politico e istituzionale, il colpo di Stato non si fece e i terroristi non ottennero l’appoggio delle masse”. “Il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta offre parecchio materiale per un discorso sulle teorie complottistiche, o dietrologie. Non a caso il termine dietrologia è una parola nata negli anni Settanta, appunto in relazione ai casi italiani di attentati stragisti e di trame eversive (che cronologicamente precedettero, sia pure di poco, lo sviluppo della lotta armata all’estrema sinistra). Pertanto le teorie specificamente riguardanti le trame golpiste dell’epoca, ovvero la minaccia contro le istituzioni democratiche che più si avvicina alla rappresentazione dei fatti dell’estate 1964 illustrata e criticata dall’onorevole Mariotto Segni, vanno esaminate non da sole bensì nel contesto della cosiddetta ‘strategia della tensione’, l’espressione di origine giornalistica che unifica – assai discutibilmente – tutti gli episodi di terrorismo e di eversione di destra, e, talvolta, arriva ad includervi persino il terrorismo di sinistra, insinuando dubbi sulla genuinità di quest’ultimo. Per giunta le dietrologie hanno fatto strada anche in ambito politico-istituzionale, oltre che mediatico. A volte le dietrologie su episodi di eversione o stragi sono rimaste fini a sé stesse, ma altre volte sono divenute elementi di una teoria complottistica generale relativa alla parabola degli equilibri politici nazionali di allora […]. Chi sarebbero i mandanti? Tralasciando le invenzioni più stravaganti -tipo la Grecia dei colonnelli o i governi laburisti del Regno Unito -, i principali candidati sono stati: gli apparati dello Stato italiano, con particolare riferimento ai servizi segreti; gli USA/la NATO; l’organizzazione Gladio/Stay Behind; la P2 di Licio Gelli. Tutti soggetti che da un cambiamento di regime avevano molto più da perdere che da guadagnare, si badi. Nei primi tempi le dietrologie potevano sembrare tentativi di colmare alla meno peggio gli inquietanti vuoti di conoscenza sulle nuove e pressanti realtà. Con il passare del tempo però hanno perso tale giustificazione, in quanto le ricostruzioni giudiziarie e storiche hanno infine ottenuto risultati cospicui. Oggi i punti rimasti oscuri sono pochi, specialmente sotto il profilo storico, e non sono tali da impedire di vedere le linee di fondo. Anzi, a riprova di come la fioritura delle dietrologie non sia direttamente correlata all’ampiezza delle lacune delle ricostruzioni, si rileva che l’episodio stragista di cui purtroppo si sa meno, quello del treno Italicus dell’agosto 1974, è stato e tuttora è oggetto di attenzione e di speculazioni molto meno di altre stragi fasciste meglio lumeggiate quali Piazza Fontana o Piazza della Loggia; allargando la visuale ulteriormente, è lampante che intorno all’Italicus non ci si è sbizzarriti con le dietrologie in misura anche lontanamente paragonabile a quanto invece si è fatto e si continua a fare per la vicenda Moro, una storia che ha avuto una sua compiuta ricostruzione sin dal 1983, dapprima giudiziaria e parlamentare, poi anche storica. La sussistenza di un fondo di verità, nel senso che negli anni Settanta qualche disegno golpista effettivamente ci fu, non giustifica però alcun surplus di fantasie. Questo atteggiamento apre la strada al paradosso, già messo in luce da Giovanni Sabbatucci, per cui i dietrologi abbracciano narrazioni molto meno coerenti e convincenti delle ricostruzioni che invece rigettano definendole spregiativamente “verità ufficiali” […]. Appellarsi – conclude Satta – alla frase di Pier Paolo Pasolini “io so, ma non ho le prove, e nemmeno indizi”, che è infelice persino linguisticamente poiché chi non ha prove né indizi non sa, bensì presume, non vale a liquidare la questione e, anzi, ne conferma la serietà”. Il saggio di Vladimiro Satta è arricchito da un’ampia, esaustiva bibliografia ragionata delle opere da lui consultate.

II. La narrazione della nazione: alcune pagine da chiarire nella storia della cosiddetta seconda Repubblica  

Salvatore Sechi torna sulla sentenza della Cassazione del 27 aprile 2023 – che ha confermato l’assoluzione dell’ex senatore Marcello Dell’Utri. Sono stati altresì definitivamente assolti per non aver commesso il fatto” gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, – con un pezzo su “Scalfaro, i pentiti, l’esercito e l’ex Pci nella trattativa Stato-mafia”[15] augurandosi che nelle motivazioni chiarisca quattro interrogativi relativi al comportamento di Oscar Luigi Scalfaro in merito alle misure di alleggerimento del 41 bis, all’impiego dell’esercito in Sicilia durante il governo Amato, al numero dei beneficiati della legislazione premiale, e infine al ruolo esercitato degli ex comunisti contro i decreti di Giuliano Vassalli, e per impedire la creazione della Direzione nazionale antimafia e “la nomina alla sua testa come primo Procuratore di Giovanni Falcone”.

Prosegue il dibattito sulla presunta Trattativa Stato Mafia dopo la sentenza della Cassazione pronunciata il 27 aprile 2023. Lo scrittore e giornalista Valter Vecellio esprime “Dubbi sulla trattativa Stato-mafia”, sottolineando – come recita l’occhiello – che “Lo stop al 41 bis riguardò appena 11 affiliati: tra loro neppure un boss di Cosa nostra”[16]. “Dunque – chiarisce Vecellio – gli aderenti a Cosa nostra contenuti in quell’elenco erano pari a meno del 5,5 percento di tutti i detenuti con decreto in scadenza; ciò nonostante, all’epoca, né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia né dalla Dna, né dalle altre forze di polizia richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, non ha quindi nulla a che fare con il frutto di un patto scellerato. Parliamo semplicemente – conclude Vecellio – di una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi: il nuovo rigoroso trend interpretativo della norma da parte della Corte Costituzionale con la sentenza del 28 luglio 1993; la mancanza di una motivazione che non doveva essere generale e astratta come quella inviata in risposta dalla Procura di Palermo, ma individualizzata per ogni sottoposto; non da ultimo, la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno delle carceri”.

III. Focus di approfondimento su “Le verità che rimangono ancora da svelare sulla strage alla stazione di Bologna 43 anni dopo”

Democrazia futura apre un Focus di approfondimento su quelle che a nostro parere rimangono “verità ancora da svelare sulla strage alla stazione di Bologna 43 anni dopo”.  Il dossier contiene critiche molto precise nei confronti delle motivazioni dell’ultima Sentenza processuale e verso una verità processuale che sarebbe stata fortemente condizionata dai desiderata dell’Associazione dei parenti delle vittime e dal suo presidente Paolo Bolognesi.

