Storia di un declino

Democrazia Futura. Il vituperio della seconda Repubblica

di Stefano Rolando, insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio |

I danni prodotti nella vita pubblica per le giovani generazioni, articolo di Stefano Rolando.

Stefano Rolando

Dopo aver avviato un primo dibattito sul tema “Patria, Nazione, Paese” dalla caduta del fascismo ai giorni nostri, Democrazia futura apre un secondo cantiere di riflessione dedicato a: Critica del presentismo: processo alla Seconda Repubblica (1993-2023) inaugurato da un articolo di Stefano Rolando dal titolo “Il vituperio della seconda Repubblica[1]. I danni prodotti nella vita pubblica per le giovani generazioni” in cui invita “gli storici ad inventariare i difetti più clamorosi che hanno inciso nella vita pubblica italiana” e fra di essi ne elenca ben undici. “Nessun giovane vorrebbe sentirsi dire – osserva Rolando – che gli anni che si identificano con la propria venuta al mondo e con l’avvio della propria esperienza di vita sono così costellati da un declino impressionante della qualità della vita pubblica. Pena il rifuggire sempre più e in modo sempre più numeroso dallo slancio partecipativo, dal voler portare un contributo – collaterale agli studi, al lavoro, a qualche impegno nel sistema delle rappresentanze – orientato agli interessi generali e al bene comune. Se si crede che il declino della politica riguardi solo la dequalificazione di un settore ci si sbaglia. Esso, cioè il declino, incide trasversalmente sulla qualità sociale, sulla qualità decisionale, sulla qualità istituzionale, sulla qualità economica e sulla qualità reputazionale. Di tutti”.

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La seconda Repubblica obbligherà un giorno gli storici ad inventariare i difetti più clamorosi che hanno inciso nella vita pubblica italiana:

  1. ha costruito la quadruplicazione dell’astensione;
  2. ha ridotto del 50 per cento gli indici di fiducia dei cittadini italiani nei confronti delle istituzioni;
  3. ha cancellato dalla scena politica tutti i partiti storici che hanno forgiato la Costituzione italiana;  
  4. ha generato una crescente offerta di politica attorno alle forme e alle ambiguità del populismo facendolo diventare una cultura trasversale che ha modificato sia la selezione della rappresentanza che i linguaggi della politica;
  5. ha coperto l’assenza di nuovi “statisti” prodotti nel contesto politico-parlamentare utilizzando almeno per il Quirinale le riserve della Nazione della prima Repubblica;
  6. ha ridotto la rappresentanza parlamentare (un danno democratico) facendo credere di avere ridotto il costo della politica (una consapevole menzogna);
  7. ha reso diffuso e senza scrupoli il cambio delle casacche degli eletti;
  8. ha divorziato dalla cultura politica e dalla cultura tout court, generando carriere politiche non su comprovate competenze ma su militanze a spese del contribuente;
  9. ha verticalizzato l’agire politico nel quadro di “palazzi” capaci di parlare ad altri palazzi ma – salvo alcune eccezioni – lontani dai territori, dalla società civile e dall’associazionismo sociale e solidale;
  10. ha finito per polarizzare lo schema egemonico di governo e opposizione marginalizzando la rappresentanza dello storico pluralismo sociale;
  11. ha fatto credere che è solo la fragilità dei mercati a mettere le nuove generazioni che cercano la via del lavoro in condizioni di precarietà, impedimento e disarmo delle speranze che non ha precedenti nemmeno nei tempi delle emigrazioni di massa.

Ho detto fin qui cose che mi sono venute in mente senza sforzo.

Ce ne saranno almeno altrettante che un piccolo dibattito tra esperti potrebbe fare emergere.

Nessun giovane vorrebbe sentirsi dire che gli anni che si identificano con la propria venuta al mondo e con l’avvio della propria esperienza di vita sono così costellati da un declino impressionante della qualità della vita pubblica.

