Memorie

Democrazia Futura. Un combattente che voleva essere superato dai suoi discepoli

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

Ricordo di Elserino Piol, che ebbe l’esclusivo privilegio di iniziare la sua carriera in quella corte rinascimentale che era l’Olivetti.

Michele Mezza
Michele Mezza

Michele Mezza ricorda Elserino Piol in un articolo per Democrazia futura “Un combattente che voleva essere superato dai suoi discepoli” rievocando il cerchio intimo in cui questo manager di lungo corso vsi formò ventenne: quello della Comunità di Adriano Olivetti. “Un inner circle che anticipava i decenni futuri, rendendo l’Olivetti una scuola di vita e di pensiero prima che un’azienda, come spesso la stessa famiglia rimproverava Adriano”. Un partito-movimento quello di Comunità ma anche dotato – aggiunge Mezza – di strabilianti visioni, come le prime strategie urbanistiche, o ancora il linguaggio esoterico di una pubblicità che diventava cultura, ed infine, il colpo magico della Programma 101, il primo personal computer del mondo. Elserino Piol era innamorato di quella macchinetta che pensava e stava sulle ginocchia di un bambino”.

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Elserino Piol è stato un originale intellettuale dell’informatica italiana. Uno dei pochi manager che si misurava sulla linea dell’orizzonte e non sul cortile di casa. A volte perfino troppo, come dicevano i suoi partner, ma indubbiamente chi stava con lui non si faceva sorprendere dagli eventi.

Non a caso inventò di fatto nel nostro paese il venture capitale, cercando e lanciando start up di valore. Il rischio era la ragione del guadagno spiegava. Ma l’esclusività della sua carriera è tutta racchiusa in un pugno di anni, all’inizio del mitico decennio degli anni Sessanta. Lui giovanissimo ebbe l’esclusivo privilegio di iniziare la sua carriera in quella corte rinascimentale che era l’Olivetti di Adriano, alla fine degli anni Cinquanta, dove si incontravano e combinavano culture e competenze allo stato nascente, come la sociologia importata in Italia da Franco Ferrarotti, l’architettura sociale di Roberto Guiducci e la letteratura analitica di Paolo Volponi.

Un inner circle che anticipava i decenni futuri, rendendo l’Olivetti una scuola di vita e di pensiero prima che un’azienda, come spesso la stessa famiglia rimproverava Adriano.

In quella fornace di suggestioni e di visioni ci si sentiva stretti nell’Italia democristiana che cominciava ad annusare una sinistra che a sua volta temeva l’originalità delle proposte che affioravano da Ivrea. Adriano Olivetti reagì a quell’angustia addirittura fondando un partito, Movimento Comunità, che coagulò tutti contro di lui.

Ma insieme al partito aveva nel cassetto anche strabilianti visioni, come le prime strategie urbanistiche, o ancora il linguaggio esoterico di una pubblicità che diventava cultura, ed infine, il colpo magico della Programma 101, il primo personal computer del mondo.

Elserino Piol era innamorato di quella macchinetta che pensava e stava sulle ginocchia di un bambino. Per la prima volta si parlava di calcolo decentrato all’individuo, e non a calcolatori colossali solo per grandi apparati.

Ebbi l’ebrezza di incontrarlo nel 2012, per registrare un’intervista che avrei inserito nel libro che stavo scrivendo sul 1962, anno centrale del miracolo sfumato italiano. Il libro, intitolato Avevamo la Luna[1], era incentrato sui sogni che nascevano e insieme sfumarono proprio attorno a quell’anno, fra cui l’invenzione della plastica di Giulio Natta, Nobel nel 1963; la prima centrale elettronucleare d’Europa, con Felice Ippolito al Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare (CNEN); l’avventura spaziale del comandante Luigi Broglio che mise in orbita cinque satelliti rendendo l’Italia potenza del cielo, accanto a Stati Uniti e Unione Sovietica; l’aura dell’Eni di Enrico Mattei, stroncata come sappiamo, e infine il regno di Camelot dell’Olivetti, dove Adriano Olivetti mirava a allestire un modello di società di cui l’informatica era il linguaggio e la fabbrica il pretesto.

