Il semipresidenzialismo

Democrazia Futura. La disfida, la Stele e la rosa

di Giuseppe Lauri, Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali, Università di Pisa |

L’Italia di fronte alla forma di governo semipresidenziale francese, per Democrazia Futura l'approfondimento di Giuseppe Lauri.

Giuseppe Lauri

Giuseppe Lauri, Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali all’Università di Pisa, in un breve saggio per Democrazia futura, “La Disfida, la Stele e la rosa” ripercorrendo il lungo iter dei vari tentativi negli ultimi decenni di riforma istituzionale, analizza come si sia posta – come recita l’occhiello – “L’Italia di fronte alla forma semipresidenziale francese”.  La XIX legislatura, almeno al 4 gennaio 2023, non registra proposte di legge costituzionale sulla forma di governo. Come si anticipava, però, le notizie di stampa sembrano confermare le intenzioni dell’attuale maggioranza – e dello stesso esecutivo – di porre in cantiere una riforma degli assetti tra organi costituzionali di matrice presidenziale. Centrale, in tal senso, è, ancora una volta, la figura di Giorgia Meloni.[…]  Tirate le somme, e anche in considerazione dell’eterno ritorno dell’uguale che conosce il dibattito politico in Italia, più che con “Parigi, o cara”, sembra più opportuno chiudere con l’eco (!) “Stat rosa pristina nomine, et nomina nuda tenemus”. La shakespeariana rosa che avrebbe lo stesso profumo anche se non si chiamasse rosa è la forma di governo immaginata, evidentemente, dalla presidente Meloni che, anche a voler essere chiamata presidenziale, sarebbe comunque semipresidenziale”.

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1. I rapporti tra Francia e Italia, in ogni campo, sono sempre stati molto stretti. Indubbiamente, essi sono stati favoriti da una serie di innegabili contiguità (geografiche, storiche e culturali) che hanno permesso, nel corso del tempo, a ciascuna delle due di confrontarsi, prendendo esempio l’una dall’altra. Questa dinamica ha riguardato anche le scienze giuridiche. Che si tratti di diritto civile (col raffronto tra il Code napoleonico e le esperienze nostrane di codificazione), penale, amministrativo o ecclesiastico (ove pare ormai affermata in dottrina una distinzione tra laicità all’italiana e laicità alla francese), i momenti di confronto sono stati e sono davvero numerosi. Ciò vale naturalmente anche per il diritto pubblico, tanto che, come ha indicato Alessandro Torre una decina di anni fa[1], si può affermare che esista una sintonia di lungo corso tra il costituzionalismo italiano e quello francese[2] tale per cui «una ricostruzione completa del percorso bibliografico che dia ragione dei modi in cui, nel lungo periodo tale flusso [quello di idee dalla Francia all’Italia] è stato osservato da molte generazioni della cultura giuspubblicistica italiana sarebbe la missione di un’intera vita di ricerca»[3].

In questa cornice, la forma di governo francese è stata uno dei temi di indagine maggiormente esplorati dagli studiosi italiani e, con limitato riferimento agli ultimi settant’anni, un primo, significativo, momento di dialogo giuspubblicistico si ebbe tra il 1946 e il 1948, seguito, un decennio dopo, dal passaggio alla Quinta Repubblica. Fu a partire però dagli Anni Ottanta che il sistema semipresidenziale francese venne posto al centro di un rinnovato interesse politico oltre che scientifico, interesse non ancora tramontato. Di tutte queste fasi, dunque, si cercherà di tratteggiare una panoramica in questo contributo. 

2. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la Francia e l’Italia si trovarono a gestire una delicata fase costituente, differenziata tra i due ordinamenti per quanto concerne le condizioni di partenza, lo svolgimento e gli esiti come ricordato da Ugo De Siervo nel suo Le idee e le vicende costituzionali in Francia nel 1945 e 1946 e la loro influenza sul dibattito in Italia (1980)[4]. Merito dell’illustre studioso è quello di aver rammentato anzitutto come le due realtà, pur omogenee per area geografica, stampo culturale e struttura economico-sociale, avessero subìto conseguenze diverse dal conflitto in virtù del differente schieramento sullo scacchiere internazionale ma anche a causa di altri fattori tra i quali le vicende della Resistenza. In questo contesto, tuttavia, era rinvenibile un fil rouge: tanto in Francia, quanto in Italia, la fase costituente si aprì col fermo interesse di superare la forma di governo precedente alla stagione autoritaria. Inoltre, non poteva sfuggire il legame culturale costituito dalla presenza, in Francia, di numerosi intellettuali antifascisti banditi dal nostro Paese e la loro partecipazione al dibattito politico francese antebellico, caratterizzato dalla debolezza del regime parlamentare al punto tale da generare un vero e proprio mouvement révisionniste nei confronti della cosiddetta Constitution “Grevy” già all’indomani della Prima Guerra Mondiale[5].

Le proposte di necessaria razionalizzazione del parlamentarismo portate avanti dai giuspubblicisti francesi tra le due guerre furono varie. Secondo Raymond Carré de Malberg bisognava superare la preminenza dell’assemblea parlamentare sull’esecutivo dando maggior peso al corpo elettorale (e dunque alla sovranità popolare contrapposta alla sovranità assembleare) con l’introduzione dell’istituto del referendum; Probus, Henry Leyret, Ernest Lairolle e Maurice Hauriou insistevano sulla necessità di favorire una legittimazione popolare del Capo dello Stato, prevendendo che fosse eletto direttamente, o comunque da collegi altri rispetto al Parlamento; André Tardieu ricordava come, accanto a dispositivi di razionalizzazione parlamentare e al rafforzamento dei poteri del Presidente della Repubblica, si dovesse adoperare anche un sistema di giustizia costituzionale, e sulla sua scia si inserì il Comité tecnique pour la réforme de l’Etatpromosso nel 1935 dal governo di Gaston Doumergue e composto da Jacques Bardoux, Raphaël Alibert, Joseph Barthélémy e Ernest Mercier, che pure elaborò un progetto di costituzione.

Ciò assume rilevanza in questa sede è che queste idee attraversarono la temperie bellica anche grazie all’elaborazione che ne fecero gli attori della Resistenza francese – i quali, analogamente all’esperienza italiana, appartenevano a tre grandi famiglie politiche (cristiano-democratica, socialista, comunista) affiancate da altre minori (liberale, radicale, autonomista) – tanto che già a partire dal 1940 si ebbe una serie di documenti e studi in buona parte anticipatori delle proposte avanzate in sede di assemblea costituente ed affinati principalmente tra il 1940 e il 1945.

Eccettuati il Partito comunista francese (orientato, secondo Fresnette Ferry, verso una forma di governo convenzionale) e l’Organisation civile et militaire (che faceva esplicitamente riferimento alla forma di governo statunitense), «tutte le altre proposte si [mossero] nell’ambito di forme di governo parlamentari razionalizzate, con più o meno accentuati tentativi di rafforzare gli organi esecutivi e di garantire comunque il rispetto di determinate posizioni di singoli, di gruppi, o di realtà sociali operanti nello Stato»[6] tanto che a questo orientamento comune non sfuggì neanche la proposta formalizzata dal Comité général d’études composto, tra gli altri, da Michel Debré, i cui legami con Charles De Gaulle saranno pure decisivi negli anni successivi[7].

