Arte

Democrazia Futura. Arcani terrestri, Paolo Delle Monache

di Roberto Cresti, ricercatore e docente di storia delle arti del Novecento all’Università di Macerata |

L’artista in copertina e nelle pagine di questo decimo fascicolo.

Roberto Cresti

Roberto Cresti presenta la scultura di Paolo delle Monache, l’artista chiamato ad illustrare con la riproduzione dei propri lavori il decimo fascicolo di Democrazia Futura: “Novello Gulliver, lo scultore stesso – ricorda Cresti – si è rappresentato nelle sembianze di un ragazzo in viaggio in quel contesto o come un volto che si affaccia fra muri o dalla grata di una segreta, e ha anche realizzato una sorta di Ombra di matrice espressionista, che attrae sul proprio corpo, come un magnete, facciate di antichi edifici italiani. Il viaggio verso il basso appare così, a volte, come il galleggiamento di una zattera o del residuo di qualcosa nel vuoto, senza una direzione, e per piccoli stazionamenti successivi. Ultimamente – aggiunge lo storico dell’arte bolognese – la mostra a Monte Vidon Corrado, con la prossimità reale e ideale ad Osvaldo Licini, ha ridato alla ricerca di Delle Monache una dimensione sintetica e simbolica, che ripercorre sé stessa a partire dalle sue origini (ho scritto di lui, per la prima volta, venticinque anni fa), approfondendo gli intervalli tra una scultura e l’altra, in una sospensione archetipica, che ha trovato nella sede di Monte Vidon Corrado un respiro e insieme una collocazione che, pure in prevalenza entro spazi chiusi, aprono prospettive immaginative anche dalle nicchie dei muri”.

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the bones sang, scattered and shining
We are glad to be scattered…
T. S. Eliot, Ash-Wednesday, vv. 89-90

La scultura, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, ha ripreso vita.

Si può immaginare che la ragione sia stata il bisogno di tornare all’arte come esperienza fisica, materiale (e non solo, anche in senso performativo, concettuale come negli anni Settanta), che nella pittura aveva corrisposto già alla ripresa del colore e della figurazione sia che si trattasse della Metacosa, della Transavanguardia o del Magico primario.

Paolo Delle Monache

Paolo Delle Monache si è formato alla Accademia di Belle Arti di Bologna sotto la guida dello scultore Franco Mauro Franchi, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quando cioè l’arte plastica si era appunto già rivitalizzata e aveva gettato un ponte retrogrado nel tempo (forse per alcuni artisti mai interrotto) con la prima metà del secolo e con quanto, di quella metà, era sopravvissuto ancora nella seconda. Gli artisti che attiravano i giovani erano Alberto Giacometti, Marino Marini, Fritz Wotruba, con alle spalle gli intramontabili Arturo Martini e Constantin Brâncusi.

Ovviamente i modelli erano molti di più e certo anche le esperienze condotte con materiali caldi come il legno e la terracotta – con alternanze fra pittura, scultura e installazioni ambientali – da Georg Baselitz o Nanni Valentini fino al più giovane Miquel Barceló, passando magari, da noi, per la Scuola campana (Luigi Mainolfi, Giuseppe Maraniello, Mimmo Paladino), hanno costituito punti di attrazione in un universo dominato, nel punto più alto di incontro fra la pop-art e le stelle fisse, da Tony Cragg.

Il Novecento nell’arte è, del resto, un secolo circolare, un anello continuo nella sua discontinuità, come il celebre dipinto di Fabrizio Clerici, Un istante dopo, del 1978, un secolo pieno e vuoto ove ogni ‘dopo’ è subito un ‘prima’ o un ‘prima di prima’, cosicché si possono notare delle inversioni radicali nel senso delle forme, dal fuori al dentro, dalla natura all’artificio, o viceversa, che, nella scultura di Delle Monache, si sono manifestate come un’inversione della Colonna infinita brancusiana dall’alto al basso.

Quella colonna, tracciando l’axis mundi, non aveva propriamente una direttrice, ma sembra inevitabile guardarla verso l’alto, mentre la parte ipogea, inclita quanto l’altra, sfugge all’attenzione. La si dà per scontata, e non se ne pensa il basso, perché lo si dovrebbe immaginare nel buio, fino al ricongiungimento, per via opposta, con l’iperuranio.

Ma proprio questa sua ‘circolarità impossibile’, congiunta al fatto di apparire da una moltiplicazione di moduli geometrici uguali – come una spirale di DNA rettificata – l’ha resa l’essenza di una ricerca plastica che poteva assumere, in realtà, qualunque forma, mantenendo l’infinito in una composizione di parti permanentemente ‘ri-componibili’, seppure realizzate con uno stile più naturalistico, come ha fatto Alberto Giacometti, brancusiano eretico, che è l’altro nume dell’opera di Paolo Delle Monache.