Salvatore Sechi, nella sua Introduzione al Focus di approfondimento “Le verità che rimangono da svelare sulla strage alla stazione di Bologna”[17] in apertura considera che “Sulla strage di Bologna ha prevalso una (brutta) verità politica”. “La sentenza con la quale il Tribunale di Bologna, in diversi gradi e con diversi imputati, ha condannato come autori della strage del 2 agosto 1980 un gruppo di killer (confessi) neo-fascisti non è espressione dell’antifascismo. Questo è il belletto con cui la vorrebbero incipriare giudici giornalisti orgogliosamente conformisti associazioni dei parenti delle vittime. La cultura politica dell’antifascismo quando non si ispira al diritto penale sovietico e nazista, ha carattere liberale. Il suo principio si fonda sulla prevalenza della verità storica rispetto a quella politica. Non importa se l’avversario (definito ‘nemico’) sia di destra o di sinistra, ideologicamente vicino o lontano. Per l’antifascismo non si può prescindere dall’esigenza fondamentale che per condannare ci siano delle prove, e che queste non siano idee diverse ed opposte. Per la prima volta nella storia della nostra repubblica si dice, anzi si scrive, che a fare saltare la sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980 siano state persone che si rifacevano alle nostre alleanze militari (la Nato) e al sistema delle nostre alleanze politiche (il patto atlantico).  Si tratta delle scelte di politica internazionale che dal 1945 ad oggi hanno garantito, anche se non perfettamente, le nostre libertà, la nostra vita quotidiana segnando una differenza invalicabile col mondo del comunismo sovietico e di altri dispotismi. Vi si parla di un ‘grande disegno stragista atlantico’ alimentato dal terrorismo nero e “rosso” (tra virgolette nella sentenza). Dunque, il principio di legalità, da oggi in poi – a parere del professor Sechi – come nella Germania nazista e nell’Urss staliniana, si fonda nel trovare, come che sia, un avversario bollandolo come nemico. Sulla base di questo approccio l’Italia è descritta dai giudici di Bologna come il capolavoro del cosiddetto atlantismo. Si intende, cioè, dire che al posto degli elettori (sempre ostili, con un libero voto espresso e confermato in circa settanta anni, a questa soluzione) gli Stati Uniti e gli alleati occidentali avrebbero impedito “l’accesso dei comunisti al potere”.  Per accreditare questo becera falsità, i giudici hanno perlustrato una saggistica, e convocato come testimoni, tutti i giornalisti e i giudici in pensione che nei loro scritti hanno evocato categorie magico-esplicative come ‘golpe’, ‘stragismo atlantico’, ‘sovranità limitata’, ‘Yalta’, ‘guerra rivoluzionaria’, ‘Gladio’, eccetera. Pertanto l’Italia, a leggere la prosa dei giudici di Bologna, è diventata, il terreno di sperimentazione di una cospirazione globale guidata dall’alleanza atlantica”. Al contrario – aggiunge Sechi – “Gli Stati Uniti e la Nato non c’entrano niente”. “Al fondo nella strage di Bologna ci sarebbe stato il disegno politico, i soldi e le armi degli Stati Uniti e della Nato. In altre parole lo stragismo che ha tenuto unita la mafia e il terrorismo nero era volto a impedire l’accesso al governo del Pci. Non si chiedono che senso (a parte le piacevolezze del libero sbracarsi da bar) abbia questo argomento-accusa. Esso è l’asse portante delle motivazioni dei giudici bolognesi. Si sarebbe fatta saltare la stazione di Bologna, massacrandone la popolazione in attesa di prendere un treno per le vacanze, al fine di determinare una reazione popolare e dare vita ad un governo militare alleato ai fascisti in grado di garantire l’ordine. Dunque, i nostri principali alleati avrebbero trescato con settori golpisti dei servizi e delle forze armate, in combutta con la massoneria deviata di Licio Gelli e avvalendosi delle risorse finanziarie di una banca in liquidazione come l’Ambrosiano per far intendere ai comunisti che la ricreazione era finita? Ai magistrati (ai quali si deve ogni merito per l’intenso e improbo lavoro svolto) non mi pare sia venuto il dubbio che non avesse il minimo senso questo rovistare la storia d’Italia con in mente il cruccio che a Washington i comunisti non erano amati. Non hanno tenuto presente un piccolo dato statistico: il Pci non ha mai ottenuto la maggioranza dei voti per governare. Detto diversamente, l’elettorato italiano non ha mai mostrato interesse a munire i comunisti del consenso perché conquistassero Camera e Senato, e ricevessero dal capo dello Stato l’incarico a formare un governo, da soli o di coalizione. Dunque non c’era nessun bisogno che la Cia, il Pentagono, i marines, le centrali atomiche eccetera degli Stati Uniti e dei Paesi aderenti alla Nato si mobilitassero. I comunisti italiani non sono mai piaciuti alla maggioranza degli italiani. Essi sono, a modo loro, antifascisti, ma sono anche (fortunatamente) anti-comunisti” conclude o storico sardo”. Infine Sechi denuncia “Una Sentenza senza le carte del Sismi da luglio a novembre 1980”. “Il processo – scrive Sechi – ha avuto fin dall’inizio un andamento e un’evoluzione finale in cui la mole degli indizi non ha mai lasciato scaturire la pistola fumante di prove indiscutibili. Ciò vale per chi ha privilegiato la pista neo-fascista come per chi ha indicato l’eventuale responsabilità di libici e palestinesi. Il dibattito tra gli esponenti dell’una e dell’altra tesi invece di essere di carattere reciprocamente esecratorio dovrebbe essere volto a capire anzitutto se la documentazione di cui i gli inquirenti si sono avvalsi è completa, esaustiva. Espongo di seguito qualche dubbio nella speranza che sia meritevole di qualche considerazione. Nella grande quantità di carte del Sismi (il nostro servizio segreto militare) desecretate per il venir meno o l’accorciarsi (come ha deciso saggiamente la premier Giorgia Meloni) dei vincoli temporali del segreto di Stato si può rilevare un vuoto rilevante: dal 2 luglio al 23 settembre 1980. Questo squarcio è altamente significativo. Concerne un periodo drammatico, il peggiore del Novecento italiano, in cui hanno avuto luogo episodi gravissimi. Avrebbero potuto incrinare la stessa tenuta del regime repubblicano. Mi riferisco all’inabissamento – con un’ecatombe di morti – nel mare di Ustica – del DC 9 partito da Bologna e diretto a Palermo; all’azione dell’Italia (tramite il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Zamberletti) per riscattare Malta strappandola al controllo avvolgente, di tipo imperiale, della Libia; alla crisi della Fiat, da un lato salvata nel 1977 dall’immissione di 180 miliardi (5.500 lire di valore di ogni azione) pagati dal Colonnello Gheddafi e dall’altra, per lo “scambio” per cui  questo atto ha indotto il governo italiano a favorire le esecuzioni sommarie, in territorio italiano, dei suoi oppositori; alle allucinanti stragi di Bologna e di Brescia, fino al novembre 1979 con l’incrinarsi – con minacce purtroppo andate a segno, da parte di George Habash – dei rapporti col terrorismo del FPLP (una cellula dell’Olp di Arafat), i nostri servizi segreti (Sismi) e lo stesso governo. I primi 32 documenti desecretati del Sismi confermano la volontà – per la mancata liberazione di un suo esponente a Bologna, Abu Salkah Sanzeh – di colpire vittime innocenti, cioè la stessa popolazione civile […]. Poiché le carte relative non ci sono (ancora) pervenute, dobbiamo davvero dedurne che non ha senso discutere della pista palestinese e del “lodo Moro”, cioè dei rapporti dell’Italia col terrorismo e il traffico di armi di cui per molti anni il nostro paese è stato teatro? Non posso credere – conclude Sechi – che i magistrati di Bologna non sentano stringente la responsabilità di indagare ancora, e che il capo dello Stato Sergio Mattarella non intenda sollecitarli in qualche modo a riaprirle. Non si deve avere timore, se si è di cultura liberale e non fascista o comunista, di riformare eventualmente una sentenza fondata su troppi indizi e poche prove a carico di una manica di killer fascisti (rei confessi spesso) dediti alla più efferata e ripugnante criminalità politica”.