Dunque, presso i lavori della Costituente del 1945 non si parlò di semipresidenzialismo (e, forse, in mancanza di un’organicità della proposta per come verrà dagli ambienti gollisti successivamente, diversamente non poteva essere). Al contrario, le grandi famiglie politiche della Resistenza francese si posero nel solco della forma di governo parlamentare razionalizzata allo scopo di evitare quelle derive della Terza Repubblica viste come causa di tutti i mali del Paese, non ultimo della temperie di Vichy. I comunisti proposero, apertis verbis, un governo assembleare imperniato sulla presenza di una sola Camera espressione di una sovranità popolare pervasiva nel controllare il potere esecutivo e quello giudiziario, secondo uno schema che, ricorda Ugo De Siervo, fece sintesi tra istanze antiche quali potevano essere quelle del robespierrismo e quelle di matrice marxista-leninista e, più propriamente, sovietica; i socialisti, raffinate nel tempo ipotesi più vicine alla forma di governo direttoriale e, in misura minore, presidenziale, si posero grossomodo nello stesso solco, valorizzando gli istituti di democrazia diretta[8]; più smarcata la posizione dei centristi democristiani del Mouvement Républicain Populaire (Mrp) i quali, in continuità con il progetto elaborato durante la Resistenza (e con i sentimenti dello stesso de Gaulle), furono per un rafforzamento della figura del Capo dello Stato a scapito di un bicameralismo asimmetrico. A valle di queste proposte, l’Assemblea Costituente francese licenziò un progetto di compromesso, la cui forma di governo veniva definita come profondamente diversa dal parlamentarismo classico; esso, come noto, non vide la luce in quanto rigettato con un referendum.

Come evidenziato da Ugo De Siervo, il biennio 1945-1946 fu uno dei momenti più di incontro più significativi tra la cultura giuridica d’Oltralpe e la nostra, impegnata, negli stessi mesi, con i lavori della Costituente. Tali influenze corrisposero, almeno tendenzialmente, alle sintonie ideologiche tra le forze politiche francesi e italiane, anche se non mancarono sfumature di differenziazione; in questo senso, i democristiani furono i più sensibili alle proposte dell’area gollista, soprattutto in tema di poteri del Capo dello Stato, funzioni della seconda Camera e referendum (si pensi a Giorgio La Pira e, in misura minore, Costantino Mortati). Mentre i comunisti italiani guardarono ai loro omologhi d’Oltralpe (il riferimento qui è a Vincenzo La Rocca), il Psiup riprese alcune idee dei socialisti francesi nel delineare una forma di governo caratterizzata dalla centralità dell’assemblea parlamentare a scapito del Presidente della Repubblica; infine, una certa eco dei moderati e radicali francesi è ravvisabile in talune delle proposte avanzate dalle forze minori della nostra Assemblea Costituente (azionisti e liberali in primis)[9].

3. L’analisi desiervana si ferma alle soglie del naturale sbocco del ribollire di idee sinora descritto, cristallizzato dalla Costituzione francese del 1957 e dalla forma di governo definita, secondo le idee di Maurice Duverger, «semipresidenziale». L’ibrido di elementi di ascendenza presidenziale su un impianto di parlamentarismo (fortemente) razionalizzato ha suscitato un indubbio interesse presso gli studiosi italiani. Se in un primo momento la nuova forma di governo venne vista con uno sguardo meramente accademico (invero diffidente, come dimostrano alcuni commenti illustri alla nuova Carta francese quali quello di Serio Galotti[10]), a partire dagli anni Settanta furono gli ambienti politici a parlare di un’opzione semipresidenzialista quale chiave di una futuribile riforma costituzionale, imperniando su di essa un dibattito (sovente dai toni grotteschi) che raggiunse un punto culminante negli ultimi anni Novanta. Ecco che dunque, come già successo altre volte, si guardò ad un modello francese per problemi italiani.

3.1. Maurice Duverger ha impiegato circa trent’anni per dare un volto compiuto al semipresidenzialismo, giungendo a definirne i caratteri fondamentali nella presenza contemporanea di tre elementi: presenza del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento; elezione diretta del Capo dello Stato; attribuzione a questi organi di significativi poteri. Altrettanto interessanti sono i caratteri del semipresidenzialismo individuati dalla nostra dottrina.

Testo imprescindibile, a tal proposito, è la voce Governo (forme di) redatta da Leopoldo Elia nel 1970[11]. In essa, coi suoi noti rimandi metodologici alle dinamiche del sistema politico del moderno Stato liberal-democratico, accanto alle forme di governo parlamentare (a sua volta suddivisa in base alle sfaccettature del sistema dei partiti), presidenziale e direttoriale, si parla di forma di governo a componenti presidenziali e parlamentari, a proposito della quale l’illustre studioso ritiene più che onesto chiedersi se si tratti di un nuovo modello di forma di governo. Con felice espressione, Leopoldo Elia ricorda come essa si presti a virtualità multiple, in quanto la prassi e il concreto atteggiarsi della situazione politica determinano, inevitabilmente, stagioni in cui ciascuna delle due componenti prevale (o tende a prevalere) sull’altra, soprattutto guardando alla coincidenza, o meno, tra Capo dello Stato e leader della maggioranza parlamentare. Secondo Elia, le virtualità della forma di governo semipresidenziale possono aversi, in particolare, solo in un sistema dove esistano partiti all’europea, permanentemente dedicati ad organizzare il consenso, e che dunque competano per esprimere gli organismi esponenziali (Presidente della Repubblica e Parlamento) delle due componenti. «È caduta, alla prova dell’esperienza, l’assurda pretesa del generale de Gaulle di mantenere strutturalmente distinte le due elezioni, nel senso che quella del Capo dello Stato riguardasse semidei, candidati in nome proprio, mentre l’elezione dei parlamentari fosse la cosa dei partiti, oggetto di trattative sezionali e subalterne per le candidature al primo turno e i “désistements” al secondo»[12]: la vitalità propria del modello francese passa anche dallo stato di salute di quelle organizzazioni politiche più o meno tacciate, dagli ambienti gollisti, di essere state responsabili della mediocre esperienza della Quarta Repubblica. In questo, lo studioso fu lungimirante, in quanto anticipò quanto sarebbe avvenuto nelle esperienze di coabitazione (ancora non verificatesi) caratterizzate da un riequilibrio dei rapporti tra Presidente della Repubblica e Parlamento.

