Storia

Democrazia Futura. Tra il 25 luglio e 8 settembre, ottanta anni dopo

di Stefano Rolando, docente universitario (Iulm Milano), condirettore Democrazia Futura, presidente Fondazione “Francesco Saverio Nitti” e membro comitato direttivo rivista Mondoperaio |

Banco di prova importante anche per l’Italia di oggi. Come sarà celebrata questa ricorrenza storica? Con quali parole?

Stefano Rolando

Stefano Rolando interviene su due date chiavi della storia del Novecento: “Tra il 25 luglio e 8 settembre, ottanta anni dopo. Banco di prova importante anche per l’Italia di oggi”. Dalla fine del 2022 il governo italiano è guidato dalla forza politica che mantiene nel suo simbolo la memoria del fascismo che dopo l’8 settembre non sceglie la linea dell’armistizio e della conclusione del lungo e infelice ciclo compiutosi con la tragedia della guerra a fianco della Germania nazista – osserva lo studioso milanese esperto di comunicazione pubblica – . Ma sceglie la linea dell’orgoglio mussoliniano di non riconoscere l’armistizio e ricostituirsi come forza subordinata al nazismo per mantenere nel nord una forma di continuità di potere senza più alcuna libertà e indipendenza e fonte della guerra civile che sarebbe inevitabilmente nata tra territori occupati e invasi (la vera e propria Resistenza) e il nazifascismo sodale in un tragico biennio. Che significherà un violento trattamento dei nemici sul campo (alleati e resistenti) e un criminale trattamento di civili e inermi, tra cui la catastrofe umanitaria della persecuzione degli ebrei che sarà condotta – sodalmente – nel principio dello sterminio. Questa storia non è solo quella scritta dai vincitori. […] Se il governo italiano, con la sua presidente, darà in questa occasione un coraggioso definitivo chiarimento su questa indimenticabile parte della nostra storia contemporanea – prosegue Rolando – la continua invocazione della premier Giorgia Meloni alla priorità degli “interessi nazionali”, troverà un primo sincero senso di condivisione con la maggioranza degli italiani.  Se ciò non avverrà – anche sotto forma di confusive dichiarazioni – la vera nuova vertenza, cuore della campagna elettorale verso il 2024 europeo – sarà proprio quella che potrebbe apparire come la mancanza di presupposti per Fratelli d’Italia di rivendicare un qualunque presidio proprio degli “interessi” – conclude Rolando.

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Il nesso tra il 25 luglio 1943 (il Gran Consiglio del fascismo delegittima Mussolini) e l’8 settembre (il proclama dell’armistizio), nel quadro di una dissoluzione dello Stato e della stessa perdita di controllo identitario degli italiani, colpì gravemente le generazioni che erano cresciute nella prima metà del Novecento. Il senso di quella disfatta complessiva fu poi tenuto a bada dalla liberazione, dalla rigenerazione costituzionale e dalla riqualificazione democratica ed economica dell’Italia. Ma l’ombra di quell’evento spartiacque incombe ogni volta che, nel presente, si avverte l’impotenza e l’involuzione della comunità nazionale. Nel clima politico tornato bipolare, dopo polemiche dissepolte sul 25 aprile, dopo l’accertamento demoscopico di un terzo degli italiani che non si dichiarano – per principio costituzionale – “antifascisti” (ma due terzi sì), dopo una forte insistenza governativa sui concetti di “patria” e “nazione” in cui appaiono caratteri della discussione spesso divisivi, nella memoria di quei cruciali due mesi di guerra e nell’occasione dell’ottantesimo degli eventi, come si tornerà a discutere? Mentre cominciano le anticipazioni e gli aggiornamenti di analisi degli esperti, si profila ancora un banco di prova per l’attuale governo per dimostrare sul terreno dei principi il diritto di parlare di “interessi nazionali”.

Seduta del Gran Consiglio del Fascismo – Roma, Palazzo Venezia, 25 luglio 1943

La rottura del 25 luglio

80 anni fa Benito Mussolini trovava nel Gran Consiglio – nel contesto di una guerra che andava a rotoli e con gli alleati che premevano, con le buone e con i bombardamenti, per togliere di mezzo un paese moribondo ma ancora in armi – il primo grande ostacolo al suo potere assoluto dopo l’ultimo rischio, avvenuto nel 1924. Quando, con il delitto di Stato compiuto con l’assassinio – a Parlamento ancora funzionante – di Giacomo Matteotti, il socialista capace di una seconda grande arringa contro il fascismo, Mussolini, assumendosi l’evento, risolse il problema sciogliendo definitivamente ogni forma di democrazia istituzionale.