Quella concatenazione di prodigi italiani che si ritrovarono in pochi mesi a spingere il Paese oltre sé stesso dovevano condividere la scena con eventi quali il Concilio Vaticano II, che si apre proprio nel 1962, o con le fibrillazioni riformatrici dell’ala più avanzata della Democrazia Cristiana, che a San Pellegrino riprogrammò un Paese ideale che nessuno volle poi realizzare, o ancora l’improvvisa quanto fugace apertura culturale della sinistra italiana che con un celeberrimo convegno dell’Istituto Gramsci sul neo capitalismo guardava per la prima, ed unica, volta a ovest invece che a est.

L’Italia stava toccando davvero la luna con un dito. Il mondo sognava in Italiano con i film italiani che facevano incetta di premi in tutto il mondo e si lanciavano cantanti globali, come Adriano Celentano o Mina, o ancora si presentava la berlina più bella di sempre, come la Giulia. Un vero metaverso ante litteram che si esaurisce all’improvviso, quasi all’unisono, subito dopo la cessione della strategica divisione elettronica della stessa Olivetti agli americani della General Electric. Un vero esproprio internazionale, come mi raccontò Elserino Piol, con la rabbia che ancora gli schiumava le labbra esattamente 50 anni dopo.

Lui, dopo la morte di Adriano Olivetti nel 1960, benché giovanissimo, divenne assistente e badante professionale di Roberto Olivetti, il figlio che conduce le trattative.

Piol mi raccontò che nella fase finale, mentre si stavano definendo i confini degli asset che venivano ceduti, e si cercava di salvare proprio il calcolatore Programma 101 dall’esproprio, mentre lui provava a contenere le pretese degli americani, venne spinto fuori dalla stanza da un Roberto insolitamente brusco e irato che gli gridò in faccia:

“ma allora non hai capito? Noi non stiamo discutendo, stiamo eseguendo la disposizione di cedere tutto agli americani. Non farci perdere tempo, tanto non c’è nulla da fare”.

Roberto Olivetti, mi confidò ancora Piol nell’intervista registrata, sapeva che sopra le nostre teste incombeva un editto da Washington.

Due anni prima era morto nelle condizioni che ancora pendono Enrico Mattei, e qualche settimana dopo sarà chiusa la centrale elettromeccanica di Felice Ippolito coinvolto in un pretestuoso scandalo dal futuro capo dello stato Giuseppe Saragat, e venne anche sigillata l’agenzia spaziale di Luigi Broglio. Tutti i sogni sfumano inesorabilmente nello stesso momento.

Piol mi ricorda che proprio in quei giorni, agosto del 1964, si ode attorno al Quirinale un “tintinnar di sciabole”, come commentò l’allora leader socialista Pietro Nenni e si parlava insistentemente di golpe per frenare la comunque flebile spinta riformatrice del centro sinistra.

 A spiegare tutto, almeno la sfuriata di Roberto Olivetti e la capitolazione del vertice dell’Olivetti dinanzi alle pretese della General Electric, una lettera di William Averell Harriman, allora consigliere diplomatico del presidente americano John Fitzgerald Kennedy che spiegava al nostro governo che “L’Italia la guerra non l’aveva vinta”.

Elserino Piol lo sapeva che non eravamo fra i vincitori ma sperò sempre che potessimo essere fra i superstiti, fra quei paesi che giravano pagina e potevano ricostruire un futuro con le proprie risorse: saperi e creatività

Con Adriano Olivetti e un pugno di talenti credettero per un momento di avere la Luna, poi fu costretto a ricominciare tutto da capo.

Lo fece nei decenni successivi lavorando sempre a un rilancio della sua Olivetti sotto diverse gestioni, sempre, volle precisare nell’intervista, stando a schiena diritta nei confronti di tutti coloro che venivano a spiegarci che la Guerra non l’avevamo vinta. E nel settore informatico erano davvero tanti.


[1]Michele Mezza, Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato, vista cinquant’anni dopo da Giovanni XXIII a Francesco, da Olivetti a Marchionne, da Moro a Grillo, Roma, Donzelli, 2013, X-350 p.