In seguito al contributo di Elia, la dottrina italiana si è interrogata a lungo sulla possibilità di configurare una forma di governo semipresidenziale. Non si possono tacere, ad esempio, i problemi che pone Massimo Luciani nell’aggiornamento della voce sulle forme di governo[13]. In particolare, lo studioso – nell’ambito di un più ampio discorso sulla validità gnoseologica e descrittiva del concetto di forma di governo, che invero sarebbe frustrato in partenza al punto tale che delle forme di governo si dovrebbe porre solo una non tassonomia –  ricorda come siano ben pochi e labili i profili che impediscano l’assorbimento della forma di governo semipresidenziale all’interno di quella parlamentare, riducendosi essi, di fatto, all’elemento del rapporto fiduciario, debole in presenza di una majorité présidentielle e forte nelle occasioni di cohabitation. In questa prospettiva, proprio a partire dall’assunto che la classificazione della forma di governo semipresidenziale dipende fortemente dalla prassi concreta – tanto che «il massimo che si potrà fare sarà parlare di forma di governo “a molteplici virtualità”» –, Luciani riporta la sua riflessione sui binari di un ragionamento generale sull’opportunità di continuare a ragionare sulle forme di governo: «più che accapigliarsi sulla collocazione delle due forme di governo [scil., la direttoriale e la semipresidenziale]ora esaminate, dunque, sembrerebbe più opportuno prendere atto dei limiti della classificazione tradizionale, ponendosi alla ricerca di strumenti analitici diversi da quelli oggi dominanti»[14].

Meritevole di approfondimento è anche la posizione di Mauro Volpi, espressa in un suo saggio del 1997[15]. Per questo autore non ha senso ridurre la forma di governo in esame ad un sottotipo della parlamentare a tendenza o a correttivo presidenziale, o ad una forma di governo presidenzialista (quasi fosse degenerata rispetto alla presidenziale), né si può fare del semipresidenzialismo e della sua capacità di descrivere esperienze tra loro lontane ed eterogenee (quali la repubblica di Weimar, la Francia della Quinta Repubblica, l’Irlanda ed altri pochi ordinamenti) una sorta di grimaldello della non validità del concetto stesso di forma di governo[16]. Le oscillazioni dottrinarie nel ricondurre la forma di governo semipresidenziale ora alla parlamentare, ora alla presidenziale, piuttosto, confermano «la natura composita e bifronte di una forma di governo a sé stante, la cui autonomia scientifica può essere negata solo al prezzo di cancellare uno dei suoi elementi costitutivi». Su queste basi, inoltre, sarebbe un errore «ravvisare nell’esperienza francese l’inveramento della forma di governo semipresidenziale, ritenendo tutte le altre spurie o rientranti in diverse categorie»[17]. Si deve, piuttosto, rendere conto delle sfaccettature della forma di governo semipresidenziale dividendola in sottotipi, come pure hanno fatto taluna dottrina anglosassone (Matthew Soberg Shugart e John Michael Carey, invero in maniera non molto convincente[18]), lo stesso Maurice Duverger[19] e, in dottrina italiana, tra gli altri, Giovanni Sartori[20] e Aristide Canepa[21].

3.2. Benché nel corso degli anni la Quinta Repubblica abbia saputo guadagnarsi un numero sempre più ampio di estimatori, inizialmente il regime semipresidenziale suscitò critiche non indifferenti da parte della giuspubblicistica italiana. È questo il caso della prima monografia italiana dedicata a quest’esperienza ordinamentale, scritta da Serio Galeotti nel 1960 ed eloquentemente intitolata “La nuova costituzione francese. Appunti sulla recessione del principio democratico nella V Repubblica”. Il giudizio postumo su questo saggio è pressoché unanime e riassumibile nella felice espressione «lettura sempre molto istruttiva nei suoi accenti critici» utilizzata da Alessandro Torre nella sua rassegna[22], anche se non manca chi ha tacciato lo scritto di essere affetto da una vera e propria «incomprensione per la V Repubblica»[23].

L’analisi di Serio Galeotti si pone in un clima ben preciso, preconizzando l’introduzione dell’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Repubblica. Prima che una critica, dunque, essa traccia della Quinta Repubblica un quadro a tinte fosche, basato sui rischi di una vera e propria deriva autoritaria plebiscitaria e presidenzialista. Le critiche mosse dall’eminente studioso sono tutto sommato riassumibili in argomenti che saranno presenti in tutte le trattazioni inerenti quell’esperienza istituzionale. Anzitutto, i limiti previsti dalla loi constitutionelle del 3 giugno 1958 i quali apparvero allo studioso, tuttavia, più che dei limiti, dei veri e propri obiettivi il cui raggiungimento era affidato alla preminente figura di Charles de Gaulle e del suo gabinetto[24]. Ancora, era evidente l’indebolimento del Parlamento, in molte procedure soggiogato alla volontà dell’esecutivo[25]; quest’ultimo, a sua volta, vedeva sacrificato il principio collegiale a vantaggio di quello monocratico, evidente nella preponderanza del Capo dello Stato rispetto al Primo Ministro tanto che gli stessi poteri del Presidente della Repubblica apparvero allo studioso come di gran lunga eccessivi e ben lungi dal disegnare una figura garante degli equilibri costituzionali. Inoltre, a Galeotti avanzava una certa difficoltà nell’inquadrare al meglio la nuova forma di governo, tanto da spingersi a scrivere come fossero non poche le perplessità che essa potesse costituire un «oggetto di studio scientificamente sicuro»[26]. Come ha scritto Rino Casella in un commento al saggio, «in sostanza, secondo Galeotti, il carattere antidemocratico del regime e la natura autocratica della costituzione del 1958 legano strettamente la Cinquième alla situazione di emergenza politica ed istituzionale da cui è sorta e pertanto la capacità di tale sistema di evolversi e di trasformarsi sulla base di un allentamento dei “meccanismi autoritari” su cui è stato fondato può essere così valutata solo dopo l’abbandono del potere da parte del generale de Gaulle»[27].

3.3. Da quasi vent’anni, il semipresidenzialismo è stato oggetto di confronto politico nell’ambito delle riflessioni su una possibile revisione dell’assetto costituzionale italiano; cosa, questa, che da un lato ha favorito una vera e propria renaissance[28] della trattatistica sulla forma di governo, dall’altro ha incentivato la descrizione e l’analisi delle modalità con cui l’ipotesi semipresidenziale è stata affrontata dagli attori politici.

La data decisiva per la svolta fu il 10 febbraio 1996, quando Antonio Maccanico, incaricato all’indomani della caduta del governo Dini dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro di formare un governo con al centro del proprio programma le riforme istituzionali, enunciò, tra i punti su cui cercare l’appoggio delle principali forze politiche, la modifica dell’assetto istituzionale italiano in senso semipresidenziale[29].