Questa volta, il 25 luglio del 1943, il contrasto era interno al suo sistema di potere.

Si era formato con un’intesa segreta stabilita dalla Corona con Dino Grandi, si fondava su un ruolo tardivo ma decisivo dei militari e, naturalmente, con intese ancora più segrete con gli alleati.

Gli italiani erano di fronte al baratro. I civili nelle città bombardate, i militari su fronti di guerra non più fronteggiabili. La guerra non era più sostenibile e, per altro, Mussolini esitava a dirlo apertamente a Hitler.

Dalla caduta di Mussolini nel Gran Consiglio del Fascismo – e immediato tentativo perseguito dal successore di Mussolini alla guida del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, di tenere nascosto il più possibile il ritiro dell’Italia dal teatro di guerra – alla firma dell’armistizio passerà dunque più di un mese.  Ma da quell’armistizio, una volta accaduto e a conoscenza dei servizi informativi di tutti i paesi in guerra, alla dichiarazione pubblica e internazionale da parte italiana, passarono cinque drammatici giorni di silenzio forzato anche per tentare di prepararsi alla sicura violenta reazione dei tedeschi, mentre gli Alleati volevano pesare sugli equilibri generali della guerra mettendo sul tavolo la notizia di un fattore appunto di “squilibrio”. Ruppe così il silenzio il comandante in capo delle forze americane generale Eisenhower, che da Radio Algeri diede la notizia l’8 settembre di buon mattino obbligando il maresciallo Badoglio a pronunciare il suo “proclama” alla fine del pomeriggio. Era l’8 settembre, appunto, di 80 anni fa.

Per tanto tempo, nei secoli passati, la parola “armistizio” era stata impiegata come semplice constatazione di un evento bellico concluso. Da 80 anni e fino ad oggi, invece, questa parola costituisce la traccia simbolicamente più significativa di una catastrofe nazionale. Che ha assunto crescenti connotazioni in relazione alla fortuna e al degrado del nostro quadro istituzionale. Che negli anni ’50 con Salvatore Satta (De profundis) e poi negli anni ’90 con Ernesto Galli della Loggia (nello stesso titolo di un saggio che ha fatto discutere) è stata tradotta nella forma più estrema di “morte della patria”.

Talvolta alcuni hanno preteso di appaiare l’8 settembre al ricordo di Caporetto, 25 anni prima, per segnalare le due maggiori disfatte della storia dell’Italia unita. Non essendo tuttavia questo un paragone sostenibile. Perché Caporetto (pur essendo poi divenuta parola comune per significare “disfatta”) fu una disfatta militare. Mentre l’8 settembre fu una disfatta istituzionale, sociale e valoriale di cui si parla in modo ininterrotto e con continue levigature che sono fatte, nel tempo, anche da svariate allusioni al presente[1].

Lo spartiacque dell’8 settembre

Queste foto scattate il 3 settembre 1943 costituiscono lo spartiacque identitario dell’Italia del Novecento, forse ancor più della marcia fascista su Roma del 28 ottobre del 1922.

Cassibile (Siracusa) 3 settembre 1943 – La firma dell’armistizio tra Italia e angloamericani avvenuta in una tenda militare in contrada Santa Teresa Longarini. Il generale Giuseppe Castellano, con piena delega del capo del governo Pietro Badoglio firma la “resa senza condizioni” dell’Italia, assiste alla firma dei rappresentanti UK e USA.

Cassibile (Siracusa) 3 settembre 1943 – La firma dell’armistizio tra Italia e angloamericani avvenuta in una tenda militare in contrada Santa Teresa Longarini. Il generale Giuseppe Castellano, con piena delega del capo del governo Pietro Badoglio firma la “resa senza condizioni” dell’Italia, assiste alla firma dei rappresentanti UK e USA.

La firma da parte del generale Castellano pone fine al posizionamento filotedesco dell’Italia nella seconda guerra mondiale e pone fine anche agli ultimi rabbiosi bombardamenti americani e inglesi sulle città italiane per accelerare l’evento, dopo la crisi politica del 25 luglio con la defenestrazione di Mussolini proprio attorno al tema della gravità irrimediabile dell’andamento della guerra.

