L'analisi

Democrazia Futura. Le professioni in divenire e le prospettive del lavoro e dei lavori

di Maurizio Morini, consulente strategico per imprese e organizzazioni, esperto di innovazione, economista |

Come cambierà il mondo del lavoro da qui al 2030 e in prospettiva attorno a metà secolo? Maurizio Morini, economista ed esperto di innovazione, ci offre un'ampia riflessione sulla transizione storica che stiamo vivendo.

Maurizio Morini

Contributo di Maurizio Morini, consulente strategico per imprese e organizzazioni, esperto di innovazione, ed economista, dedicato a “Le professioni in divenire e le prospettive del lavoro e dei lavori”, nel quale – dopo un’analisi dell’evoluzione dell’occupazione a partire dal 2005 e delle previsioni per i prossimi anni” – l’economista affronta “La valutazione dei nuovi impatti tra automazione, intelligenza artificiale e lavoro umano”, prima di evidenziare “Il carattere cruciale delle conoscenze e delle competenze ‘tecnologiche’ da acquisire” e di indicare “La strategia da imboccare per approdare a ecosistemi lavorativi evoluti” che favoriscano quella che – nelle conclusioni Morini definisce “[…] una nuova economia della collaborazione”.

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Le condizioni di produzione del capitale (tra cui lo stato del lavoro)
risultano dalla sua stessa natura e sono per definizione contraddittorie.
Questo ha inevitabili conseguenze sulle forme del lavoro.
Karl Marx, Grundrisse, vol.1, Torino Einaudi 1976.

Cambieranno i lavori, anche se non tutti, da qui al 2030. E potranno cambiare ancora di più nel periodo successivo. Per tutelare la qualità del rapporto tra disponibilità di offerta lavorativa e caratteristiche dell’erogazione professionale, serve già ora immaginare cosa accadrà alle singole espressioni lavorative e nell’insieme del mercato del lavoro per organizzarne al meglio l’evoluzione.  Per questi motivi è fondamentale mettere a fuoco i cambiamenti degli ambiti lavorativi prossimi e le relative conseguenze. Tra le persone che oggi lavorano, circa il 10 per cento esercita professioni che probabilmente registreranno una crescita in percentuale del totale della forza lavoro. Circa il 20 per cento, invece, svolge professioni che probabilmente subiranno una contrazione o addirittura un azzeramento. Quest’ultima stima, in particolare, è molto più contenuta di quanto suggerito da recenti studi sull’automazione. Ciò̀ significa che circa sette persone su dieci, cioè̀ il restante 70 per cento, sono impegnate in attività̀ lavorative di cui semplicemente non sappiamo con certezza che cosa accadrà̀. Il tutto a fronte di una dinamica di aumento del numero dei lavoratori, che nel primo periodo del 2023 ha raggiunto un picco storico. Su questo argomento le previsioni Excelsior del 2022 hanno delineato un quadro apparentemente molto attendibile: si prevede in assoluto un numero consistente di lavoratori in aumento (rispetto al 2014 nel 2024 saranno circa 2 milioni in più, a fronte di una popolazione calante, e nel 2026 potrebbero arrivare a 3 milioni in più nello scenario più ottimistico, come si vede dal grafico sottostante – fonte Unioncamere-Excelsior); ma le giornate lavorate non aumenteranno in proporzione, il che significa un aumento dei lavori part time o assimilati.

Quali saranno, e dove si collocheranno, i “nuovi lavori”? La mappa del nuovo lavoro è oggi molto varia, è articolabile a seconda dei diversi ambiti del quadrante digitalizzazione/sostenibilità (assi portanti dello sviluppo) e con riferimento anche alle missioni del PNRR.

Nella mappa elaborata da McKinsey, Unioncamere ha inserito i fabbisogni professionali per il periodo 2022-2026, che dovrebbero portare a 24 milioni e 800 mila gli occupati globali in Italia.

Risulta evidente che vanno reperite nuove competenze e conoscenze per affrontare le professioni ed i lavori “nuovi” come vengono definiti da Excelsior e altri. Ecco come diventa fondamentale da subito comprendere i driver per il lavoro del futuro, che sono basati sulle applicazioni a base tecnologico-cognitiva, quali:

  • Data Analysis
  • Machine Learning & Realtà Virtuale/Aumentata
  • Robotica applicata
  • Automazione e Intelligenza Artificiale
  • Metaverso

La valutazione dei nuovi impatti tra automazione, intelligenza artificiale e lavoro umano

 Per prepararsi a un futuro nel quale il lavoro umano viene messo in discussione non basterà però rispondere alle esigenze tecnologiche di qualsiasi genere ed aspetto. Bisogna valutare gli impatti della relazione tra automazione, intelligenza artificiale e lavoro delle persone.

