Anticipazioni

Democrazia Futura. Piero Sraffa, il Pci e la storia d’Italia

di Salvatore Sechi, docente di storia contemporanea, Università di Ferrara |

Salvatore Sechi in un'anticipazione di un saggio di imminente pubblicazione per Democrazia futura "Piero Sraffa, il PCI e la storia d'Italia" ricostruisce i complessi rapporti fra l'economista italiano e l'autore dei Quaderni dal Carcere rimettendo in discussione alcune leggende storiografiche.

Salvatore Sechi

È dall’analisi del fascismo che Piero Sraffa nella prima metà degli anni Venti ricava degli originali schemi interpretativi per lo studio anche di alcune tendenze del capitalismo contemporaneo.[1] Nel caso dell’Italia fece corrispondere l’esperienza politica in corso (come scriverà nel 1924) ad un vero e proprio ciclo economico. Pertanto, il fascismo -a suo avviso- andava lasciato arrivare a compimento, senza forzarne il percorso con azioni di rottura.

E’ quanto sconsiglia di fare ai comunisti italiani[2]

Si trattò della manifestazione di un dissenso radicale dalla linea perseguita da Antonio Gramsci che, assecondando le prescrizioni del Comintern, prospettava come all’ordine del giorno l’obiettivo di una sorta di insurrezione popolare onde sostituire la dittatura fascista con la lotta per il socialismo. Il tentativo verrà replicato durante la guerra civile a Roma, con la strage di via Rasella. Come sempre il nemico numero uno per i comunisti era l’attendismo (o attesismo).

Sraffa nel 1924, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, ribadisce che il momento storico è prioritariamente quello della lotta per ripristinare il vecchio “ordine borghese”, cioè lo stato di diritto in vigore nell’Italia liberale e in particolare (sembra di capire) nell’età giolittiana quando il governo rinunciò a intervenire nei conflitti tra imprenditori e sindacati.

Ai comunisti, ai quali per qualche tempo si è sentito vicino, scrive – senza mezzi termini e alcuna reverenza- che non restava altro da fare se non esercitare il ruolo della mosca cocchiera nei confronti delle opposizioni aventiniane.

Di fronte al primo delitto di Stato (di cui fu vittima il parlamentare rifomista Giacomo Matteotti) scelsero una soluzione non anti-parlamentare, ma extra-parlamentare, cioè di abbandonare Camera e Senato.

La replica di Gramsci[3] fu durissima con le accuse a Sraffa di essere rimasto influenzato dal liberalismo, di essersi separato dalla classe operaia eccetera.

La decisione-certamente eccezionale- di ospitare lo scritto di Sraffa sull’organo comunista si può solo spiegare con la consapevolezza che a condividere la sua analisi fossero anche una parte degli iscritti e dell’elettorato comunista. E non solo, come dimostrò l’esito delle elezioni politiche del 1924 perorate dal Partito Comunista d’Italia che rafforzarono sensibilmente un partito minoritario come quello diretto da Filippo Turati.

Si può rilevare in questo forte scambio polemico (che vide Sraffa parteggiare per la politica dell’opposizione aventiniana, sostenuta dal leader riformista Filippo Turati) il nesso tra ricerca teorica e riflessione politica che, nell’economista torinese, non è stata molto frequente e spesso neanche esplicita.

La formulazione del giudizio sul nuovo regime politico avviato dalla marcia su Roma nel turbo lento inverno 1922, oltre ad essere una rottura con una parte della sua famiglia (Cesare Goldmann, un ammiratore di Mussolini, era suo prozio), ebbe luogo all’estero. Più precisamente sulle colonne del prestigioso Economic Journal, la rivista diretta da John Maynard Keynes da lui appena conosciuto.

Sraffa vi pubblicò due interventi che riguardavano la crisi della Banca di Sconto e della Banca Commerciale. Sembra la delineazione di uno studio sul capitale finanziario, che invece non scriverà mai. Saranno, però, sufficienti a suscitare l’irritazione e alimentare la vendetta del neo-premier Benito Mussolini[4]. A farne le spese saranno sia il padre Angelo Sraffa (esponente di spicco di grandi istituti bancari e della massoneria, fondatore della Bocconi e docente universitario) sia lo stesso figlio Piero al quale verrà ritardato l’inizio dell’insegnamento triennale di politica economica presso l’università di Cambridge.