Vladimiro Satta nel primo mini saggio di questo Focus di approfondimento intitolato “Processo-mandanti”: la storia non si fa con le bolle”[18] denuncia quello che nell’occhiello è qualificato come “Un quadro giudiziario ancora in movimento 43 anni dopo la strage”. Qui di seguito il riassunto predisposto dall’autore. “La ricostruzione del contesto storico della strage di Bologna, che è parte cospicua del cosiddetto “processo-mandanti”, è stata impostata male e ha prodotto risultati pessimi, malgrado l’impegno e la buona fede della Corte. Gli sbilanciamenti e gli apriorismi toccano livelli da bolle dietrologiche e da camere dell’eco. I giudici, che hanno ritenuto superfluo disporre perizie storico-scientifiche, prendono posizioni fortemente discutibili, e lo fanno prescindendo da un esame del panorama storiografico e delle rilevanti differenze interpretative al suo interno. Essi accordano grande fiducia a Vincenzo Vinciguerra, il fascista autore della strage di Peteano che accusa lo Stato e i governanti dell’epoca anziché i fascisti di essere i mandanti delle stragi ed è diventato così l’idolo dei dietrologi di ogni colore politico. Inoltre, si sentono in linea con la cosiddetta controinformazione e impiegano il concetto di Deep State o doppio Stato senza dubitare della sua validità. La bibliografia raccolta dalla Corte è estremamente povera, a senso unico, e in alcuni casi nemmeno attinente alla strage che è oggetto del processo. “Giornalisti appassionati” ed ex-magistrati in quiescenza vengono assunti come autorità in materia di storia e messi al posto degli storici veri e propri, benché la sentenza stessa riconosca le gravi carenze metodologiche degli uni in confronto agli altri. Viene liquidata in modo semplicistico la giurisprudenza che, a suo tempo, negò che Licio Gelli e la P2 coltivassero progetti eversivi. La sentenza odierna non spiega perché mai l’attentato alla stazione di Bologna dovrebbe essere in rapporto di continuità con altre stragi risalenti come minimo al 1974, anziché con la realtà italiana del 1980, ormai profondamente diversa da quella della prima metà del decennio precedente sotto innumerevoli aspetti, e nemmeno perché lo stragismo, fermatosi a metà anni Settanta di fronte al proprio fallimento strategico, sarebbe stato ripreso una tantum sei anni dopo, in un contesto ancora più sfavorevole. Inoltre, la sentenza del “processo-mandanti” lascia a desiderare pure sotto l’aspetto dei controlli, delle verifiche e dei riscontri dei documenti e dei testi acquisiti agli atti del processo, come emerge attraverso esempi. Nei processi per la strage del 2 agosto 1980 non sono in gioco l’antifascismo e l’antipiduismo.  Entrambi sono valori importanti, ma i loro fondamenti prescindono dalla colpevolezza o innocenza degli imputati in questo processo e andrebbero mantenuti anche se Gelli e i suoi sodali fossero assolti. Legare l’antifascismo e l’antipiduismo alle sorti del “processo-mandanti” non significa preservarli, significa svilirli.

Lorenza Pozzi Cavallo nel secondo mini-saggio esamina attentamente “La sentenza del 5 aprile 2023 sulla strage di Bologna”[19] denunciando quello che definisce nell’occhiello “Un affresco pseudo-storiografico”. Qui di seguito il riassunto predisposto dall’autrice. “La Corte d’Assise di Bologna ha depositato le motivazioni del processo riguardante i presunti mandanti e finanziatori defunti della strage del 2 agosto 1980. L’ampio sfondo storico delineato dai giudici estensori nelle motivazioni è severamente criticato in un articolo di Lorenza Cavallo che lo ritiene un affresco pseudo-storiografico e ne delinea in 20 punti alcuni degli aspetti più problematici, in particolare per quanto riguarda la rete delle ‘fonti probatorie’ e ‘documentali’ che assumono l’aspetto di propaganda anti Nato. Come mai – si chiede l’autrice – è stata ritenuta autentica la cosiddetta ‘direttiva Westmoreland’ (FM.30-31B di 12 pagine) – ossia un falso del Kgb – documento dichiarato apocrifo nel 1980 dalla ‘Camera dei Rappresentati’ e dal Select Commette on Intelligence., ossia il ‘Comitato di controllo sui Servizi segreti’ statunitensi, e non della Cia come affermano i giudici estensori?  Come mai i giudici estensori hanno indebitamente esteso all’Europa l’operazione Chaos della Cia che invece le commissioni Rockefeller e Church confinano negli Usa? Come mai hanno ignorato un’operazione di 11.908.166 dollari, datata 30 luglio 1980, tre giorni prima della strage, transitata su un conto di Gelli molto simile ma non identico a quello del noto ‘documento Bologna’? L’autrice rileva che “l’economia del crimine si è ormai fusa con l’economia legale” e che “Roberto Calvi, quando la crisi dell’Ambrosiano si fece acuta, si rivolse alla Bank of Credit and Commerce International (BCCI), fondata nel 1972 dal pakistano sciita Agha Hasan Abedi con sede nel Lussemburgo e nella City di Londra, tra i clienti Manuel Noriega e Abu Nidal. Abedi controllava i cartelli del crimine organizzato e del terrorismo. Carlo Rocchi, citato superficialmente dai giudici come ‘amico degli americani’ era in effetti un agente della Drugs Enforcement Administration (Dea) nell’ambito della lotta contro le narco-economie”, quindi i colloqui con Michele Sindona, iniziati negli Usa, concernevano i metodi di riciclaggio dei “cartelli” nei rapporti con le banche. L’autrice ricorda le parole del procuratore di New York Robert Morgantau: “Il crimine organizzato è un nemico fragile senza la corruzione e la protezione politica”.