Vari studi suggeriscono che quasi la metà di tutti i posti di lavoro potrebbe essere teoricamente automatizzata, ma non vorremo fermarci a questo “automatismo”: infatti sono da evidenziare ulteriori importanti sfumature.

La prima è che automazione e intelligenza artificiale creano e sostituiscono posti di lavoro, ma i sistemi siffatti hanno ancora bisogno dell’uomo per essere sviluppati, per gestire i casi non routinari, per fornire un tocco umano e per monitorare i guasti.

Una seconda sfumatura è che, almeno nel prossimo futuro, i sistemi tecnologici saranno in grado di assumere solo compiti specifici piuttosto che interi lavori. È vero che il 60 per cento di tutti i lavori ha almeno alcune mansioni che potrebbero essere automatizzate, ma solo il 5 per cento è a rischio di completa automazione. Inoltre, poiché l’intelligenza artificiale eccelle nei compiti di routinepuò liberare gli esseri umani per sfide più interessantiQuesto approccio “aumentativo”, più che di automazione, offre le migliori opportunità non solo per preservare l’occupazione, ma anche per garantire automatizzazioni efficaci e di valore.

Il coinvolgimento attivo dei lavoratori nello sviluppo, nell’adozione e nell’implementazione della tecnologia può portare a sistemi più pratici, innovativi ed efficaci.

Tuttavia, anche con un approccio di tipo aumentativo, i sistemi di automazione e Intelligenza Artificiale comporteranno un corto circuito potenzialmente significativo dell’evoluzione dei posti di lavoro e richiederanno un ripensamento dei sistemi educativi, occupazionali e politici.

Sebbene le competenze tecnologiche sembrino un investimento utile, c’è anche bisogno di competenze generali che possano migliorare l’adattabilità all’occupazione, come il pensiero critico e le competenze che l’Intelligenza Artificiale fatica a replicare, come la creatività, il tocco umano e l’intelligenza emotiva.

Il carattere cruciale delle conoscenze e delle competenze “tecnologiche” da acquisire

Di fronte a questi riferimenti e a queste implicazioni, a livello complementare/fondamentale sono cruciali una serie di conoscenze e competenze personali, inerenti le cosiddette “abilità soffici”; competenze cruciali sempre più valide nell’evoluzione di qualsiasi professione, laddove la tecnologia si incrocia con la «professionalità personale».

Sto riferendomi a pensiero analitico e innovazione; apprendimento attivo e strategie di apprendimento; capacità di risoluzione di problemi complessi; pensiero critico e analisi evoluta; creatività, originalità e spirito d’iniziativa; leadership e influenza sociale; uso, monitoraggio e controllo della tecnologia; progettazione e programmazione tecnologica; resilienza, tolleranza allo stress e flessibilità; problem-solving e ideazione di soluzioni complesse. Se non verranno implementate queste abilità “funzionali-trasversali”, la capacità di lavoratrici e lavoratori di interagire con le nuove tecnologie sarà sempre ridotto, e le stesse tecnologie non raggiungeranno il loro potenziale.

Torniamo comunque alle competenze “tecnologiche” da acquisireLa situazione attuale in Italia è critica. Del resto, purtroppo siamo in compagnia. Il 60 per cento degli attuali lavoratori a livello dell’Unione europea non ha le competenze basiche in ambito ICT che saranno necessarie per le evoluzioni professionali, secondo la Commissione Europea. E questo appare vero soprattutto nei lavori intermedi (capireparto e funzione, impiegati in genere).

Il punto focale resta questo: la tecnologia può risolvere in autonomia una serie di situazione, ma non si sostituisce alla necessità dell’evoluzione delle competenze dei lavoratori. Serve inoltre una specifica azioni di orientamento in termini di politiche applicative. Servono, in particolare su questo tema, valide politiche attive per il lavoro.

Quali politiche attive del lavoro per l’Italia

Il problema è che le politiche attive in Italia non funzionano in maniera efficiente in generale, figuriamoci su temi così complessi. Per rendere efficienti ed efficaci le politiche attive del lavoro soprattutto nelle relazioni con le tecnologie evolute e future, sarà necessario tra le altre cose agire in tre direzioni.

In primo luogo occorre Istituire un monitoraggio comparativo a livello nazionale tra le attività regionali, svolto da un’istituzione indipendente.

Il secondo luogo formare a livelli di eccellenza i collaboratori dei centri per l’impiego: se devo contribuire alla collocazione appropriata dei candidati in un contesto di alta conoscenza, devo essere davvero molto competente, e non un precario stabilizzato. Questo contribuirebbe da subito ad aumentare la necessaria reputazione dei centri, anche con programmi di comunicazione sociale davvero funzionali.

