L'intervista

Democrazia Futura. Dalle sentenze della Corte Costituzionale alla formazione di un sistema misto pubblico privato (1974-1985)

a cura di Bruno Somalvico, direttore editoriale di Democrazia futura |

L’Italia da laboratorio audiovisivo nella stagione dei Centofiori a malum exemplum. L'intervista a Giuseppe Richeri, professore emerito ed esperto di politica ed economia delle comunicazioni.

Giuseppe Richeri

Con il professor Richeri, dopo aver ripercorso nel fascicolo precedente la stagione dei congressi all’origine della Riforma della Rai nel 1975 e il concorso delle Regioni alla progettazione e alla nascita della Terza Rete televisiva, ripercorriamo in questa seconda conversazione la stagione della nascita del sistema misto che avrà fra i protagonisti proprio Silvio Berlusconi.

Bruno Somalvico

Giuseppe Richeri, professore emerito ed esperto di politica ed economia delle comunicazioni, risponde alle domande di Bruno Somalvico, direttore editoriale di Democrazia futura.

1. E arriviamo adesso al 1974 e chiudiamo sulle due sentenze della Corte Costituzionale, che risentono del clima che in Italia si respira dopo il referendum sul divorzio, un cambio del quadro politico che fa riemergere la riforma della RAI, di cui si parlava dalla fine degli anni Sessanta, e che viene resa finalmente possibile. C’è una rottura nel 1974? Perché c’è l’esplosione della stagione dei “Cento fiori”. Le due Sentenze della Corte risentono forse del clima che si respira dopo la vittoria dei favorevoli al divorzio al referendum?

Giuseppe Richeri. Intanto le sentenze del 1974 affermano la permanenza del monopolio pubblico sulla televisione via etere a livello nazionale e locale. La prima sentenza indica la necessità che il Parlamento definisca una nuova legge sulla radiotelevisione. Tanto che le sentenze sono del luglio 1974 e già nell’aprile 1975 il Parlamento vara la legge di riforma della Rai. E la seconda sentenza della corte riguarda le televisioni straniere, se ricordo bene. E c’è anche una terza sentenza in cui si dice che la televisione via cavo non rientra nel monopolio pubblico radiotelevisivo e che gli operatori privati possono installarle e gestirle su scala locale e che il parlamento deve definire il loro regolamento. Tanto è vero che, nella sentenza 202 del 1976, la Corte Costituzionale riprende la sentenza del 1974 e sostiene che, se nel 1974 la Corte ha sostenuto che per la televisione via cavo non sussisteva il principio di monopolio naturale perché si potevano trasmettere via cavo tutti i canali (allora si calcolava un massimo di 6 canali  per cavo e si potevano comunque aggiungere altri cavi per altri canali e, con la domanda economica adeguata, si sarebbero pertanto potuti mettere tutti i canali che si volevano) ebbene la sentenza 202 del 1976 sostiene, basandosi su una precedente sentenza, che così come si affermava che con la televisione via cavo non c’era monopolio naturale e c’era quindi la possibilità di concorrenza, dunque la stessa cosa doveva valere anche per la televisione via etere a livello locale. A livello locale la Corte apriva alla possibilità di stabilire un certo numero di stazioni via etere che permettesse così la concorrenza, ma pur sempre – lo ribadisco – a livello locale. A livello nazionale invece la sentenza riconosceva ancora il monopolio pubblico. Quindi in fin dei conti non si trattò di una vera apertura.

2. Dopo l’approvazione della legge di riforma della Rai dell’aprile 1975, abbandonato il progetto di una rete via cavo l’attenzione della regione Emilia-Romagna è tutta concentrata sul tema del concorso delle regioni alla costruzione della terza rete televisiva. Lei allora come ci ha già raccontato era dirigente della Regione. Ci racconta quanto avvenne in quegli anni?

Giuseppe Richeri. Il comitato di accompagnamento istituito per la realizzazione della terza rete era composto da un gruppo di dirigenti della RAI e da tre persone espresse dalle regioni: Perrucchetti, dalla Lombardia; Savio, espresso dal Piemonte; Richeri, cioè me, espresso dall’Emilia- Romagna. Noi tre partecipammo a diverse riunioni e conoscevamo bene i desideri delle regioni in merito al decentramento. Ma quel che più importa, a mio parere, è il “buco nero” in mezzo alle sentenze della Corte Costituzionale del 1974 e del 1976. Tuttavia, per essere certi di questo “buco nero”, bisognerebbe consultare figure esperte, tecnici in grado di comprendere se la sentenza 202 fosse basata su dati tecnici errati; e secondo me così era. Era vero, ad esempio, che a livello locale la televisione via etere non rappresentava un monopolio naturale e c’era la possibilità reale di concorrenza? Penso che varrebbe la pena discuterne. Tanto più che la dimensione locale dipendeva anche dal peso specifico della singola Regione e del significato di “locale”: una dimensione locale nel Molise o in Valle d’Aosta aveva un peso diverso da quella in Lombardia o in Piemonte.