Pena il rifuggire sempre più e in modo sempre più numeroso dallo slancio partecipativo, dal voler portare un contributo – collaterale agli studi, al lavoro, a qualche impegno nel sistema delle rappresentanze – orientato agli interessi generali e al bene comune.

Se si crede che il declino della politica riguardi solo la dequalificazione di un settore ci si sbaglia.

Esso, cioè il declino, incide trasversalmente sulla qualità sociale, sulla qualità decisionale, sulla qualità istituzionale, sulla qualità economica e sulla qualità reputazionale. Di tutti.

Dunque, le ricadute riguardano ciascuno di noi.

Uno dei danni peggiori sta nel fatto che, con la seconda Repubblica, si è allargata la visione euroscettica, euro-diffidente, in buona sostanza euro-insofferente e per lo più di taglio nazionalistico in cui abbiamo indebolito l’Europa e abbiamo indebolito la riorganizzazione delle speranze che alcune generazioni avevano messo in campo dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.

Il termine “seconda Repubblica” non è stato legittimato da alcun provvedimento costituzionale o semplicemente istituzionale.

La discontinuità ha trovato un vocabolario giornalistico, ma l’inventario che la motiva si è rivelato ampio e profondo ed è sorretto dal genere di argomenti che ho provato a citare.

La trasformazione in peggio delle leggi elettorali e la sparizione di tutti i partiti storici (a parte i radicali ormai ai margini della rappresentanza) hanno creato naturalmente il riverbero giuridico della corrispondenza di una nuova sequenza storica con altro nome, altra forma, altre regole.

Insomma, pur non essendo quello della dicitura “seconda Repubblica” un passo autorizzato, nessuno pensa più che – salvo per alcune facce trasmigrate, tra abilità, contorsioni e opportunismi – l’Italia politica della seconda metà del Novecento sia più o meno la stessa cosa che ha preso piede in questo nuovo secolo e nuovo millennio.

E tuttavia proprio la sequenza dei fattori di declino – i più esperti argomentano molte più cose – spinge ad interrogare se le vicende in corso debbano ancora annoverarsi sotto il pur informale titolo di “Seconda Repubblica”, ovvero se sia stata messa in campo una partita diversa per giocatori, club, regole e persino forme del campionato che richieda prima o poi l’invocazione di un nuovo cambio di etichetta.

Che si debba chiamare “terza Repubblica” non è affatto detto.

Un bel giorno, dopo un colpo di Stato, un ex-massimalista finanziato dagli agrari, poco studio e molta furbizia, ha cominciato a parlare di “era fascista” contando gli anni in numeri romani.

E ai più andata bene così.

Per adesso pochi oserebbero dire che si sono restaurate le condizioni di ripristino delle regole della prima Repubblica.

Pochi si avventurerebbero ad affermare che le ombre e le luci della recita mostrano una profonda rigenerazione della qualità della politica e dei suoi storici interpreti, cioè i partiti.

Pochissimi avrebbero il coraggio di raccontare a figli e nipoti, dunque alla fascia in apprendimento, di avere piena fiducia nei riguardi della delega che meno della metà degli italiani rilascia ancora attraverso le forme elettorali, assicurando che il patto di quella delega segni certezze per il loro avvenire e per l’avvenire dell’intera comunità.

Misurare attraverso il senso della storia il declino della nazione

Insomma, siamo alla vigilia di cosa?

Vorrei togliere di mezzo l’idea che questo ragionamento sia dovuto ad una botta di pessimismo.

È che il presentismo della politica e dei media mette quasi tutti noi in condizioni di giudicare il giorno per giorno. Andiamo a letto la sera, dopo magari un tg e un talk show e ci sembra che le cose siano un po’ più sgualcite, un po’ più preoccupanti. Ma che insomma l’insieme non sia così diverso dal giorno precedente.

È solo il senso della storia, il confronto con i decenni che precedono, a dare la misura dell’ascesa o del declino di una nazione, di una comunità, di un territorio.