Salvatore Sechi, nel suo terzo mini saggio intitolato “Strage di Bologna: la grande bouffe del complottismo giudiziario?”[20], denuncia quello che nell’occhiello definisce “Una sentenza a circuito antifascista, cioè politica”. Qui di seguito il riassunto predisposto dall’autore. “La più grande strage dell’Italia repubblicana ha avuto un esito giudiziario di eguale imponenza. La verità politica ha prevalso, senza alcun pudore né misura, sulla verità giudiziaria. Ciò significa essere tornati alle prime ore della carneficina del 2 agosto, quando senza uno straccio di prova, i partiti proclamarono che mandanti ed esecutori di quel pauroso massacro erano fascisti. Su questa base di carattere prevalentemente politico si è dato vita ad una vera e propria operazione che in nome di un valore condiviso come l’antifascismo (al quale si deve la legittimazione alla nostra repubblica) ha lastricato la strada alle sentenze dei magistrati. Per quarant’anni hanno alternato una catena di responsabilità, che sono delle semplici varianti di una spiegazione unica. Prima alla sbarra sono stati chiamati i fascisti del Msi, poi quelli delle organizzazioni giovanili e non (come Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e i killer professionali dei Nar). Infine si è dilatato il cerchio fino a comprendervi i servizi segreti e la massoneria “deviati”, un organismo internazionale come Gladio, e ora addirittura la Nato e quasi la stessa alleanza atlantica. Ad essere esclusi sono quelli che costituirono l’Unione Sovietica e i loro protettorati dell’Europa orientale. Le famiglie delle vittime e l’opinione pubblica hanno mostrato in questi lunghi decenni di non avere nessuna fiducia in un potere giudiziario che comportandosi come un partito ha perso ogni autorevolezza e credibilità. A suo tempo reagirono rifiutandosi di esporre le bare con le salme dei loro poveri congiunti nella chiesa di San Petronio. Spetta al capo dello Stato, che presiede il Consiglio Superiore della Magistratura, far capire che non si può pretendere di amministrare la giustizia cucendo degli arazzi con la lana di complotti, trame eversive, interferenze addirittura di nostri storici alleati coma gli Stati Uniti. In secondo luogo un regime liberaldemocratico come quello italiano non può essere degradato fino al punto di ammettere un uso politico improprio dell’antifascismo. Bisogna saper rileggere con occhi attenti, usando le competenze invece delle narrazioni superficiali intessute di una primordiale faziosità, i pericoli che ha corso la nostra democrazia con le minacce provenienti dal terrorismo libico del Colonnello Mu’hammar Gheddafi e da quello arabo-palestinese del FPLP. Contro di essi, col ricorso al cosiddetto “lodo Moro”, si è consentito che avesse luogo uno scambio tra la nostra incolumità e le scorrerie, nel territorio nazionale, di bande e gruppi armati. 

Parte quarta

La Rassegna di varia Umanità torna ad essere inquadrata nella quarta e ultima parte del fascicolo in compagnia delle rubriche finali. In questo decimo fascicolo primaverile della rivista è dedicata alla rievocazione di tre figure importanti nella storia del Novecento.

I Rassegna di varia umanità. Elzeviri, interviste, analisi, commenti, interpretazioni, ricordi e altre amenità dello spirito, del pensiero e del gusto

In apertura un “Ricordo di don Lorenzo Milani nel centenario della nascita”[21] scritto da Stefano Rolando che – come recita l’occhiello – vuole evidenziare “Le sue origini da una famiglia complessa e importante con tratti anticlericali”, prima di rievocare l’esperienza pedagogica della Scuola di Barbiana promossa dal parroco noto per la sua Lettera a una professoressa e le polemiche che essa scatenò nell’Italia della seconda metà degli anni Sessanta. “Il padre era Albano Milani, imprenditore agricolo ed esponente della classe dirigente toscana del primo Novecento, la madre Alice Weiss, apparteneva ad una famiglia di ebrei boemi trasferiti a Trieste, allieva di James Joyce, cugina di Edoardo Weiss che fu il trait-d’union della psicoanalisi da Sigmund Freud (e la sua rivista Imago di cui era parte) ai fondatori in Italia. I nonni erano Luigi Adriano Milani e Laura Comparetti a sua volta figlia di uno dei maggiori filologi dell’Ottocento, Domenico Comparetti (per cui i cognomi familiari furono mescolati), mentre fratello di Lorenzo era Adriano Milani Comparetti, importante neuropsichiatra infantile. Genitori dunque agnostici e con tratti di famiglia anche anticlericali, rispetto a cui – osserva Stefano Rolando – la conversione e la scelta sacerdotale di Lorenzo fu parte di un’evoluzione individuale giovanile che prese le mosse, dopo il liceo classico (al Berchet a Milano, in cui era compagno di classe di Oreste Del Buono che su di lui scrisse varie volte), non facendo l’università a cui lo spingeva la famiglia ma andando verso una vocazione alla pittura a cui si dedicò tra studi a Brera e a Firenze e lavorando anche nello studio di un pittore tedesco”.

Segue un lungo contributo di Gianfranco Noferi, “L’omicidio Mattei, un grande italiano, un grande visionario”[22] in cui prosegue il racconto sul fondatore dell’ENI, rievocando l’attualità del cosiddetto “Piano Mattei”, collegato alle recenti visite in Algeria del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, riportando poi in primo piano le ipotesi che sono state formulate sulla sua tragica e ancora oggi misteriosa morte. Ipotesi che si intrecciano proprio con il ruolo avuto da Mattei in Algeria, mentre l’inchiesta giudiziaria del viceprocuratore di Pavia Vincenzo Calia riporta all’attenzione la possibilità che l’incidente sia stato provocato da un’esplosione. I sospetti, intrecciando inchieste giornalistiche e giudiziarie, oltre a testimonianze eccellenti, come quella di Amintore Fanfani, possono appuntarsi su un intreccio di interessi di più parti in causa che potrebbero essersi appoggiati ai servizi segreti, non senza punti di contatto persino con la mafia, come è stato ricostruito dai giudici della prima sezione della Corte d’assise di Palermo in merito all’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, il quale forse era in procinto di rivelare «quanto aveva scoperto sulla natura dolosa della cause dell’incidente aereo di Bascapè». Non si può escludere in effetti, come sostenne lo stesso Fanfani, che la morte di Mattei sia stato il primo attentato terroristico di matrice politica in Italia.

Infine, nel centocinquantenario dalla nascita del grande storico e politico antifascista di Molfetta, Claudio Signorile descrive “L’ombra di Gaetano Salvemini nel nuovo mondo di oggi”[23], sottolineandone – come recita l’occhiello – il ‘primato del programma’ e il ìconcretismo’ nel pensiero e nell’azione. “Il filo di continuità che ritroviamo nella lunga vicenda politica e culturale di Salvemini – scrive Claudio Signorile – è nel primato del programma; nel pragmatismo dell’azione; nell’empirismo della dottrina. Polemico con i socialisti massimalisti, che ignoravano la forza degli obiettivi concreti; ma polemico con i socialisti del riformismo che si accontenta. Critico con l’antifascismo senza programmi; stimolante verso la nuova classe dirigente repubblicana, perché si impegnasse in un piano di dieci anni, da realizzare con pragmatismo e determinazione. Il ‘concretismo’ salveminiano – aggiunge l’ex parlamentare socialista – è un richiamo ricorrente nel dibattito politico; un riferimento senza incertezze né sconti; che trova attenzione nei settori più responsabili della cultura economica e civile, e nella riflessione progettuale”.