3. Professor Richeri, come si spiega il fenomeno di sviluppo timido in quegli anni delle televisioni locali e poi, dai primi anni Ottanta di esplosione della televisione commerciale finanziata principalmente dalla pubblicità?

Giuseppe Richeri. Gli anni Ottanta sono stati per la pubblicità un periodo di cerniera perché sino agli anni precedenti la pubblicità era considerata nella cultura generale un mezzo di promozione e propaganda per convincere le persone a consumare mentre poi invece diventa uno strumento di formazione per il consumatore. Come mai nella prima metà degli anni ottanta si sente la necessità di formare il consumatore? Ciò è legato alla grande trasformazione – molto accelerata nella prima metà degli anni ottanta – del sistema di distribuzione dei prodotti di largo consumo, ovvero il passaggio dai piccoli esercizi commerciali a gestione familiare sparsi nei vari quartieri alla grande distribuzione. Questa trasformazione implica da una parte per i consumatori l’abitudine di andare a fare la spesa non quotidianamente, ma una volta alla settimana, il che è reso possibile dal fatto che, da un lato gran parte delle famiglie possiedono un’automobile e possono dunque spostarsi facilmente e portare a casa grande quantità di prodotti ed alimenti di provvista per tutta la settimana e, dall’altro lato, che la percentuale di donne che lavorano e quindi non hanno più tempo per andare quotidianamente a fare la spesa è cresciuta notevolmente. Perché c’è bisogno in questa fase di avere uno strumento di formazione delle competenze per il consumatore? Intanto perché sino ad allora il consumatore aveva l’abitudine di frequentare lo stesso esercizio commerciale e di avere con l’esercente un rapporto di familiarità con il droghiere con il panettiere o con il lattaio: erano loro che davano l’informazione al consumatore sul salame più stagionato, il prosciutto più dolce il formaggio meno grasso e quindi il consumatore riceveva molto spesso in larga parte le informazioni per orientare le sue scelte d’acquisto al consumo in larga misura direttamente dal venditore. Le conseguenze della trasformazione ei consumi con la crescita ella grande distribuzione. Dal momento che il consumatore inizia a frequentare i supermercati della grande distribuzione dove i prezzi all’epoca sono spesso del 15-20 per cento inferiori a quelli del piccolo esercizio commerciale di quartiere – perde questo rapporto personalizzato e di fiducia con il venditore. Oltretutto il personale nella grande distribuzione è molto più ridotto e quindi il consumatore per poter sfruttare senza eccessive frustrazioni la grande gamma di prodotti che sono messi ad accesso libero negli scaffali della grande distribuzione, deve essere in grado di riconoscere la marca i contenuti che corrispondono alla singola marca e quindi d fronte alla possibilità di aver di fronte una dozzina di tipologie differenti di biscotti deve avere gli strumenti per poter scegliere senza investire né troppo tempo ed una certa consapevolezza del prodotto che andrà a acquistare. E quindi la pubblicità diventa lo strumento per formare un nuovo tipo di consumatore che passa dal piccolo esercizio commerciale sotto casa alla grande distribuzione. Di fronte a questo grande cambiamento dei consumi avvenuto in quegli anni in Italia il mondo non solo i grandi inserzionisti ma anche il mondo delle piccole e medie imprese è disposto a spendere in pubblicità. Una massa gigantesca di soldi, dunque, che affluisce a favore della pubblicità sui privati, che invece non c’era per quanto riguarda la RAI dove c’era semmai una coda di persone che voleva pubblicità in RAI, ma gli spazi erano limitati, essendo contingentati per garantire ai giornali, alla carta stampata, di avere la loro quota di pubblicità non fagocitata dal mezzo televisivo. Più tardi avverrà la stessa cosa in Cina. in Cina nel momento in cui hanno deciso di creare un’economia basata sui prodotti di largo consumo e quindi di creare una struttura per la grande distribuzione commerciale capillare in tutto il territorio hanno fatto esattamente la stessa cosa. E quindi hanno cambiato il regime della gestione televisiva imposto alle emittenti di finanziarsi con la pubblicità dopo che la televisione si era trasformata nel principale strumento d formazione e di orientamento alle scelte di acquisto dei prodotti di largo consumo per il consumatore distribuiti nelle grandi superfici commerciali.

4. Perché nel giro di pochi anni dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1976 – che liberalizza le trasmissioni anche terrestri, purché limitate all’ambito locale – ciononostante si passa rapidamente dalle televisioni locali ai network nazionali?