Come si è detto, il proposito del governo italiano era di rimandare la comunicazione dell’evento per tentare – magari con l’appoggio militare degli ex-nemici, che in realtà non avvenne in così breve tempo – di contrastare la sicura e preventivata reazione dei tedeschi. I quali si attendevano il ribaltamento dello scenario di guerra proprio dal 25 luglio, cioè il giorno in cui il Gran Consiglio del Fascismo mise Mussolini in minoranza sulla crisi della posizione militare italiana.

Parte del disastro comunicativo fu tuttavia rappresentata dalla voluta confusione del proclama di Badoglio che comunicò l’armistizio, annunciando tuttavia “che la guerra continuava” senza dire né contro chi, né come, né dove. Tanto che il senso della “dissoluzione” fu evidente il giorno dopo.

Con le prime notizie di un’avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina, Badoglio e i vertici dello Stato maggiore fuggirono da Roma e si fermarono prima a Pescara e poi a Brindisi, che divenne per qualche mese la sede degli enti istituzionali italiani, sguarnendo la capitale e dando un segnale drammatico di sbandamento.

Per i militari italiani in Italia l’8 settembre significò per molti gettare la divisa e, in una forzata interpretazione della “fine della guerra”, tentare il “tutti a casa”, ai più riuscito.

Per quelli in Africa e nell’Egeo fu ovviamente la tragedia dell’impossibilità di rientrare, per mancanza dei messi necessari, subendo per primi la rappresaglia tedesca.

In entrambi i casi una importante minoranza di ufficiali e soldati scelse di stare attivamente dalla parte della resistenza. E solo una piccolissima parte di militari italiani si consegnò ai tedeschi.

In ogni caso 815 000 soldati italiani vennero catturati dall’esercito germanico e destinati a diversi lager con la qualifica di I.M.I. (Internati Militari Italiani) nelle settimane successive.

La scelta resistenziale di una parte dei militari italiani è stata lungamente sottovalutata ed ha avuto dal presidente della Repubblica Ciampi una forte rivalutazione in parallelo alla tradiva ma importantissima celebrazione del sacrificio degli italiani nell’isola di Cefalonia (11 mila soldati italiani della Divisione Aqui trucidati dai tedeschi per la scelta di opporsi al loro diktat)[2].

Fu questa scelta resistenziale anche un segnale simbolico della presenza immediata delle istituzioni (ovvero grazie a quei soldati che avevano tenuto la divisa pur scegliendo “la montagna”) nella partecipazione attiva all’immenso cambiamento che si compì solo nell’aprile del 1945.

Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1959) ha raccontato l’8 settembre del 1943 con gli occhi di un soldato: “E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi”.

È questa l’esatta rappresentazione di un dramma nazionale. L’Italia, stremata dalla guerra, viene consegnata in mani straniere:americane al Sud, tuttavia impegnate a liberare il Paese riconsegnandolo a una nuova classe dirigente pronta a misurarsi con la democrazia; tedesche al Nord, in una degenerazione criminale che portò alla inevitabilità della guerra civile.

È fin troppo evidente che l’8 settembre resta – con tutte le implicazioni qui accennate – una metafora sempre viva del rapporto tra gli elementi di forza e gli elementi di debolezza della consistenza istituzionale dell’Italia. Che in questi 80 anni ha però trovato il suo posto rispettato in Europa e nel mondo e ha mantenuto vivo il programma dichiarato ai tempi dell’Unità da Massimo d’Azeglio di fare, al tempo stesso, anche gli italiani. Ma con molte zone d’ombra.

Questo 8 settembre – ottantesimo della “non conclusione” di una guerra impossibile e ormai suicidaria, ma anche ottantesimo di una catastrofe istituzionale – ha avuto un cantiere di analisi e misurazioni attorno a cui l’esprit républicain portato dal governo di emergenza di Mario Draghi è stato un paradigma di confronti. Ma un paradigma oramai lontano e chiaramente archiviato.

Il nesso tra le due date e l’attuale ricorrenza

Dalla fine del 2022 il governo italiano è guidato dalla forza politica che mantiene nel suo simbolo la memoria del fascismo che dopo l’8 settembre non sceglie la linea dell’armistizio e della conclusione del lungo e infelice ciclo compiutosi con la tragedia della guerra a fianco della Germania nazista. Ma sceglie la linea dell’orgoglio mussoliniano di non riconoscere l’armistizio e ricostituirsi come forza subordinata al nazismo per mantenere nel nord una forma di continuità di potere senza più alcuna libertà e indipendenza e fonte della guerra civile che sarebbe inevitabilmente nata tra territori occupati e invasi (la vera e propria Resistenza) e il nazifascismo sodale in un tragico biennio. Che significherà un violento trattamento dei nemici sul campo (alleati e resistenti) e un criminale trattamento di civili e inermi, tra cui la catastrofe umanitaria della persecuzione degli ebrei che sarà condotta – sodalmente – nel principio dello sterminio.