II Rubriche

Per la rubrica Visti da vicino Italo Moscati, rievoca nell’articolo “Liliana e il cinema, passione, ricerca e vita” quello che definisce “un lungo rapporto, un’amicizia perfetta”[24], ovvero il racconto del suo lungo sodalizio professionale con Liliana Cavani, che ha ricevuto nel 2023 il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra di Venezia. “Scrivo dell’incontro con Liliana negli anni Sessanta. Subito – conferma Moscati – cominciò un lungo rapporto, un’amicizia perfetta, per me una straordinaria forma, attese di speranza. Liliana mi ha insegnato molto. Nel mondo del lavoro, nel cinema, gli intrecci dei rapporti sono stati semplicemente seri, appassionati, sospesi, aperti al risultato e alla creatività che si sperimentava. Profondità, sogno, sensibilità. Casi sorprendenti. Un incalzare nell’immaginazione, un film dopo l’altro. Liliana ha fatto qualcosa di straordinario, avanzando creativamente a ragionare, arrivare a un risultato. I titoli, le sceneggiature, le sensibilità visive creative, costruiscono una linea che cerca e trova. Ogni film non è solo una avventura, è un viaggio per coinvolgere. E lasciare tracce capaci di affascinare”.

Paolo Luigi de Cesare nel quarantacinquesimo anniversario dell’omicidio dello statista democristiano perpetrato, dalle Brigate Rosse nel suo articolo “La mia educazione sentimentale fra la classe operaia a Milano a difesa della democrazia e delle istituzioni” propone per la rubrica De Te fabula narratur – come recita l’occhiello – il “Ricordo di un Dandy in tuta blu operaio all’Alfa Romeo di Arese nei mesi del Rapimento di Aldo Moro”. “Era un giovedì mattina, e facevo il primo turno al reparto assemblaggio dell’Alfa Romeo di Arese. Avevo 24 anni, ero stato assunto a metà giugno del 1977. Ero uno dei tanti giovani dei piccoli paesini del Sud, emigrato al Nord non per bisogno economico; ma semplicemente per avere più libertà di essere sé stessi. Fare politica senza censure familiari, avere più opportunità culturali e di realizzazione artistica […]. La mattina di giovedì 16 marzo 1978 – ricorda De Cesare – fu il capo officina a chiedere di fermarci, e spegnere le catene. Erano circa le 10. Aveva ricevuto una telefonata dal Consiglio di Fabbrica, per dire a tutti che bisognava fermarsi perché avevano rapito Aldo Moro. La prima reazione fu di incredulità, qualcuno si mise anche a ridere, inizialmente quasi nessuno voleva scioperare. L’80 per cento della mia officina composto da meridionali collegavano un rapimento a qualcosa non immediatamente riconducibile ‘all’attacco alla Democrazia’. E per quelli come me, fino ad allora, le azioni delle Brigate Rosse erano state idioti e pericolosi tentativi di ìscorciatoismo militaristaì da parte di ‘compagni che sbagliavano moltissimo’. Quella mattina del 16 marzo non fu facile far fermare tutti; per lo sciopero immediato in difesa della democrazia e delle Istituzioni. La notizia dell’eccidio della scorta non arrivò in officina insieme a quella del rapimento, questo creò un divario di percezione. Capii meglio dopo che le Brigate Rosse, da parte loro, si aspettavano reazioni entusiastiche degli operai delle grandi fabbriche del Nord, alla notizia del rapimento. E smentire le speranze delle Brigate Rosse era dunque il primo obiettivo vero del mobilitarsi. Ma non ne avevamo piena consapevolezza. Secondo alcuni operai più anziani bisognava mobilitarsi per evitare che con la scusa del rapimento non scattasse un Colpo di Stato[…].Toccava solo a noi, ad alcune migliaia di singoli delegati e di operai coscienti, la responsabilità di far fallire totalmente la previsione delle Brigate Rosse e costringerli alla prima sconfitta nell’ambito della loro ‘Operazione Moro’ […].Io mi mobilitai energicamente per fare riuscire lo sciopero, anche litigando con quelli che non volevano fermarsi, fino ad arrivare anche alle mani. E tutto questo sotto gli occhi dei brigatisti, presenti nel reparto ‘assemblaggio’ (carrozzeria) nascosti sotto mentire spoglie, E che furono scoperti qualche anno dopo […]. Penso – conclude De Cesare – che tutti gli operai che scioperarono quella mattina, meriterebbero un riconoscimento, una ‘targa’, una ‘pergamena’, ‘un fiore’ in quanto ‘Difensori della Democrazia’. All’Alfa Romeo, a Mirafiori, alla Pirelli o a Porto Marghera, all’Italsider di Taranto come a Bagnoli”.

“Era la primavera del 1971 e la serranda della portafinestra che dava sul balcone era stata sollevata qualche centimetro troppo poco. Nel passarci sotto la mia testa fece conoscenza con tutte le stelle del firmamento. Ma appena svaniti i corpi celesti, mi balenò un’idea!”. Così si apre per la rubrica Passato prossimo non venturo un breve racconto di Lucio Saya che rievoca “Due buone idee”[25] portate a compimento grazie proprio a quel bernoccolo ricevuto nel corso di “una lunga vita nel campo della creatività e del cinema”. La prima consistette nel “realizzare delle magliette con sopra dei disegni, delle immagini […] disegnai un bozzetto ispirandomi alla foto di uno sciatore impegnato nel “chilometro lanciato”, una gara che allora si svolgeva sulle pendici del Cervino. Stilizzai la figura e la inserii in un cerchio. Poi tracciai un cerchio di maggior diametro e fra i due cerchi concentrici scrissi il nome di una località sciistica”. L’altra era invece un codino in cartoni animati di 30 secondi ad un documentario industriale su dissalatori dell’acqua marina realizzati in Sardegna da Nino Revelli. “Si chiedeva di proporre un personaggio di tempi remoti, particolarmente geniale, che riusciva a trovare soluzioni avveniristiche per la sua epoca e che dovevano riguardare, naturalmente l’acqua. Io collocai li mio personaggio nell’età della pietra, in una piccola tribù di cavernicoli. Lo chiamai Adamo e lo raffigurai come un tipo un po’ eccentrico e po’ un intellettuale. Portava occhialetti a mezza luna, girava con un bastoncino di bambù e ai piedoni portava le ghette. Inviai i miei bozzetti e qualche tempo dopo, con mia grande meraviglia, seppi che il vincitore del Concorso era Adamo!!! Quando fu avviata la lavorazione del film cercavo qualcosa, una scintilla che potesse generare le idee in Adamo. E mi tornò in mente … quel colpo in testa! Così al mio personaggio, quando casualmente riceveva un colpo in testa spuntava un grosso bernoccolo. E subito dopo ecco l’idea! Accortisi di questo gli altri componenti della tribù si davano o si scambiavano tremendi colpi di clava sul capo. Ma nonostante le ‘clavate’ e i bernoccoloni, le idee venivano solamente ad Adamo”.

Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico rievoca per la rubrica Riletture il romanzo di “Cormac McCarthy, Oltre il confine (1994)”[26] a poche settimane dalla scomparsa dello scrittore, drammaturgo e sceneggiatore americano. “Cosa c’è oltre il confine? C’è il cieco e inarrestabile perseguimento di uno scopo, che atterrisce per la sua grandezza ogni lettore. Soprattutto perché non ne viene data spiegazione, perché la potenza dell’opera è la sua non moralità, la sua imparzialità, la sua superiorità rispetto alla passione. C’è l’amore fraterno che si dimostra con i fatti e si copre con un dialogo scarno e quasi sempre brusco, tant’è che pare manchino delle battute, delle righe, delle parole, il posto delle quali è preso dal silenzio e dall’azione, dal movimento, dalla perseveranza con cui un uomo cerca le ossa del proprio fratello nella terra, le raccoglie in una coperta per riportarle al di qua del confine. E solo in quel momento, alla fine del romanzo, si capisce che quel confine non è solo geografico, politico, linguistico, ma è un confine del cuore, della carne, del significato della parola famiglia”.

Giulio Stolfi, Sostituto Procuratore Generale della Corte dei Conti, perQuarta di copertina recensisce L’esordio letterario diCarmen Lasorella Vera e gli schiavi del terzo millennio[27] Bologna, Marietti editore, 2023, 416 p. “Andiamo oltre la dimensione letteraria, inserendo nel prisma della lettura le sfaccettature della politica, dell’analisi sociologica ed economica, della contestualizzazione dei grandi fenomeni del presente; insomma – scrive il magistrato lucano – pur non dismettendo i panni dell’ottimo (posso dirlo) romanziere, Carmen Lasorella non rinuncia alla voce che l’ha resa nota a tutti noi e non solo: quella della grande giornalista, dell’esperta di politiche e relazioni internazionali, capace di raccontare con sguardo fermo e sicuro movimenti così ampi del reale che fanno smarrire i più (e non sto parlando del proverbiale uomo della strada) nel balbettio da bar, nel sempre comodo e pulsionale ‘semplificare’. Ma la pluralità di livelli di interpretazione non fa diventare l’abito del romanzo un mero pretesto. Vera non è, insomma, un roman-à-clef o una docufiction (a seconda se si preferiscano le etichette del passato o quelle del presente). E quindi merita di essere guardato, compreso innanzitutto come un romanzo. Primo punto che emerge da questo sguardo, dunque: la qualità della scrittura. Qualità difficile da trovare oggi, con tutta la sapienza, la consuetudine della penna, l’assiduità delle letture, il benedetto mestiere. Secondo punto: non si cerchi in queste pagine la giallistica femminile, e per solito mediterranea, che tanto ama il mercato editoriale. No, Vera non appartiene alla categoria delle famose, fortunate, e forse un po’ famigerate ‘nipotine di Montalbano’ […].Dunque un romanzo non di genere, al postutto; poderoso, strutturato, diciamo anche ambizioso; un romanzo dove le figure e la trama compongono una tesi più vasta, che non si risolve in uno scavo psicologico del particolare o in uno studio d’ambiente ma ambisce a una ricostruzione-incisione del reale. Se vi pare poco … Terzo punto, legato al secondo: si avverte, o perlomeno ho avvertito io, una forte coloritura di classico in queste pagine. E in particolare mi sembra di vedere un omaggio consapevole e impegnativo alla classicità nel fatto che lo svolgimento della vicenda dei personaggi non è, in primo luogo, funzionale a un approfondimento di caratteri (se ciò sia o meno un bene, giudichi ciascuno secondo il suo gusto; questo, a mio parere, è il dato): i protagonisti sono all’opposto, nel senso più profondo, anzi direi meglio nel senso antico del termine, dramatis personae […]: i personaggi di Vera sono, a modo loro, maschere di eroi ed eroine, interpretano cioè istanze di perennità, in una declinazione davvero, radicalmente, anche qui mediterranea, il che mi pare contribuisce a posizionare l’opera di Carmen Lasorella su di un tono, entro un passo al quale, mi ripeto, non siamo più abituati, e che ci interroga”.

Marco Garzoni, pseudonimo di uno studioso di storia dell’America Latina, recensisce per Fresco di stampa lo studio di Eugenia Scarzanella, già docente di Storia e Istituzioni dell’America Latina all’Università degli Studi di Bologna, Isabel e la sua ombra. Dall’Argentina degli anni Trenta all’Italia occupata dai nazisti[28]. L’autrice ricostruisce la figura di un’argentina, Isabel de Obligado, che si trova impegnata nella guerra partigiana nelle Dolomiti. Figlia dell’alta borghesia e di intellettuali di Buenos Aires, vive tra due mondi, l’Italia e l’Argentina. La sua è una storia di emigrazione, una emigrazione particolare. Nata in Svizzera, nel 1929 conosce a Parigi, dove si è trasferita, un poeta argentino di una ricca famiglia dell’élite. Con lui attraversa l’Atlantico e va a vivere a Buenos Aires. Alla metà degli anni Trenta Isabel, il marito e la figlia tornano in Europa e si stabiliscono in Germania. La coppia si separa nel 1937 e per Isabel inizia una nuova fase della vita. Da Roma si traferisce nell’Alpenvorland, la zona dell’Italia settentrionale occupata dopo l’8 settembre dai tedeschi. Qui Isabel collabora con i partigiani (azionisti e cattolici) e con i militari alleati che operano dietro le linee. È ritenuta agente del servizio di intelligence inglese. Nella Valle di Zoldo (Belluno) riesce a evitare rappresaglie contro la popolazione, ma i partigiani comunisti, per i suoi accordi di non belligeranza con i tedeschi, la processano e rischia la fucilazione. Dopo la guerra Isabel riattraversa l’Oceano e a Buenos Aires frequenta i nuovi immigrati, i profughi dell’Est Europa, che hanno abbandonato i loro paesi finiti nell’orbita del comunismo sovietico”.

Seguono tre contributi scritti per la rubrica Memorie nostre, la rubrica dedicata ai ricordi delle persone rentemente scomparse.