Invero, l’opzione semipresidenziale era stata adombrata da alcune proposte provenienti dagli ambienti politici italiani – in particolare, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano – fin dagli anni Settanta del secolo scorso; ma già in esse, tuttavia, era possibile ravvisare una congerie di idee tale da spingere Adriano Giovannelli a parlare di vere e proprie «letture scomposte del sistema francese»[30]. E a questa tendenza non sfuggirono le forze politiche tra il 1996 e il 1998, quando il tema del semipresidenzialismo divenne centrale presso la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XIII legislatura (cd. Bicamerale D’Alema), con vere e proprie letture di comodo del semipresidenzialismo – talora vaghe, ma sicuramente destinate più a sparigliare le carte della contrapposizione tra forze politiche che a cercare di raggiungere un concreto risultato in termini di revisione effettiva della forma di governo. Secondo un atteggiamento che Enrico Grosso riconduce già alle proposte messe in campo dal Psi negli anni Ottanta, l’iniziativa riformatrice che vide il suo culmine nella ricordata commissione bicamerale sarà sempre alimentata da «obiettivi di breve periodo e di corto respiro»[31], come poi dimostrerà l’arenarsi di quest’ultima esperienza nelle secche dell’opportunismo politico della dialettica politica. «Le biblioteche di diritto costituzionale comparato vennero letteralmente “saccheggiate”, – scrive Grosso – alla ricerca dei segreti più reconditi [del sistema semipresidenziale], e ciò in concomitanza con il momento in cui apparve (per una breve stagione) concretamente realizzabile una riforma costituzionale che prevedesse l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente della Repubblica»[32].

Di quel momento restano numerose analisi, cui giova rinviare dal momento in cui, come si può ben ricavare dalle stesse, il semipresidenzialismo da filone giuspubblicistico divenne questione di mero policy making. Basti solo accennare agli autori che hanno avuto modo di scrivere, prendendo atto della superficialità di cui furono permeati i dibattiti parlamentari in sede (presuntamente) costituente: Adriano Giovannelli[33], Carlo Fusaro[34], Enrico Grosso[35].

4. Anche se la stagione degli ultimi anni Novanta del secolo scorso, caratterizzata dall’emergere dell’idea di un vero e proprio semipresidenzialismo all’italiana, sembra difficilmente ripetibile, l’attitudine a riferirsi all’esperienza istituzionale francese – per comprenderla e, eventualmente, per trarne degli spunti “operativi” – rappresenta ancora oggi un tratto caratteristico della nostra dottrina giuspubblicistica.

Invero, a mantenere un certo qual grado di attenzione nei confronti dell’esperienza transalpina hanno contribuito, molto probabilmente, anche le ultime tappe del dibattito concernente le riforme dell’assetto istituzionale italiano. Tra il 2013 e il 2014 hanno operato un Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionalipromosso dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e una Commissione per le riforme costituzionali istituita dal governo Letta nel tentativo di superare l’iniziale impassedella XVII legislatura cercando un programma comune di interventi attorno ai quali riunire le forze politiche. Nonostante la continuità tra le stesse, diverso fu l’atteggiamento tenuto nei confronti dell’opzione semipresidenziale. In particolare, il gruppo promosso dalla Presidenza della Repubblica, all’esito di un confronto interno, ritenne essere comunque più adeguata al sistema italiano la forma di governo parlamentare, rilevando come la semipresidenziale implicasse il rischio di un eccesso di personalizzazione della politica e «non prevede[sse] una istituzione responsabile della risoluzione della crisi perché il Presidente della Repubblica è anche Capo dell’Esecutivo»[36].

Più articolata appare la posizione del secondo comitato, il quale, senza operare valutazioni di preferibilità su ciascuna di esse, indicò tre opzioni di forma di governo: parlamentare razionalizzata, semipresidenziale e a governo parlamentare del Primo Ministro. Gli esperti a favore della seconda[37], in particolare, affermarono come la stessa potesse apportare al sistema italiano «continuità (la durata in carica del Capo dello Stato è fissata in Costituzione e non può essere abbreviata), stabilità (il sistema elettorale crea maggioranze sufficientemente coese), flessibilità (che si consegue sostituendo il Primo Ministro, per sedare tensioni politiche e per rispondere a esigenze manifestate nell’opinione pubblica), individuazione del vincitore, reputazione», con effetti benefici anche sulla razionalizzazione e rivitalizzazione del sistema dei partiti. Come avvenuto nella precedente commissione, anche in questo caso gli esperti ravvisarono potenziali rischi plebiscitari e di mancanza di neutralità, approfonditi, e tuttavia ritenuti meno esiziali in quanto ritenuti affrontabili con adeguati meccanismi di razionalizzazione[38].

Pur tuttavia, tolti questi due momenti, il dibattito sul semipresidenzialismo pare aver definitivamente abbandonato le aule parlamentari, potendosi contare sulla punta delle dita le proposte di revisione costituzionale in tal senso, tutte caratterizzate dall’iniziativa isolata di singoli parlamentari e nessuna andata oltre il mero annunzio all’Assemblea[39]. E ciò non fa che confermare la schematizzazione in tre fasi – avversione, recezione, impossibile adozione – della possibilità di un trapianto in Italia della forma di governo semipresidenziale[40].

5. Per quanto concerne le più recenti analisi sulla forma di governo francese, molto sé stato scritto, di qua d’Alpe, a proposito della revisione costituzionale del 2008[41]. Certamente, non è questa la sede per ricostruire in chiave analitica l’importante intervento; bastino, in compenso, le parole di Alfonso Di Giovine in apertura ad una collettanea sul tema riferibili a tutta la riflessione contemporanea italiana sulla forma di governo francese: parlare di essa «conduce lo studioso italiano a riflettere sul proprio paese (…) nella contrastante prospettiva della minaccia da evitare o del modello da imitare»[42]. A proposito della riforma, gli studiosi che parteciparono al volume (Massimo Cavino, Marina Calamo Specchia, Laura Montanari, Carmela Decaro ed Enrico Grosso) non poterono fare a meno di dipingerla come caratterizzata da luci e ombre. Certamente apparvero importanti (e su questo concordò anche Enzo Cheli) l’introduzione dell’exception d’incostitutionalitè e una certa emancipazione del Parlamento dalle interferenze del Governo, ma, nel complesso, la forma di governo semipresidenziale continuava (e continua) a presentare una situazione di squilibrio tra potere legislativo e potere esecutivo a vantaggio di quest’ultimo. Fallito il mito di una Sesta Repubblica[43], dunque, «la speranza per noi italiani è che l’infatuazione (ma forse è amore vero) di alcuni nostri concittadini, fra i quali anche studiosi e politici, per la splendida cinquantenne d’oltralpe trovi un decisivo antidoto nella diffidenza dei più verso un iperpresidenzialismo a eccezione coabitazionista, quale si presenta a tutt’oggi il regime francese»[44].

6. La presidenza di Emmanuel Macron, iniziata il 14 maggio 2017, costituisce un fenomeno ancora troppo recente per pretendere che se ne siano analizzati compiutamente i rapporti con la forma di governo francese. Altrettanto pretenzioso, dunque, sarebbe fornire un quadro complessivo dei contributi sul tema. Il fenomeno Macron, invero, ha suscitato notevole interesse in ambito politologico[45]; ciò nondimeno, non sono mancati anche alcuni contributi di carattere giuridico sui primi mesi della nuova presidenza.