Questa storia non è solo quella scritta dai vincitori. Che pure ebbe a Norimberga un segnale storico così eclatante da permettere al popolo tedesco di rigenerare, nel quadro di un gigantesco percorso di coscienza collettiva, il suo diritto di convivenza con l’Europa e il Mondo

Essa è in particolare quella scritta dalla grandissima maggioranza dei nostri storici (paese sconfitto) che si sono applicati al periodo che va dal 25 luglio all’8 settembre del 1943 e poi al 25 aprile del 1943 verso un pari percorso di rigenerazione. Tanto che saranno i leader dei due paesi sconfitti – la Germania e l’Italia – cioè, i cattolici democratici Adenauer e De Gasperi – i protagonisti concettuali, morali e istituzionali della nuova Europa. Insieme ad un altro europeo di lingua tedesca, il francese alsaziano Robert Schuman.

Dunque, anche il 25 luglio è al suo ottantesimo anniversario. Cosa che spiega tra l’altro l’anticipazione che il maggior quotidiano italiano fa il 16 luglio della riedizione di un libro in prima edizione del 2018 del prof. Emilio Gentile, dedicando ora due intere pagine del quotidiano ad un intervista condotta da Walter Veltroni con l’autore, uno dei massimi studiosi viventi del fascismo italiano[3]. L’interesse di queste anticipazioni appare in almeno tre elementi.

  • L’accertata piena consapevolezza da parte di Mussolini della trama destitutiva che aveva riguardato il rapporto tra la Corona, i vertici militari e alcuni esponenti del Gran Consiglio (tra cui la figura di Dino Grandi resta interpretata anche nelle sue ambiguità) fino ad una lettura complessiva dell’evento che il prof. Gentile riassume con questa annotazione finale: “unica soluzione ormai per Mussolini era scendere dal treno della storia”.
  • L’immediata dissoluzione del partito fascista all’atto dell’arresto di Mussolini e della sua sostituzione al governo con il maresciallo Pietro Badoglio, a dimostrazione del danno sempre in agguato per gli interessi nazionali delle forme di eccesso di leaderismo
  • L’ulteriore immensa responsabilità di Mussolini, rispetto al quadro degli eventi, che pur vedendo “il Paese catastroficamente devastato dalle sue assurde ambizioni belliche”, pur “sentendosi ormai un uomo finito”, pur dimostrando di “consegnarsi all’ineluttabilità di fatti di cui provatamente a conoscenza da tempo”, anziché avere una coerenza di rispetto per le sorti della Nazione, capeggia in una forma di velleità paranoica ormai prigioniera del nazismo l’inevitabilità della guerra civile.

Per questi e altri argomenti resta viva la domanda della forma con cui la relazione celebrativa, ottanta anni dopo, tra il 25 luglio e l’8 settembre, sarà adottata nelle parole, nelle comunicazioni, nei comportamenti del governo, della presidente del Consiglio, del suo gruppo dirigente. Pur non essendoci un evento istituzionale da celebrare, come il 25 aprile o il 2 giugno. Se il governo italiano, con la sua presidente, darà in questa occasione un coraggioso definitivo chiarimento su questa indimenticabile parte della nostra storia contemporanea, la continua invocazione della premier Giorgia Meloni alla priorità degli “interessi nazionali”, troverà un primo sincero senso di condivisione con la maggioranza degli italiani.   Se ciò non avverrà – anche sotto forma di confusive dichiarazioni – la vera nuova vertenza, cuore della campagna elettorale verso il 2024 europeo – sarà proprio quella che potrebbe apparire come la mancanza di presupposti per Fratelli d’Italia di rivendicare un qualunque presidio proprio degli “interessi nazionali


[1] L’attuale riferimento storiografico più argomentato è ancora quello di Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, da Il Mulino nel 2003.

[2] Chi scrive ha consegnato all’editore un travagliato lavoro con scrittura ibrida (tra storia, testimonianza, interviste) che incrocia storia familiare e grande storia, attorno all’epica dolorosa dell’8 settembre, complessa metafora dell’identità italiana. In uscita in autunno.

[3] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, edito dal Corriere della Sera. L’intervista di Walter Veltroni a Emilio Gentile sul Corriere della Sera di domenica 16 luglio 2023, ha per titolo 25 luglio, troppe bugie.