Di fronte all’espandersi del fascismo a macchia d’olio e con la violenza, Piero Sraffa sembra nutrire l’idea che a fronteggiarlo non possa bastare la piccola forza dei comunisti (ai quali inizialmente si sentì più vicino).[5] Anche perché Mussolini sembra in grado di unire in un blocco unico gli interessi della grande borghesia, dei ceti medi e di settori della classe operaia.

Di qui l’idea che possa rimpiazzare la forma politica che seguirebbe al tracollo dell’Inghilterra imperiale.

In questa non facile riflessione si colloca l’accettazione della direzione dell’Ufficio Provinciale del Lavoro di Milano offertagli dai socialisti turatiani. A cominciare da Nino Levi e Carlo Rosselli eccetera ai quali rimase a lungo legato[6].

Siamo in presenza di una prospettiva politica che non solo mitiga, ma appare assai diversa da quella enucleata nell’estate 1921 (precisamente nei mesi di luglio-agosto). Si tratta di tre articoli (uno anonimo e due firmati con le sole iniziali del nome)[7] redatti mentre Sraffa era a Londra e pubblicati sulla rivista fondata e diretta da Antonio Gramsci (L’Ordine Nuovo).

Il tema era quello delle lotte operaie negli Stati Uniti e nel Regno Unito, nello svolgimento del quali il giovane studioso torinese lasciò emergere una formazione politica di carattere molto radicale. Intendo dire che, a mio avviso, fu molto più pervasiva, e quindi anche incisiva, dell’influenza politica che poté acquisire a Torino.

Non è senza un significato, per chi impunemente l’ha reclutato come comunista, che Sraffa non abbia lasciato una riga né una testimonianza sul valore che ebbe nella sua maturazione politica il movimento dei Consigli di Fabbrica, il dibattito sul ruolo dei sindacati che vide impegnati su posizioni diverse Antonio Gramsci e Angelo Tasca, la profondità (vale a dire da ultima spiaggia o meno) della crisi economica del primo dopoguerra. A questi aspetti uno studioso come David Bidussa, nei suoi saggi più recenti, ha aggiunto una sorta di inedita perlustrazione sulla traduzione delle tematiche “consiliaristiche” in cultura e prassi di governo. E’ un passo nella riflessione storiografica che finora mancava”.

Il rapporto tra capitale e lavoro era delineato non attraverso la morfologia (capitale, salari, profitto, rendita eccetera) del modo di produzione capitalistico, ma più succintamente come un puro e semplice rapporto di sfruttamento, sfrontato e senza limiti. Di qui la propensione personale (che, però, coincideva anche con gli animal spirits rinvenibili delle rassegne dei molti conflitti aperti tra le due rive dell’Atlantico di cui la rivista torinese dava notizia) a riconoscersi nell’impostazione del sindacato più “estremista” operante nell’America settentrionale, gli Industrial Workers of World (IWW)[8]. Inutili o impossibili gli apparvero le possibilità di un mutamento in senso seriamente riformatore anche di un sindacato come quello diretto da Samuel Gompers[9].

Sul piano dell’analisi teorica dall’argomento della tesi di laurea (dedicata agli effetti della politica monetaria nel dopoguerra)[10] fino al 1926[11], Sraffa si impegnò nella rilevazione che al capitalismo mancava il motore e il perno dell’equilibrio generale che Alfred Marshall (il maestro di Keynes) aveva delineato con un’influenza su scala mondiale durata a lungo.[12]

Dopo la prima guerra mondiale questa certezza viene meno. Nello scemare, diventando un obiettivo controverso sul piano teorico e su quello politico, a dominare fu la prassi diffusa della concorrenza imperfetta e degli oligopoli.

A porre un argine o correggere queste gravi (rivelatesi ineliminabili) deformazioni del sistema produttivo, in cui Piero Sraffa si affiancherà all’inizio degli anni Trenta a Joan Robinson, Edward Chamberlain eccetera, diede un contributo Antonio Gramsci. Si può parlare di un vero e proprio investimento fiduciario, che il leader comunista concepì fino al 1918 quando l’opzione tra Woodrow Wilson e Lenin finì per pendere dalla seconda parte. L’idea della riformabilità del capitalismo (in maniera che attraverso il mercato assicurasse più innovazioni, più occupazione, migliori salari e condizioni di vita dei lavoratori) venne condivisa insieme al contributo di uno dei maggiori teorici della socialdemocrazia tedesca come Karl Kautsky, e di uno stuolo di economisti italiani. Alcuni di essi (a partire da Edoardo Giretti, di cui Gramsci aveva grande stima) come Luigi Einaudi e Attilio Cabiati, furono tra i docenti con i quali Sraffa aveva redatto la tesi di laurea[13].