Nel primo “Il Postmoderno perduto. Le stelle e le curve di Paolo Portoghesi”[29] Guido Barlozzetti rievoca la figura di un grande architetto recentemente scomparso, tra i più importanti ella sua generazione. Barlozzetti, dopo aver illustrato quel che definisce “una curva tangenziale rispetto al razionalismo funzionale, che lo ha portato tra le figure eminenti del post-modernismo internazionale, fino alla dedizione a una geo-architettura ispirata all’equilibrio con cui l’intervento umano ne rispetta l’anima profonda, che è la stessa, troppo spesso rimossa, dell’uomo”, ripercorre i “Riferimenti diversi e intrecciati di un lungo percorso che colpisce all’inizio dei  Sessanta con la Casa Baldi in cui già si esprime il bisogno di sottrarsi alle ‘inibizioni’ dell’architettura modernista – secondo il titolo di un saggio fortemente critico apparso nel 1976 – e il variabile intreccio in cui l’architettura respira della vita e nella razionalità non rinnega il piacere estetico e ornamentale e l’immaginazione che non necessariamente contrastano con l’utile e il funzionale, ma ne mettono in discussione il dominio. Ecco così a Roma la sorprendente Casa Papanice, nel 1968, ancora il piacere barocco delle linee curve, concavo-convesse, i cerchi concentrici della Chiesa della Sacra Famiglia a Salerno (1969), il Palazzo Reale di Amman, la Moschea di Roma (1974) a conferma di una sensibilità per lo spazio liturgico della religione, senza confini confessionali ma sempre in un pensiero costruttivo che legasse visibile e invisibile, come anche nella moschea di Strasburgo (2000) e, per stare nei confini della nostra regione, a Terni,  nella chiesa di Santa Maria della Pace (1997), ancora una pianta stellare e poi, come consuetudine, l’utilizzo di materiali locali a cominciare dalla pietra sponga, la sistemazione di piazze da Rimini e a Roma…  Visse anche anni di impegno culturale nelle istituzioni e quindi anche di presenza nel circuito mediatico con l’incarico di Presidente della Biennale di Venezia nel decennio 1983-1992 e primo Direttore della Biennale Architettura dal 1979 al 1982”. Infine Barlozzetti conclude il proprio contributo per Memorie nostre, ricostruendo un progetto assegnato nel 1990 a Paolo Portoghesi in occasione del settimo centenario della fondazione del Duomo di Orvieto, e purtroppo mai realizzato.

Nel secondo contributo per Memorie nostre Carmen Lasorella, scrive un pezzo intitolato “Addio ad Andrea Purgatori grande figura del giornalismo italiano d’inchiesta”[30]. “Nel mestiere del giornalista – scrive l’ex conduttrice del Tg2 – la passione moltiplica le energie, dilata gli spazi, acuisce le facoltà, decodifica l’impossibile. Conta trovare la strada per arrivare all’obiettivo, anche se di mezzo ci sono le montagne. Il lavoro di inviato, che abbiamo vissuto, ci ha insegnato che ‘si fa con quello che c’è’. Si mettono in fila i fatti, si cercano i testimoni, si ragiona ad alta voce, si confrontano le fonti, si costruisce il racconto. Andrea non era nato ‘televisivo’, la sua carriera precedente al Corriere era stata ricca di soddisfazioni e poi di amarezze, come sempre capita. L’incontro con la tv lo aveva folgorato. Era accaduto anche a me, che avevo avviato il mestiere nella carta stampata, molti anni prima. La scrittura, la forza delle immagini, la sonorità poliedrica delle voci e poi l’esecuzione dello spartito, in diretta, provocano un’emozione senza eguali. La scelta della tv era stata naturale. Lui, puntiglioso, ma anche guascone, procedeva alla carica. Avanti! […]. Nel nostro tempo di approssimazioni e sofferenze esibite, il suo cuore continuerà a battere. Il suo esempio farà storia.  Andrea aveva un volto. Non servivano le maschere” conclude la nota giornalista lucana.

Infine Giacomo Mazzone sempre per Memorie nostre scrive una “Lettera a Riccardo Laganà. Messaggio a un amico andato via senza salutare. Perché non bisogna mai smettere di indignarsi“ [31]. A nome di tutta la redazione di Democrazia futura e dell’Associazione Infocivica, rievoca in una lettera immaginaria al giovane consigliere d’Amministrazione della Rai prematuramente scomparso stanotte, le tante battaglie da lui sostenute in seno all’azienda e i suoi ripetuti voti contrari in seno al CdA, da ultimo quello contro la bozza del prossimo Contratto di Servizio “perché, come amava ripetere, non bisogna mai smettere di indignarsi”. “… anch’io – scrive Mazzone – sono convinto che la RAI debba esser migliore del Paese, perché questo è proprio il ruolo del Servizio Pubblico, come non si stancava di ripeterci un grande padre nobile della RAI come Massimo Fichera. Anch’io so benissimo che essa dovrebbe fungere da benchmarking dell’intero sistema dei media del nostro Paese, perché questo è il ruolo che le ha assegnato la Corte Costituzionale dopo la liberalizzazione dell’etere. Ma di fronte ad ostacoli insormontabili, pur senza smettere di lottare, è inutile farne una ‘questione personale’ come, invece, l’hai vissuto tu. Lo so bene che dicevi sempre che non bisogna mai smettere di indignarsi (ricordi ‘IndigneRAI’?), che le battaglie sui principi sono quelle che val la pena di combattere più di ogni altra. Però non bisogna mai dimenticare che hai di fronte -dentro e fuori viale Mazzini – interessi colossali (conflitti d’interesse mai risolti, gruppi di pressione che vedono nella RAI solo un osso da spolpare fino in fondo, partiti miopi od ostili al servizio pubblico, colleghi che usano la politica come un tram per acquisire nomine, potere e privilegi). Quindi se non riesci a cambiare le cose, non è colpa tua. Il dovere morale (che è sempre stato la stella polare che ha guidato i tuoi comportamenti) ti imponeva di segnalarne le derive, di votare contro – come dicevi – anche solo ‘per questioni di principio’, ma badando bene a non farne una malattia, o addirittura lasciarci la pelle. Prendiamo il tuo ultimo cruccio: la battaglia in Consiglio per il nuovo Contratto di Servizio e perché esso diventasse oggetto di pubblico dibattito: dentro l’azienda e nel Paese. Invece dopo due anni di cincischiamenti, a fine giugno 2023 ti vedi arrivare la copia del contratto segretata, in un documento identificato col tuo nominativo in filigrana, accompagnata dalla raccomandazione di non parlarne al di fuori del CdA. Perdippiù con la richiesta di emettere un parere entro 48 ore e con la calda raccomandazione di non toccare una virgola.  Tu ti sei giustamente ribellato, hai chiesto più tempo ed hai ottenuto una settimana in più. Ma poi alla fine il testo è rimasto esattamente quello arrivato in CdA, con due sole modifiche. In un paragrafo sugli obblighi del Servizio Pubblico, l’espressione ‘dieta mediterranea’ è stata sostituita con ‘dieta sana e sostenibile’ (ma in un altro articolo è rimasta tale e quale) ed in una frase dedicata alla ‘transizione digitale’ è stata aggiunta anche quella ‘ambientale’. Mentre sul resto, a partire dalla non casuale rimozione dell’obbligo di promuovere il giornalismo di inchiesta, il testo non è cambiato, ma vi siete dovuti accontentare delle promesse dell’AD di vigilare contro eventuali derive […]. L’unica cosa che non avevi tenuto in adeguata considerazione – osserva l’autore nella sua lettera immaginaria al giovane Consigliere di amministrazione eletto nel CdA Rai dal personale dell’azienda prematuramente scomparso –  è che anche il tuo mandato (non quello in CdA RAI, ma quello su questa Terra, quello determinato dal tuo battito cardiaco) potesse arrivare a scadenza con cosi largo anticipo. Conoscendoti, sono pressocché sicuro che anche se lo avessi saputo, non avresti mai rinunciato al tuo diritto di indignarti e di lottare per i principi in cui noi tutti crediamo e tu per primo, di un servizio pubblico indipendente, autonomo, credibile e migliore del Paese che deve servire. Se ciò ti può consolare lì dove ora ti trovi, sappi – conclude il direttore responsabile di Democrazia futura – che saremo in molti a continuare il lavoro da te lasciato incompiuto e che continueremo ad indignarci anche in tuo nome”.

