Ragioni di Stato

Democrazia Futura. Un metodo italiano condiviso per far fronte al terrorismo internazionale

di Sara Carbone, storica |

La storica Sara Carbone spiega su Democrazia Futura il cosiddetto Lodo Moro e lo strumento della ragion di Stato.

Una giovane storica Sara Carbone illustra uno studio dedicato al metodo italiano assunto nei confronti del terrorismo palestinese dopo gli attentati dei primi anni settanta impropriamente definito come “lodo Moro”.

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Sara Carbone

Nel libro di Valentine Lomellini, Il “lodo” Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969 – 1986[1], lettori più o meno convinti di essere privati, fra gli altri, del loro diritto alla giustizia e desiderosi ciononostante di perseguire la verità, troveranno valide conferme al loro sentire e nuovi spunti di riflessione circa alcuni fatti della storia nazionale recente i cui effetti a lungo termine vanno palesandosi in questi anni.

Consapevole, infatti, che, in Italia, molto spesso la «ragion di stato [ha] violato il diritto dei cittadini italiani alla giustizia» e animata dal desiderio di evitare che sia profanato «il nostro diritto alla verità», l’autrice ha riscritto la storia degli attentati terroristi occorsi, nel nostro Paese, fra il 1969 e il 1986 e del cosiddetto “lodo” Moro: un accordo attraverso il quale, l’Italia, accettando di diventare zona di transito sicura di armi e guerriglieri palestinesi, si assicurava l’immunità da attentati terroristici sul suo territorio.

La docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università degli Studi di Padova, dalla prospettiva privilegiata di chi guarda ai fatti avendo fissato alcune necessarie e ineludibili considerazioni preliminari, attraverso un linguaggio “prezioso” e un procedimento narrativo – interpretativo avvincente, smonta i luoghi comuni nati attorno alla fuorviante espressione “lodo Moro”, usata per la prima volta in tempi recentissimi, il 20 luglio 2005, dal presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga.

Muovendosi con disinvoltura fra fonti italiane ed estere e interrogando documenti di recente desecretazione, Valentina Lomellini ritiene fondamentale, per prima cosa, inquadrare il terrorismo arabo – israeliano come fenomeno internazionale al fine di «ridimensionare fortemente la presunta eccezionalità del caso italiano» e di rileggere alcuni accadimenti della nostra storia alla luce di quanto accadeva fuori dal Paese.  

Grazie a tale premessa, a esempio, l’inizio del funzionamento a pieno ritmo della politica del lodo e «la questione del possibile accordo dell’Italia con l’OLP», all’indomani del «primo attentato di matrice non selettiva» sul nostro territorio – Fiumicino, 17 dicembre 1973 – assumono un significato diverso se si considerano contestualmente i tre attentati avvenuti all’estero nello stesso anno. L’irruzione presso l’ambasciata dell’Arabia Saudita a Khartum, il 1 marzo 1973, quella all’ambasciata saudita a Parigi il 5 settembre 1973 e l’attacco terroristico a un carico di passeggeri provenienti da Mosca, alla frontiera austro – cecoslovacca avevano segnato, difatti, la fine di una stagione terroristica in cui le frange più estremistiche di Al Fatah agivano in autonomia e l’inizio di una nuova era in cui i cosiddetti Stati mediatori e «santuario» – Libia e Iraq prima, Siria poi – iniziavano a sovvenzionare e a offrire vie di fuga agli attentatori.

Riconoscere, inoltre, che anche altri stati europei – Svizzera, Austria, Francia e, con ogni probabilità la Repubblica Federale Tedesca – avevano compreso di candidarsi a paesi bersaglio qualora avessero trattenuto sul proprio suolo terroristi tratti in arresto e che, per questo, avevano adottato anch’essi “politiche di contenimento”, permette di non considerare più la politica del «lodo» una prerogativa esclusivamente italiana.

È indispensabile, inoltre, continua la studiosa, tener conto di ulteriori elementi che prescindono dagli attentati in senso stretto. I mutevoli interlocutori via via coinvolti con i quali si è stati costretti a negoziare; i diversi tipi di attentati che, in base al numero di vittime, si caratterizzavano ora come “stragisti” ora come “selettivi”; la crisi petrolifera della metà degli anni Settanta e, non ultima, la varietà di obiettivi che i paesi bersaglio perseguivano  – dal rilascio degli ostaggi alla fornitura di greggio a prezzi ragionevoli – permettono di comprendere come il “lodo” non poteva consistere «in un solo documento, né poteva avere tale forma» ma era espressione di «un processo dinamico di negoziazione continua».