In terzo luogo utilizzare le tecnologie evolute per portare a sintesi, dopo decenni, istituzioni potenzialmente rilevanti come la Piattaforma per il Lavoro, che ad integrazione dei punti precedenti, svolga una vera azione di «matching» tra domanda e offerta di lavoro – anche qui servono persone molto ben preparate che gestiscano contenuti ed attività di facilitazione.

La strategia da imboccare per approdare a “ecosistemi lavorativi evoluti”

Come costruire una strategia pratica per affrontare la situazione prossima ventura in termini di sviluppo del lavoro e dei lavori, ovvero di quelli che possiamo definire gli “ecosistemi lavorativi evoluti”? Il nuovo ecosistema di sviluppo del lavoro e le sfide che l’attendono si basano a mio avviso su una serie di argomenti chiave quali la redistribuzione del reddito, il ruolo delle attività professionali e dei lavori a chiamata, i temi relativi all’equilibrio di genere, la sostenibilità e naturalmente la digitalizzazione diffusa.

Per questo il punto cruciale per il Sistema Italia resta lo sviluppo diffuso della competenza informatica. Se le conoscenze informatiche saranno la chiave per qualsiasi lavoro, anche per compilare un form su una APP a testimoniare un completato incarico, una tesi che non è così scontata è quella di far inserire questo tema anche nella contrattualistica collettiva nazionale di ogni settore d’impiego, al fine di rendere non facoltativo l’accrescimento delle competenze necessarie.

Per questo ritengo cruciale prevedere nella contrattualistica del lavoro prossima ventura:

  1. Corsi e formazione per le conoscenze informatiche di base necessarie al corretto svolgimento dei propri incarichi previsti per i vari ruoli (il parametro dovrebbe essere il 5 per cento almeno del tempo di lavoro annuo dedicato alla formazione specifica sulle competenze informatiche, ed analogo dovrebbe essere il tempo dedicato alla formazione sulle citate soft skills)
  2. Programmi di formazione periodica (semestrale o annuale) sulle pratiche informatiche evolute in generale in ambito Intelligenza Artificiale e automazione
  3. Accertamenti periodici sui livelli di conformità cognitiva (dal punto di vista IT) dei lavoratori sulla base delle esigenze professionali.

La comprensione dell’azione dell’intelligenza artificiale e delle applicazioni ad essa assimilabili vanno inserite nella specificità dei settori, a partire da quelli a forte valenza tecnica (meccanica in primis) e per passare poi nei servizi avanzati per favorire la crescita professionale degli operatori.

Per ultimo – ma non perché meno rilevante, anzi in molti casi sarà determinante – intendo affrontare il tema del reskilling (apprendere nuove competenze), che diventa cruciale per mantenere in vari settori le persone al lavoro. Mentre la formazione si rivolge allo stesso ruolo che evolve, questo tema concerne la preparazione per svolgere nuovi incarichi, al fine di poter fornire subito apporti gratificanti anche per gli stessi interessati, soprattutto per le persone che operano in professioni a rischio di obsolescenza.

Inserire la crescita trasversale della professionalità personale come tema cruciale dei lavori del futuro diventa quindi molto importante, per porre la centralità della soddisfazione delle persone e di conseguenza delle imprese.

Per una nuova ‘economia della collaborazione’

In tal senso le iniziative di coaching lavorativo e di formazione ad “intraprendere” appaiono davvero una necessità da prevedere da parte di lavoratori e aziende, e di conseguenza da normare.

Per risolvere quindi le problematiche strutturali del mercato del lavoro, è opportuno concentrarsi fin d’ora su quello che può fare crescere collettivamente tutto il sistema.

Per questo appare opportuno cambiare anche alcune logiche economiche di base: dobbiamo promuovere una nuova “economia della collaborazione” per lo sviluppo del lavoro e dei lavori.

Esistono numerosi casi di successo, anche in Italia, di veri e propri ecosistemi di business sia mono- diretti (con una impresa guida), sia eterodiretti (con una rete di imprese a condurre il percorso), che consentono una sana evoluzione della qualità dei lavori prossimi; partiamo da qui.

Si tratta di contesti in cui imprenditori e collaboratori, in genere, vivono anche con maggior forza e determinazione le sfide improbe che devono affrontare in questo periodo.

Questo modello dovrebbe essere portato a sistema perché aumenta la coesione sociale e il mutuo coinvolgimento.

A mio avviso, solo in questo modo si potrà generare un’evoluzione positiva anche in termini di equilibrio delle dinamiche di evoluzione del lavoro e dei lavori.