Anzitutto, a partire da alcune dichiarazioni pubbliche del neo-presidente francese, secondo Stefano Ceccanti non si potrà comprendere l’impatto della stagione macroniana sull’assetto istituzionale francese prescindendo dagli elementi dell’europeismo e di una certa volontà di razionalizzare, accanto al sistema partitico, le istituzioni semipresidenziali – comunque viste come valide[46]. Successivamente, all’approssimarsi dell’anniversario dall’elezione, Marina Calamo Specchia ha potuto collegare i primi momenti della nuova presidenza al più generale dibattito dell’effettivo ruolo del Capo dello Stato francese nel complesso del sistema costituzionale e politico della Cinquième.  In particolare, il nuovo presidente viene inquadrato in una posizione mediana rispetto allo spirito dei suoi immediati predecessori, Nicolas Sarkozy e François Hollande. Il primo, infatti, è stato tra i rappresentanti di una precisa fase storica in cui, riprendendo l’esperienza della presidenza De Gaulle, la forma di governo francese è sembrata percorrere la strada dell’iperpresidenzialismo, con una marcata prevalenza del Capo dello Stato sul Parlamento e sull’esecutivo (a cominciare dal Primo Ministro). Il secondo, invece, nel corso del proprio mandato, è stato di diverso avviso, avendo chiesto più volte chiesto al Parlamento di confermargli l’appoggio e lasciato un certo margine di manovra al Governo (che non di rado, con Manuel Valls, è ricorso ad un elemento di forte limitazione delle prerogative parlamentari quale la procedura speciale di cui all’art. 49.2 della Costituzione). In questa prospettiva si innesta la presidenza Macron, che «ha raccolto le eredità golliste dell’interpretazione presidenzialista delle istituzioni, volendo sin da subito incarnare un Presidente che presiede e governa, ma adattandole alla fluidità del contesto politico in cui si trova a operare»[47]. Un contesto che, come aveva già avvertito Ceccanti, si regge su assetti istituzionali ben consolidati, e in cui ad aver giocato a favore di Macron è stata, piuttosto, la crisi della politica e della rappresentanza. Su di essa, infatti, e sulla vantata equidistanza dai partiti tradizionali, ha fondato il suo successo il nuovo Presidente della Repubblica, nei cui primi atti – e in quelli del Primo Ministro Édouard Philippe – può comunque vedersi, secondo la studiosa e a prescindere da considerazioni eminentemente politologiche, un concreto indirizzo e atteggiamento in materia di forma di governo.

Nella perenne tensione di quest’ultima tra spinte presidenzialiste e spinte parlamentariste, la presidenza Macron pare dipingere un quadro complesso. Da un lato essa pare improntata alla tradizione gollista del rapporto diretto del Presidente col popolo francese; dall’altro ad una rivalutazione e valorizzazione del Primo Ministro quale figura deputata a gestire e organizzare la maggioranza parlamentare mediando tra le diverse anime che la compongono; dall’altro ancora, ad un recupero di spazi per un Parlamento immaginato, però, più che come luogo di definizione dell’indirizzo politico, di mera e costante comunicazione degli intenti programmatici dell’esecutivo, stanti il frequente ricorso a strumenti quali la procedura d’urgenza d’approvazione delle leggi e, soprattutto, l’annunciata riduzione di un terzo del numero dei suoi membri e l’introduzione nell’elezione dello stesso di una quota proporzionale.

Il possibile esito, anche alla luce delle annunciate riforme istituzionali, è quello di una forma di governo dove il Presidente della Repubblica (e con lui l’esecutivo) riafferma, in consonanza e con la tradizione gollista, la propria primauté su un Parlamento fortemente razionalizzato, col contorno di un contesto partitico destinato a fare i conti con tempi nuovi e nuovi temi (non ultimo, il rapporto con l’Unione Europea)[48].

7. Possono a questo punto venire in mente due immagini per descrivere i rapporti tra giuspubblicistica italiana e giuspubblicistica francese. Da un lato, quella della disfida di Barletta, l’epico scontro che sarebbe avvenuto nel 1503 tra tredici cavalieri francesi e altrettanti cavalieri italiani, che vide questi ultimi vincitori dopo essere stati offesi nel proprio onore militare dal capitano francese; dall’altro, si parva licet, quella della stele di Rosetta, scoperta nel 1799 dai francesi al seguito di Napoleone Bonaparte e decifrata, nelle sue parti in geroglifico, dal francese Jean-François Champollion per tramite del testo in greco antico. Forse proprio quest’ultima appare la più adatta. Laddove la prima, infatti, descrive una situazione di scontro, la seconda, invece, riporta all’attenzione i temi dello studio e dell’interpretazione. Studiare il sistema francese per comprendere, insieme ad esso, anche il nostro è stato, a ben vedere, la colonna portante del dibattito sulla forma semipresidenziale e, in generale, su tutti gli aspetti dell’organizzazione dei poteri e del sistema politico francese. A questo filone di idee, questo contributo, insieme agli altri presenti in questo volume, ha cercato di dare il proprio apporto, nella consapevolezza di quella comunanza di fondo tra i due Paesi rafforzata dalla comune coesistenza nella più grande famiglia dell’Unione Europea.

8. Per quanto non sia mai opportuno autocitarsi, nell’ottobre del 2018 chiudevo il mio contributo per la collettanea curata, anzitutto, dall’amico Massimiliano Malvicini[49] con le parole: «Studiare il sistema francese per comprendere, insieme ad esso, anche il nostro è stato, a ben vedere, la colonna portante del dibattito sulla forma semipresidenziale e, in generale, su tutti gli aspetti dell’organizzazione dei poteri e del sistema politico francese».

Un minimo di attualizzazione si impone, per capire, quanto meno, come siano andate le cose in sei anni circa da questa parte dell’arco alpino.

Invero, proprio lo studio del sistema francese è mancato in un dibattito politico che, come quello del 1997-1999 – fascinato, all’ombra della Bicamerale e dei suoi postumi, da una serie di immagini non sempre tratteggiate in maniera appropriata – si è nuovamente incagliato intorno a parole che ricordano un po’ l’immagine del “bronzo che rimbomba” di paolina memoria.

In questo esordio di XIX legislatura repubblicana, a circolare con insistenza tra gli aspiranti costituenti è la corsa al modello presidenziale – qualunque cosa voglia dire e quale che sia l’esito auspicato a seconda delle occorrenze del momento.