Misurata storicamente l’età della prima Repubblica al netto di tanti vizi e tante opacità, allinea tanti risultati nell’interesse della crescita democratica e della dignità della rappresentanza.

Mantenere il senso critico è doveroso, ma è doveroso anche constatare l’effetto parabolico che nessuno – se non per propaganda – potrebbe negare.

Gli sforzi che soprattutto a fronte di una nuova crescita dell’astensione e nuova crescita della polarizzazione del quadro politico, un giorno sì e uno no, a rischio reputazionale in giro per il mondo, si stanno facendo per tentare forme di rinascita, riprogettazione, rigenerazione, non vanno sottovalutati, tra di essi il progetto del civismo progressista che trova una dimensione nazionale, ma nemmeno scambiati per un nuovo Rinascimento. Nemmeno i propagandisti stipendiati oserebbero disegnare questa immagine.

Quando un tempo della storia trova una sua periodizzazione condivisa ci si sente più autorizzati all’indagine storica, se ne parla al passato, si prende più facilmente le distanze dai coinvolgimenti di interesse e di convenienza. Insomma, si parla, si cerca, si scrive con quelle forme di “comprovazione” più che di “impressione emotiva”.

Si pensi che il fascismo, durato 23 anni (compreso Salò) ha prodotto un’intera biblioteca che lo stesso recente anno del centenario della nascita ha ulteriormente dilatato. La “Seconda Repubblica” non comincia con una marcia su Roma ma con un video da Arcore di un imprenditore che dice “Io amo questo Paese”. Il copione delle illusioni è ancora parte del made in Italy e pertanto lo scaffale è assai più limitato.

L’espressione dantesca “vituperio” è il contrario della lode. Non sembri un azzardo aver usato questa parola per titolo dell’argomento.

Ritengo che l’ultimo trentennio della nostra vita civile non sia da lodare. C’è una voce in Wikipedia che raccoglie tutte le misure che hanno oggettivamente caratterizzato questo trentennio. Con il simbolico appostamento di un giudizio, diciamo esterno, quello dello storico e sociologo britannico Perry Anderson, sulla London Review of Books:

«La Seconda Repubblica italiana è un caso di trasformismo in grande scala: non un partito, non una classe, ma un intero sistema che si converte in ciò che voleva abbattere.»

Se si pensa che questa Seconda Repubblica si potrebbe concludere con un governo – in carica da sei mesi – in cui primeggia il partito che porta come emblema visibile l’origine ideale del regime autoritario abbattuto dalla Prima Repubblica (simbolo ancora non disconosciuto) si può percepire come questa citazione non sia campata per aria.

La nostra Simona Colarizi, insieme a Marco Gervasoni, ha dedicato un saggio storico a questo tema e lo ha intitolato La tela di Penelope, segnalando frammentazione, conflittualità e paralisi.

Piero Craveri ci ha scritto intitolando L’arte del non governo. Giovanni Orsina ha scelto un titolo meno sfacciato, Una democrazia eccentrica. Ma andando a vedere parla di un paese eccentrico rispetto all’Occidente: “ne fa parte, ma ne è pure una marca di frontiera”.

In ogni caso, ora, il diritto di cambiare copione, insomma, è soprattutto nelle mani dei giovani.

Non quelli che abbandonano l’esercizio attivo della critica e dell’opzione.

Non quelli che si nascondono nelle ambiguità del tempo, smettendo di lavorare sul riconoscimento del vero rispetto al falso.

Come sempre, dunque, il destino è un dossier con pochi azionisti autorizzati.

Ma il disastro alluvionale in Romagna ci ha ricordato che essi hanno un volto.

Così da immaginare o almeno sperare che il nome che verrà dato alla stagione incerta e inespressa di questa alba di cambiamenti non appartenga ad una trovata di marketing, ma ad un sentimento civile collettivo che prima o poi si possa far strada.


[1] Uscito come podcast ne www.Ilmondonuovo.club, 10 giugno 2023. Cf. https://stefanorolando.it/?p=7759.