La scultura di Giacometti è, infatti, una ‘colonna vacillante’, erosa dalla ruggine, insidiata dal vuoto, come l’Essere di cui parlava Jean-Paul Sartre, che ha nel proprio nocciolo il verme del Nulla. Finita la stagione esistenzialista ne sono rimaste le forme, alle quali gli artisti delle generazioni successive hanno attributo però un senso differente, non più come chiusura nella finitezza umana e nel suo angosciato tremore, ma come uno ‘smembramento’, un allucinante viaggio senza fine nel corpo umano.

Forse questo viaggio è all’origine anche di esperienze performative brutali come furono quelle del Wiener Aktionismus e di Arnulf Rainer su fino al graffitismo di un Jean-Michel Basquiat, tutti discendenti ideali della rembrandtiana Lezione di anatomia del dottor Tulp. Se ne colgono, inoltre, le tracce, tra gli anni Sessanta e Settanta, nelle primissime prove di Anselm Kiefer, che dai Paesaggi sterili e dal proprio stesso cadavere giungono alla Via Lattea.

«Il corpo come moderno teatro dell’arte», viene da pensare. Da Caravaggio almeno in avanti (ed è il meglio che ha comunicato anche l’opera di Pier Paolo Pasolini), ma da noi quel teatro appare visibile soltanto attraverso la tradizione, con un peso museale che ne garantisce il volume plastico e un insieme di risonanze latamente ambientali.

Forse è questo carattere che avvalora la scultura italiana novecentesca, e che Delle Monache ha fatto proprio, con una quantità di confronti con artisti di varia origine, salvo portarne le risultanze a un personale sviluppo, che è partito proprio dallo smembramento del corpo plastico attraverso la metafora del corpo umano scomposto e ricomposto in una sua anatomia infinita, come un domino le cui tessere sono le ossa.

Anche Brâncusi e Giacometti si sono scomposti e ricomposti in quel domino, che si è volto sempre più verso il basso, utilizzando la metafora del sogno (teste dagli occhi chiusi o adagiate su un lato, come un ciottolo di fiume che ascolti lo scorrere dell’acqua sopra e intorno a sé) per recuperare la notte kieferiana della Sternbild, senza un osservatore e dunque tutta interna, pallida e luminosa. L’evocazione è anche quella di reperti archeologici emersi dalla superficie terrestre o da essa ancora non del tutto ricoperti, con effetti auratici affini all’ellenismo onirico elaborato da Damien Hirst nella nota installazione, del 2017, Treasures From the Wreck of the Unbelievable.

L’epoca postmoderna autorizza e stimola queste contaminazioni, lasciando agli artisti l’onere della prova.

Delle Monache è così uscito anche dal solco plastico tradizionale per assorbire risonanze della moda contemporanea, persino scarpe col tacco a spillo, creando, per citare il titolo di una serie di lavori della prima decade del XXI secolo, degli Extra-luoghi tutti significativamente riferiti a contesti architettonici nostrani, portati ad essere il prodotto di una specie di scatola di montaggio: su cui domina una cupola michelangiolesca trasformata in una antenna satellitare a parabola. 

Novello Gulliver, lo scultore stesso si è rappresentato nelle sembianze di un ragazzo in viaggio in quel contesto o come un volto che si affaccia fra muri o dalla grata di una segreta, e ha anche realizzato una sorta di Ombra di matrice espressionista, che attrae sul proprio corpo, come un magnete, facciate di antichi edifici italiani.

Il viaggio verso il basso appare così, a volte, come il galleggiamento di una zattera o del residuo di qualcosa nel vuoto, senza una direzione, e per piccoli stazionamenti successivi. Ultimamente la mostra a Monte Vidon Corrado, con la prossimità reale e ideale ad Osvaldo Licini, ha ridato alla ricerca di Delle Monache una dimensione sintetica e simbolica, che ripercorre sé stessa a partire dalle sue origini (ho scritto di lui, per la prima volta, venticinque anni fa), approfondendo gli intervalli tra una scultura e l’altra, in una sospensione archetipica, che ha trovato nella sede di Monte Vidon Corrado un respiro e insieme una collocazione che, pure in prevalenza entro spazi chiusi, aprono prospettive immaginative anche dalle nicchie dei muri. Certi avambracci con le mani tese, simili a rami e a fioriture antropomorfi, indicano (come le mani delle Amalsunte liciniane in volo nella mente) una dimensione terrestre aperta a tutte le direzioni. È un alfabeto di Arcani terrestri, come fossero carte di Tarocchi tridimensionali, di umane geometrie che affermano: «così in basso come in alto»