Nella legislatura 2018-2022, sono state sedici le proposte di legge presentate presso i due rami del Parlamento che hanno avuto ad oggetto la modifica della forma di governo italiana. Scorporate dal computo cinque proposte relative all’elezione di un’apposita Assemblea dedicata alla revisione della Parte II della Costituzione (uno spettro si aggira per la Terza Repubblica[50]: quello di una nuova Bicamerale!)[51] e altre due sulla razionalizzazione del bicameralismo[52] (qui invece lo spettro è più giovane); le restanti restituiscono l’immagine di un dibattito rimasto fermo a venti anni fa senza grosse innovazioni. Infatti, sembra confermarsi la tendenza affermatasi tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila di un interesse, più che per il modello semipresidenziale, di un tratto ben preciso di esso, e cioè quello dell’elezione a suffragio universale e diretto del Capo dello Stato, declinato in varia forma. L’opzione semipresidenzialista era l’obiettivo dichiarato solo di una di esse[53]. Due proposte devono essere ricondotte al modello di governo del Cancelliere tipico del sistema tedesco[54]; una sola proposta, invece, si caratterizza per un richiamo esplicito ad una forma di governo presidenziale e federale, forse in maniera anche eccessivamente barocca[55]. Restano sul piatto tre proposte dove, invariate le altre disposizioni della Carta costituzionale, si propone di innestare nella forma di governo parlamentare italiana l’elezione diretta del Presidente della Repubblica[56]. Discorso a parte per la proposta depositata alla Camera da Stefano Ceccanti ed altri che richiama esplicitamente il modello francese sotto tre punti di vista: elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Repubblica a doppio turno, mandato quinquennale rinnovabile una sola volta e termini temporali ravvicinati tra elezioni presidenziali ed elezioni politiche[57]. Nella relazione alla proposta, inoltre, si scrive che «Il sistema andrebbe poi completato con una legge ordinaria che, per l’elezione di entrambe le Camere, riproduca il sistema elettorale vigente per l’Assemblea nazionale francese». Inutile dire che, tra quelle menzionate, solo la proposta Meloni ed altri, come ricordato, ha avuto un passaggio, repentino e sfortunato, nelle aule parlamentari[58].

La XIX legislatura, almeno al 4 gennaio 2023, non registra proposte di legge costituzionale sulla forma di governo. Come si anticipava, però, le notizie di stampa sembrano confermare le intenzioni dell’attuale maggioranza – e dello stesso esecutivo – di porre in cantiere una riforma degli assetti tra organi costituzionali di matrice presidenziale. Centrale, in tal senso, è, ancora una volta, la figura di Giorgia Meloni. Si legge in un sunto giornalistico della conferenza stampa di fine anno (29 dicembre 2022): «“Non escludo un’iniziativa del governo” sul presidenzialismo ma se “ci fossero disponibilità a livello parlamentare, non avrei preclusioni”, il tema è “che non sarò così sprovveduta dal non capire atteggiamenti dilatori. Da gennaio incontreremo le opposizioni. Confermo che il presidenzialismo è una delle mie priorità ed è un obiettivo a cui tengo particolarmente. Credo che possa fare bene all’Italia una riforma che consenta di avere stabilità e governi frutto dell’indicazione popolare”. Il semipresidenzialismo alla francese “non è il mio sistema preferito” ma “quello sul quale c’è maggiore convergenza. Sono disposta a parlare di tutto ma la riforma la voglio fare”»[59]. L’opzione per il presidenzialismo, dunque, pare chiara; ma il dubbio che, come già in passato, l’attore politico non utilizzi al meglio lo strumentario del comparatista emerge da un’analisi della proposta di legge costituzionale presentata dall’allora “deputata semplice” Meloni insieme ad altri colleghi del suo gruppo politico. Se nella relazione alla proposta si proclama, tra l’altro, che il presidenzialismo «non è un’invenzione dell’ultima ora, è una storica proposta di Fratelli d’Italia e della destra italiana»; non appaiono, almeno a parere di chi scrive, particolarmente coerenti con le affermazioni di intenti dell’attuale presidente passaggi divisati nella proposta di legge costituzionale come l’elezione diretta del Presidente della Repubblica a doppio turno, la previsione di un mandato quinquennale rinnovabile una sola volta, e quella in base alla quale il novellato art. 92, c. 2 Cost. dovrebbe essere riscritto nei termini «Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri, salva delega al Primo ministro»; tutti istituti, come notato a margine della proposta Ceccanti, rientrano oggettivamente nel modello di forma di governo francese semipresidenziale.

Tirate le somme, e anche in considerazione dell’eterno ritorno dell’uguale che conosce il dibattito politico in Italia, più che con “Parigi, o cara”, sembra più opportuno chiudere con l’eco (!) “Stat rosa pristina nomine, et nomina nuda tenemus”[60]. La shakespeariana rosa che avrebbe lo stesso profumo anche se non si chiamasse rosa è la forma di governo immaginata, evidentemente, dalla presidente Meloni che, anche a voler essere chiamata presidenziale, sarebbe comunque semipresidenziale.


[1] Alessandro Torre, “Percorsi dottrinali italiani sulla Costituzione della Quinta Repubblica francese”, in La Costituzione Francese/La Constitution Française, a cura di Marina Calamo Specchia, Torino, Giappichelli, 2009, vol. Relazioni, pp. 513-553.

[2] Una dinamica, questa, che ha caratterizzato – per ispirazione o per antitesi – tutto il costituzionalismo europeo. Cfr. Mario Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 208.

[3] Alessandro Torre, “Percorsi dottrinali italiani sulla Costituzione della Quinta Repubblica francese”, loc.. cit.alla nota 1, p. 514.

[4] Ugo De Siervo, “Le idee e le vicende costituzionali in Francia nel 1945 e 1946 e la loro influenza sul dibattito in Italia”, in Scelte giuridiche della Costituente e cultura giuridica, a cura di Ugo De Siervo, Bologna, Il Mulino, 1980, tomo I, pp. 293-360.

[5] Le proposte di revisione della forma di governo francese a cavallo delle due guerre mondiali sono ben ricostruite in Rino Casella, “Alle origini della Quinta Repubblica. Riflessioni sul fallimento del parlamentarismo assembleare”, in Le radici del semi-presidenzialismo. Viaggio alle origini di un modello cui si guarda in Italia, a cura di Carlo Fusaro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, 406 p. [si vedano le pp. 236-ss]. Ad esso si rimanda per i riferimenti alle singole opere degli autori francesi citati nel corpo del testo.

[6] Rino Casella, “Alle origini della Quinta Repubblica …”, loc. cit alla nota precedente,pp. 296-302.

[7] Non va anzi dimenticato come lo stesso Comité général sia stato invitato a formalizzare la proposta in materia innanzi al Comitato francese di liberazione nazionale presieduto da De Gaulle. Cfr. Rino Casella, eodem loco, p. 247.

[8] Cfr. Ugo De Siervo, “Le idee e le vicende costituzionali in Francia nel 1945 e 1946 e la loro influenza sul dibattito in Italia”, loc. cit. alla nota 4, pp. 315-322

[9] Cfr. eodem loco, pp. 327-358, passim.

[10] Serio Galeotti, La nuova costituzione francese. Appunti sulla recessione del principio democratico nella V Repubblica, Milano, Giuffrè, 1960, 81 p. su cui vedi infra.

[11] Leopoldo Elia, “Forme di governo”, in Enciclopedia del diritto. Vol. XIX., Milano, Giuffrè, 1970, vol. XIX, pp. 634-675. Vedine poi l’estratto: Milano, Giuffrè, 1985, 48 p.

[12] Leopoldo Elia, “Forme di governo”, loc. cit. alla nota precedente, p. 637.