Giuseppe Richeri. Dopo le due sentenze della Corte Costituzionale del 1974 si diffonde l’idea che fino a quando il Parlamento non farà una nuova legge in cui si garantiscano le indicazioni della Corte per legittimare la riserva allo Stato della radiotelevisione (accesso, pluralismo, eccetera) il monopolio pubblico non sia legittimo. E’ da questo momento che nascono le prime emittenti locali, soprattutto radiofoniche perché gli aspetti finanziari, tecnici e organizzativi erano a portata di molte persone mentre la televisione richiedeva un impegno più complesso e, nell’incertezza legislativa, più rischioso. La legge 103 del 1975 accoglie le indicazioni della Corte Costituzionale e il monopolio pubblico della radiotelevisione via etere viene legittimato, mentre per il cavo la legge subdolamente definisce regole (il cavo “monocanale”) che ne impediscono lo sviluppo. Ciò mette fuorilegge le emittenti locali, che allora erano diventate qualche decina di televisioni e un numero maggiore di radio. Lo Stato ne chiude alcune, quelle cioè politicamente più critiche, ma quelle con una vocazione più commerciale continuano a trasmettere fino alla sentenza costituzionale del 1976, la 202. Una sentenza che assimila l’emittenza locale via etere a quella via cavo ritenendo che per l’etere locale non sussista il “monopolio naturale”: su scala locale ci sono abbastanza frequenze per garantire la presenza di un numero abbastanza alto di emittenti radiofoniche e televisive tale da garantire il pluralismo e la concorrenza. Da qui la palla passa dalle radio alle televisioni private locali che fino ad allora avevano avuto un peso minore. L’occupazione delle frequenze locali e la nascita del far west radiotelevisivo italiano. Si mettono così in moto piccoli, medi e grandi imprenditori per occupare frequenze locali. Nel primo periodo chiunque può attivare una emittente ed occupare le frequenze necessarie. Poi le imprese più forti che erano arrivate “in ritardo”, occupano con trasmettitori più potenti le frequenze meglio situate già occupate da altre emittenti più “deboli” senza che ci sia una regola e un’autorità a cui i soccombenti possano rivolgersi: da qui il famoso far west radiotelevisivo italiano che in tutta Europa da allora sarà indicato come esempio da non ripetere. Quelli di maggior dimensione economica e imprenditoriale incominciano a far televisione nelle principali città italiane classificate seguendo i dati di consumo delle famiglie e la presenza di una rete di supermercati ben avviata per garantire una catena evoluta tra distribuzione, pubblicità e acquisto. Le risorse pubblicitarie delle imprese e degli esercizi locali hanno budget pubblicitari modesti e non sono in grado di generare grandi affari, mentre le risorse pubblicitarie più ricche sono nelle mani delle imprese che operano a livello nazionale, ma per loro occorre garantire una copertura omogenea, almeno per una parte del palinsesto, su larga parte del territorio nazionale, per ragioni di omogeneità, di controllo e di misura dell’audience.

Il passaggio dalle emittenti locali alle reti nazionali avviene in tre fasi guidate da un numero ristretto di imprese con risorse adatte a confrontarsi progressivamente con alcuni generi televisivi di successo della Rai.

  • Il primo passaggio è quello di avere nelle principali città una emittente di proprietà o affiliata a cui fornire, tramite videocassette, una parte del palinsesto che viene messo in onda da ciascuno alla stessa ora.
  • Il secondo passaggio è quello di sostituire le videocassette con il trasferimento dei programmi a ciascuna emittente locale utilizzando reti di telecomunicazione punto a punto: da una sede centrale a ognuna delle stazioni sparse nel territorio che potranno immagazzinarle per poi trasmetterle secondo un calendario prestabilito e uguale,
  • Il terzo passaggio è quello di acquisire l’uso di frequenze per coprire aree inter-regionalo o quasi nazionali e servire con le proprie trasmissioni le aree interessate, abbandonando così il passaggio attraverso le emittenti “locali”. Quest’ultimo passaggio sarà più complicato di quelli precedenti perché darà il via a contestazioni da parte di magistrati che ritenevano l’operazione illecita. La sentenza n.202 del 1976 liberalizzava le frequenze locali, ma lasciava le altre al monopolio pubblico.

Solo l’intervento del governo sanerà dopo anni di battaglie legali la situazione dando alle reti private nazionali o multiregionali la legittimità fino ad allora esclusa. Va ricordato che prima di tutto ciò ci furono tentativi di oltrepassare il monopolio della Rai trasmettendo su parte del territorio italiano programmi televisivi da Tele Capodistria, da San Marino e da Malta. Tentativi che non superarono il livello di progettazione o si spinsero a realizzare qualche esperimento che in entrambe i casi fallirono per ragioni di vario tipo.