In copertina e nelle pagine interne di questo decimo fascicolo                                                                   

Come di consuetudine – nella sua doppia veste di storico dell’arte e di direttore artisico della rivista responsabile delle illustrazioni che corredano i singoli fascicoli del nosro trimestrale, Roberto Cresti presenta la scelta dell’artista individuato per la copertina e le pagine interne di questo decimo fascicolo.

Questa volta la scelta è caduta su uno scultore, Paolo delle Monache.

Nella presentazione dell’autore in un pezzo intitolato “Arcani Terrestri. Paolo Delle Monache”[32] lo storico dell’arte docente all’Università di Macerata, scrive che “Il Novecento nell’arte è […] un secolo circolare, un anello continuo nella sua discontinuità, come il celebre dipinto di Fabrizio Clerici Un istante dopo, del 1978, un secolo pieno e vuoto ove ogni ‘dopo’ è subito un ‘prima’ o un ‘prima di prima’, cosicché si possono notare delle inversioni radicali nel senso delle forme, dal fuori al dentro, dalla natura all’artificio, o viceversa, che, nella scultura di Delle Monache, si sono manifestate come un’inversione della Colonna infinita brancusiana dall’alto al basso. Quella colonna, tracciando l’axis mundi, non aveva propriamente una direttrice, ma sembra inevitabile guardarla verso l’alto, mentre la parte ipogea, inclita quanto l’altra, sfugge all’attenzione. La si dà per scontata, e non se ne pensa il basso, perché lo si dovrebbe immaginare nel buio, fino al ricongiungimento, per via opposta, con l’iperuranio. Ma proprio questa sua ‘circolarità impossibile’ – aggiunge Cresti – congiunta al fatto di apparire da una moltiplicazione di moduli geometrici uguali – come una spirale di DNA rettificata – l’ha resa l’essenza di una ricerca plastica che poteva assumere, in realtà, qualunque forma, mantenendo l’infinito in una composizione di parti permanentemente ‘ri-componibili’, seppure realizzate con uno stile più naturalistico, come ha fatto Alberto Giacometti, brancusiano eretico, che è l’altro nume dell’opera di Paolo Delle Monache […]. Novello Gulliver, lo scultore stesso – ricorda Cresti – si è rappresentato nelle sembianze di un ragazzo in viaggio in quel contesto o come un volto che si affaccia fra muri o dalla grata di una segreta, e ha anche realizzato una sorta di Ombra di matrice espressionista, che attrae sul proprio corpo, come un magnete, facciate di antichi edifici italiani. Il viaggio verso il basso appare così, a volte, come il galleggiamento di una zattera o del residuo di qualcosa nel vuoto, senza una direzione, e per piccoli stazionamenti successivi. Ultimamente – aggiunge lo storico dell’arte bolognese – la mostra a Monte Vidon Corrado, con la prossimità reale e ideale ad Osvaldo Licini, ha ridato alla ricerca di Delle Monache una dimensione sintetica e simbolica, che ripercorre sé stessa a partire dalle sue origini (ho scritto di lui, per la prima volta, venticinque anni fa), approfondendo gli intervalli tra una scultura e l’altra, in una sospensione archetipica, che ha trovato nella sede di Monte Vidon Corrado un respiro e insieme una collocazione che, pure in prevalenza entro spazi chiusi, aprono prospettive immaginative anche dalle nicchie dei muri”.

Seguono una “biografia dell’autore” nonché una “bibliografia” e una “sitografia”, unitamente a due informative relative alla Galleria Cribelli di Bergamo e allo Studio Copernico di Milano


[1] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-cavaliere-una-lunga-storia-mai-raccontata/459301/.

[2] https://www.key4biz.it/100-anni-di-radio-e-70-anni-di-tv-in-italia-parte-prima-gli-anni-delleiar-1928-1944/456832/.

[3] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-rai-come-sempre-preda-dei-partiti-vincitori-delle-elezioni/445420/.

[4] https://www.key4biz.it/la-rai-alla-prova-del-governo-meloni/451701/.

[5] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-rai-e-le-italie-da-raccontare/454236/?utm_source=flipboard&utm_content=other.

[6] https://www.key4biz.it/premessa-un-ecosistema-ict-con-pochissimi-grandi-operatori-globali/459305/.

[7] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-qualita-dei-servizi-sulla-rete-internet-i-limiti-attuali-e-come-migliorarla/459137/

[8] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-riprogettare-la-rete-ma-come/459143/.

[9] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-introduzione-il-lavoro-di-fronte-alla-grande-trasformazione-digitale/447639/.

[10] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-le-professioni-in-divenire-e-le-prospettive-del-lavoro-e-dei-lavori/459147/

[11] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-il-vituperio-della-seconda-repubblica/449650/

[12] https://www.key4biz.it/giorgia-meloni-e-i-conti-con-la-storia-unoccasione-mancata/457062/.

[13] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-tra-il-25-luglio-e-8-settembre-ottanta-anni-dopo/454734/.

[14] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-le-trame-eversive-degli-anni-settanta-le-dietrologie-e-la-realta/446603/.

[15] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-scalfaro-i-pentiti-lesercito-e-lex-pci-nella-trattativa-stato-mafia/447938/

[16] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-dubbi-sulla-trattativa-stato-mafia/452234/.

[17] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-le-verita-che-rimangono-da-svelare-sulla-strage-alla-stazione-di-bologna/457093/.

[18] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-processo-mandanti-la-storia-non-si-fa-con-le-bolle/455528/.

[19] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-sentenza-del-5-aprile-2023-sulla-strage-di-bologna/455586/

[20] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-grande-bouffe-del-complottismo-giudiziario/455716/.

[21] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-ricordo-di-don-lorenzo-milani-nel-centenario-della-nascita/447754/.

[22] https://www.key4biz.it/lomicidio-mattei-un-grande-italiano-un-grande-visionario/456959/.

[23] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-lombra-di-gaetano-salvemini-nel-nuovo-mondo-di-oggi/454585/.

[24] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-liliana-e-il-cinema-passione-ricerca-e-vita/455977/.

[25] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-due-buone-idee/455765/.

[26] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-cormac-mccarthy-oltre-il-confine-1994/455086/.

[27] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-vera-e-gli-schiavi-del-terzo-millennio/453986/.

[28] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-isabel-e-la-sua-ombra/454806/.

[29]  https://www.key4biz.it/democrazia-futura-le-stelle-e-le-curve-di-paolo-portoghesi/449451/.

[30] https://www.key4biz.it/addio-ad-andrea-purgatori-grande-figura-del-giornalismo-italiano/454323/.

[31] https://www.key4biz.it/lettera-a-riccardo-lagana-messaggio-ad-un-amico-andato-via-senza-salutare-perche-non-bisogna-mai-smettere-di-indignarsi/456858/

[32] https://www.key4biz.it/democrazia-futura-arcani-terrestri-paolo-delle-monache/456127/.