[13] Massimo Luciani, Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 2010, Annali III, pp. 552-558.

[14] Massimo Luciani, Governo (forme di), loc. cit. alla nota precedente, passim.

[15] Mauro Volpi, “Esiste una forma di governo semipresidenziale?”, in Semipresidenzialismi, a cura di Lucio Pegoraro e Angelo Rinella, Padova, CEDAM, 1997, XX-402 p [il saggio si trova alle pp. 25-42].

[16] Prevenendo le critiche poi organizzate da Luciani nella voce citata, Mauro Volpi scrive che «tale argomentazione “prova troppo”, in quanto, se portata alle sue logiche conseguenze, finirebbe per negare la validità di qualsiasi ipotesi di classificazione e, in particolare, metterebbe sicuramente in crisi la nozione di “forma di governo parlamentare”, la quale viene applicata ad esperienze (come quella inglese e quella italiana) non meno diversificate rispetto a quelle semipresidenziali»(v. Mauro Volpi, “Esiste una forma di governo semipresidenziale?”, loc. cit. alla nota precedente, p. 30).

[17] Mario Volpi, eodem loco, pp. 30-31, errore questo in cui pare essere caduto, per certi versi, anche Duverger allorquando parla nel suo celebre studio su Le système politique français, per quelli diversi dal francese, di regimi semipresidenziali apparenti. Cf.  Maurice Duverger, Le système politique français. Edition entièrement refondue. Avril 1996, Paris, PUF, 1996, ventunesima edizione, 616 p. [si veda al riguardo p. 504].

[18] Matthew Sobert Shugart-John Michael Carey, Presidents and Assemblies: Constitutional Design and Electoral Dynamics, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, 332 p.; trad. it. Di Bona Badiali: Presidenti e assemblee. Disegno costituzionale e dinamiche elettorali, Bologna, Il Mulino, 1995, 496 p.

[19] In particolare, Maurice Duverger,La nozione di regime «semi-presidenziale» e l’esperienza francese”, in Quaderni Costituzionali, III Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 259-ss.

[20] Giovanni Sartori, Comparative Constitutional Engineering, New York, New York University Press, 1992, 219 p. Trad. it.Ingegneria costituzionale comparata. Strutture, incentivi, esiti, Bologna, Il Mulino, Bologna, 1995, 232 p.

[21] Aristide Canepa, “La teoria del semipresidenzialismo e i modelli dell’Europa occidentale”, in Adriano Giovannelli (a cura di), Il semipresidenzialismo: dall’arcipelago europeo al dibattito italiano, Torino, Giappichelli, 1998, XI-440 p. [il saggio è alle 41-132].

[22] Alessandro Torre, “Percorsi dottrinali italiani sulla Costituzione della Quinta Repubblica francese”, loc. cit. alla nota 1, p. 520.

[23] Adriano Giovannelli, (a cura di), Il semipresidenzialismo: dall’arcipelago europeo al dibattito italiano, op. cit. alla nota 21, p. 335.

[24] Cfr. Pier Giorgio Lucifredi, Pasquale Costanzo, Appunti di diritto costituzionale comparato. I. Il sistema francese, Milano, Giuffrè, 2007(nona edizione), VIII-254 p [si veda p. 13].

[25] Appunti questi che non sono sfuggiti, negli anni successivi, alla nostra trattatistica di diritto parlamentare, su tutti Cristina Fasone, Sistemi di commissioni parlamentari e forma di governo, Padova, CEDAM, 2012, 714 p.

[26] Serio Galeotti, La nuova costituzione francese. Appunti sulla recessione del principio democratico nella V Repubblica, op. cit. alla nota 10, p. 3.

[27] Rino Casella, “La Quinta Repubblica francese nella riflessione di Serio Galeotti”, in Astrid Rassegna, 26 gennaio 2009, p. 6 ora in La V Repubblica francese nel dibattito e nella prassi in Italia, a cura di Fulco Lanchester e Vincenzo Lippolis, Napoli, Jovene, 2009, IV-368 p. [il testo è alle pp. 217-233].

[28] L’espressione è utilizzata da Enrico Grosso, “Il dialogo tra i sistemi francese e italiano: la circolazione negata”, in La Costituzione Francese/La Constitution Française, a cura di Marina Calamo Specchia, op. cit. alla nota 1, p. 356.

[29] In argomento è utile anche rinviare a Carlo Fusaro, “Per una storia delle riforme istituzionali (1948-2015)”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, LXV (2), aprile-giugno 2015, pp. 431-555.

[30] Cfr. Adriano Giovannelli (a cura di), Il semipresidenzialismo: dall’arcipelago europeo al dibattito italiano, op. cit alla nota 21, p. 358.

[31] Enrico Grosso, “Il dialogo tra i sistemi francese e italiano: la circolazione negata”, loc. cit. alla nota 28, p. 359.

[32]Enrico Grosso, Eodem loco, p. 353.

[33] Cfr. Adriano Giovannelli (a cura di), Il semipresidenzialismo: dall’arcipelago europeo al dibattito italiano, op. cit alla nota 21.

[34] Il riferimento non può non andare a Carlo Fusaro, “Forma di governo e figura del capo dello Stato in Francia e in Italia. Il fascino resistibile delle soluzioni ambigue, in Le radici del semi-presidenzialismo. Viaggio alle origini di un modello cui si guarda in Italia, a cura di Carlo Fusaro, op. cit. alla nota 1, pp. 17-201.

[35] Enrico Grosso, “Il dialogo tra i sistemi francese e italiano: la circolazione negata”, loc. cit. alla nota 28,

[36] Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, Relazione (12 aprile 2013, disponibile all’url http://presidenti.quirinale.it/Napolitano/qrnw/statico/attivita/consultazioni/c_20mar2013/gruppi_lavoro/2013-04-12_relazione_finale.pdf; ultimo accesso: 17 aprile 2018), p. 11.

[37] Si trattava di Beniamino Caravita di Toritto, Pietro Ciarlo, Ginevra Cerrina Feroni, Giuseppe de Vergottini, Giuseppe Di Federico, Franco Frattini, Stefano Mannoni, Ida Nicotra, Angelo Panebianco, Anna Maria Poggi, Guido Tabellini, Lorenza Violini, Nicolò Zanon.

[38] Commissione per le riforme costituzionali, Per una democrazia migliore, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2013, pp. 58 e 295.

[39] Appena due nella XVI legislatura, una sola nella XVII e di nuovo due agli esordi della XVIII.

[40] Cf., da ultimo, gli scritti di Massimo Volpi, Giuliano Amato e Oreste Massari in La V Repubblica francese nel dibattito e nella prassi in Italia a cura di Fulco Lanchester – Vincenzo Lippolis, op. cit. alla nota 27, pp. 61-ss.

[41] Introdotta, come noto, dalla loi constitutionelle2008-724 del 23 luglio 2008.