E ancora, i fatti e i comportamenti assunti dalla classe politica italiana nell’ottobre del 1985, all’indomani del dirottamento dell’Achille Lauro, sono utili a realizzare che il “lodo” non è stata una prerogativa esclusiva della politica dello statista democristiano Aldo Moro assassinato nel 1978 dalle Brigate Rosse, né della corrente cosiddetta morotea che lo aveva sostenuto e neppure strumento privilegiato dell’intero partito della Democrazia Cristiana.

Giulio Andreotti, convinto sostenitore della linea della fermezza in politica interna, non mancò, difatti, sul finire del 1985, di fare un «gioco di sponda concordato» con l’allora Presidente del Consiglio, il socialista Bettino Craxi riuscendo, in tal modo, sia a neutralizzare gli Stati Uniti di Ronald Reagan, che chiedevano giustizia per un concittadino ucciso sulla nave, sia ad assicurarsi la prosecuzione del dialogo con i governi sponsor dei terroristi. L’acquiescenza del socialista Craxi nel 1985, il coinvolgimento del sottosegretario agli Esteri, il socialista Cesare Bensi, nella visita del ministro degli Affari esteri iracheno Shadel Taqa, nel luglio del 1974, e molti altri fatti ancora, permettono alla Lomellini di affermare che sarebbe opportuno di parlare di «lodo Italia» visto che esso designa un «metodo italiano» condiviso dalle diverse forze politiche per far fronte al problema del terrorismo internazionale[2].

La storica si assume soprattutto la responsabilità di affermare che il «lodo» è stato «una politica dello Stato italiano» e che, lontano dalla cornice «dei bisbigli, degli accordi inconfessabili siglati dai servizi segreti nella più assoluta riservatezza», ha coinvolto i principali dicasteri, alcuni esponenti della magistratura, il partito con i maggiori consensi in Italia – la Dc – alcuni esponenti del Partito socialista e, nel 1976, il Presidente della Repubblica. Sebbene si sia visto negato il permesso per la consultazione integrale del fascicolo e del decreto col quale l’allora Capo dello Stato, Giovanni Leone, il 16 aprile 1976, aveva concesso la grazia a tre detenuti, attraverso un ragionamento dalla logica stringente e incrociando più dati, la Lomellini può riconoscere nei beneficiari del procedimento, i tre libici arrestati a Fiumicino nel marzo precedente perché in possesso di armi da guerra. La Lomellini, inoltre, riflette proprio su quanto accaduto a partire dall’arresto dei tre uomini a Roma fino alla concessione della grazia. Il processo per direttissima, la sentenza di condanna non impugnata da alcuno, nessuna contestazione da parte del governo di Tripoli all’attribuzione della cittadinanza libica a tre detenuti che parlavano «uno strano arabo senza alcuna inflessione tipicamente libica» e la concessione stessa della grazia avvenuta circa a un mese dalla sentenza di condanna, fanno concludere alla storica che, sebbene resti oggetto di discussione se si sia trattato o meno di «alta politica», il «lodo» è stato, fuor di dubbio, materia di «politica ad alto livello» le cui conseguenze, rivelatisi «un gioco a somma positiva» nel medio periodo, oggi sono materia di osservazione e analisi.


[1] Valentine Lomellini, Il “lodo” Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969 – 1986, Roma-Bari, Laterza, 2022, 224 p.

[2] La studiosa non entra assolutamente nel merito delle diverse motivazioni né della legittimità degli scopi che indussero esponenti di partiti politici, cariche dello stato e magistrati ad accettare la politica del “lodo”. La Lomellini tenta solo, dalla prospettiva dello storico che analizza i dati a disposizione, di sfatare una delle «varie leggende» che caratterizza la storia della Repubblica italiana, come scrive nell’Introduzione, ossia che il “lodo” fosse un «accordo sottobanco, ipoteticamente stipulato dai servizi segreti italiani per conto dello statista democristiano» e che, dunque, nessun altro, oltre Aldo Moro, ne fosse al corrente. Valentine Lomellini, Il “lodo” Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969 – 1986, op. cit., p. VII.