[42] Alfonso Di Giovine, “Lunga vita alla Quinta Repubblica”, introduzione a: La Quinta Repubblica francese dopo la riforma costituzionale del 2008, a cura di a cura di Massimo Cavino, Alfonso Di Giovine, Enrico Grosso, Torino, Giappichelli, 2010, 201 p. [il passo citato è a p. 1].

[43] Il riferimento è a Massimo Cavino, “La fine del mito della sesta Repubblica”, in La Quinta Repubblica francese dopo la riforma costituzionale del 2008, op. cit. alla nota precedente, pp. 51-67.

[44] Alfonso Di Giovine, Lunga vita alla Quinta Repubblica”, introduzione a La Quinta Repubblica francese dopo la riforma costituzionale del 2008, ibidem, p. 6.

[45] Nell’impossibilità di dare contezza di tutti i valenti contributi di questo tenore apparsi in vista dell’anniversario dell’elezione di Macron, pare opportuno rimandare solo ad alcuni più significativi, quali Marc Lazar, “Si spegne il sole di Macron”, La Repubblica, 7 maggio 2018, p. 21 e Anaïs Ginori, “Macron, la bolla di governo dei grand commis e il partito “fan club, La Repubblica, 8 maggio 2018, p. 15.

[46] Stefano Ceccanti, “La V Repubblica dopo Macron: istituzioni invariate, sistema politico trasformato e riforma istituzionale per l’Unione europea”, Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, Bologna: Il Mulino G. Giappichelli Editore) pp. 5-14, XXXIII (2) aprile-giugno 2017, pp. III-XIII (in particolare, pp. V-VI). Sulla stessa linea di pensiero appare il prezioso contributo di Paola Piciacchia dall’eloquente titolo “Quinta Repubblica addio? Non, merci!”, in Osservatorio Associazione Italiana dei Costituzionalisti . Fascicolo 3 2017, n. 3, pp. 377-396. Può essere consultato al seguente URL. Cf.  https://www.osservatorioaic.it/images/fascicoli/Osservatorio_AIC_Fascicolo_03_2017.pdf. Questo testo ha il merito di allargare lo sguardo allo scenario successivo alle elezioni legislative del giugno 2017 e ricollega i primi momenti della nuova stagione politica al mythe de la VIe République. Per una quasi diametralmente opposta impressione, vd. Ylenia Citino, “Tendenze del semipresidenzialismo francese alla luce del discorso di Macron a Versailles, Diritti comparati, 17 luglio 2017 (disponibile all’url: http://www.diritticomparati.it/tendenze-del-semipresidenzialismo-francese-alla-luce-del-discorso-di-macron-versailles/; ultimo accesso: 21 aprile 2018).

[47] Cfr. e vedi. Marina Calamo Specchia, “Una rilettura del ruolo del Presidente della Repubblica in Francia: da de Gaulle a Macron la prova di resistenza delle istituzioni golliste”, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo online, XXXIV (1) gennaio-maro 2018, p. 19 (disponibile all’url: http://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/view/486: ultimo accesso: 18 maggio 2018).

[48] E di tale avviso sono già sembrati taluni osservatori politici francesi. Vedi, tra gli altri, Samuel Le Goff- Diane de Fortanier, “Une réforme institutionnelle au seul bénéfice de l’exécutif”, Contexte Pouvoirs, 13 aprile 2018 (disponibile all’url https://www.contexte.com/article/pouvoirs/une-reforme-institutionnelle-au-seul-benefice-de-l-executif_85691.html; ultimo accesso: 18 maggio 2018). 

[49] Massimiliano Malvicini (a cura di), La République jupitérienne. Profili politico-istituzionale della Francia contemporanea, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, 116 p.

[50] Espressione che ho scoperto essere stata nobilitata da Gilles Gressani, “Il governo upupa e la ‘Terza Repubblica’, il Mulino. Rivista di cultura e di politica, 9 settembre 2019 (disponibile all’url https://www.rivistailmulino.it/a/il-governo-upupa-e-la-terza-repubblica; ultimo accesso: 4 gennaio 2023).

[51] Si tratta delle proposte A.S. 483, Nencini (presentata il 13 giugno 2018); A.C. 3429, Baldelli ed altri (presentata il 28 dicembre 2021); A.S. 2508, La Russa ed altri (presentata il 3 febbraio 2022); A.C. 3541, Meloni ed altri (presentata il 28 marzo 2022); A.S. 2581, Craxi ed altri (presentata il 7 aprile 2022).

[52] Proposte A.C. 2890, Vallascas (presentata il 10 febbraio 2021) e A.S.2259, Maiorino ed altri (presentata il 22 settembre 2021).

[53] Proposta di legge costituzionale A.C. 142, a firma Paolo Russo, “Introduzione dell’elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale e diretto e della forma di governo semipresidenziale”, presentata il 23 marzo 2018.

[54] Si tratta delle proposte A.S. 90, a firma Cerno e Parrini (presentata il 23 marzo 2018) e A.S. 2114, a firma Quagliariello e Berutti (presentata il 3 marzo 2021).

[55] Il riferimento è alla proposta A.S. 1869, Vescovi ed altri, rubricata “Modifiche alla Costituzione in tema di Stato federale e forma di governo presidenziale” (presentata il 4 luglio 2020). Mi permetto di dubitare che neanche gli stessi senatori proponenti nutrissero sincere speranze nel benché minimo esame di un testo infarcito di perle quali «L’Italia è una Repubblica federale democratica, denominata Stati Uniti d’Italia, fondata sul lavoro e sull’imprenditorialità», «La legge assicura la piena tutela alle vittime dei reati» e l’istituzione dell’elezione diretta del ticket tra Presidente federale e Vicepresidente federale.

[56] Proposte A.S. 419, Cangini ed altri (presentata il 4 luglio 2018); A.S. 1489, Ciriani ed altri (presentata il 16 settembre 2019); A.C. 2094, Lollobrigida ed altri (presentata l’11 novembre 2019).

[57] Proposta A.C. 224, a firma Ceccanti ed altri, “Modifiche alla parte II della Costituzione per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica con successiva elezione dei membri delle Camere, nonché uniformazione dei requisiti di elettorato attivo e passivo per il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati”, presentata il 23 marzo 2018.

[58] La proposta A.C. 716, a firma Meloni ed altri, è stata presentata l’11 giugno 2018. Concluso l’esame in Commissione il 15 marzo 2022, è stata esaminata dall’Assemblea che l’ha respinta il 10 marzo 2022 con 205 voti favorevoli (gruppi di centrodestra), 236 contrari (gruppi di centrosinistra e Movimento5Stelle) e 19 astenuti (Italia Viva ed altri).

[59] Luca Mariani, Meloni: “Il presidenzialismo è una delle mie priorità. E dureremo 5 anni”, AGI Live, 29 dicembre 2022 (disponibile all’url https://www.agi.it/politica/news/2022-12-29/meloni-presidenzialismo-dureremo-5-anni-19406261/; ultimo accesso: 4 gennaio 2022).

[60] Traduzione letterale: “La rosa mantiene il suo nome originale e manteniamo i nomi nudi”.