L’economista torinese in nessuna occasione volle   spendere una sola riga in loro favore. Era il segno macroscopico della sua sfiducia nella capacità di auto-riforma del capitalismo.

Sraffa: un comunista?

Ma l’iter politico di Sraffa non sembra essersi esaurito e non può definirsi concluso con i tre articoli ospitati nell’estate 1921 su L’Ordine Nuovo in cui commentava gli esiti delle lotte e delle rivendicazioni operaie nelle due rive dell’Atlantico.

Essi recavano un’impronta che, dando la priorità all’estremismo sindacale degli IWW, misuravano una distanza difficile da colmare, cioè non conciliabili con le posizioni sia del Partito Comunista d’Italia sia del Comintern[14].

Una volta lasciata la London School of Economics e rientrato nel 1922 a Milano. oltre a riallacciare, più intensamente che in passato, la collaborazione con Gramsci, ravvivò quella con gli esponenti milanesi del Partito Socialista Unitario (PSU). Non solo Carlo Rosselli, suo compagno d’infanzia, che era in strettissimi contatti con una illustre coppia di coinquilini di Sraffa, i Turati-Kuliscioff, ma anche il presidente della giunta esecutiva della provincia di Milano avvocato Nino Levi e altri componenti del gruppo riformista come Fausto Pagliari e Alessandro Schiavi. A Nino Levi restò legatissimo a lungo come a Raffaele Mattioli e a Gramsci).

Non mi pare realistico banalizzare questo intermezzo di rapporti con i socialisti come se fosse un incidente di percorso o un’eccezione, vale a dire un evento privo di un significato politico generale. Sembra, in effetti, corrispondere ad una fase della sua vita in cui la scelta di fare lo studioso non è stata ancora interamente maturata, anche se da alcuni mesi ricopriva, come ha documentato Nerio Naldi, l’insegnamento di Economia politica presso l’università di Perugia.

Mi pare più rispondente alla realtà parlare anche di una fase di incertezza nelle scelte politiche di Sraffa, Non furono laterali o minori le violenze e le persecuzioni (documentate da Nerio Naldi) di cui egli e il padre furono fatti oggetto.

Ricordando questi ultimi episodi riferì al suo giovane allievo bolognese Luca Meldolesi di aver dovuto interrompere i suoi contatti con i comunisti italiani[15], ma ciò non comportò una totale interruzione del suo impegno politico e di opposizione al fascismo.

Potrebbe, in effetti, corrispondere ad una fase della vita di Sraffa in cui – vale la pena ripeterlo – la scelta di fare lo studioso non era stata ancora interamente maturata. E neanche quella di dedicarsi all’insegnamento accademico.

Sulla sua biografia politica mi pare dubbio e comunque opinabile, perché non adeguatamente dimostrabile, il luogo comune invalso di identificare nel comunismo le sue opzioni politiche.

Non lo erano le posizioni del 1921 e tanto meno lo furono quelle del 1924.

Nel gennaio 1935 a Formia e il 15 marzo 1937, nella clinica Quisisana, a distanza di una manciata di mesi dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista si fece latore presso il Centro estero dei comunisti italiani in esilio, delle proposte di Antonio Gramsci.

In buona sostanza, rispetto al precedente marchio bolscevico, dell’antagonismo di classe, a direzione comunista e con l’obiettivo unico di sostituirsi alle forme politiche della borghesia, Gramsci perora la formazione di alleanze politiche non monoteistiche, ma plurime, l’adozione di soluzioni intermedie come l’elezione di un’Assemblea costituente dei partiti (e non più la versione leninista e stalinista degli operai e dei contadini) e percorsi di coabitazione con le sinistre social democratiche, cattoliche e laiche. I Fronti popolari, a cominciare da quello francese, ne sono un’incarnazione.

Sono le posizioni in cui, pare di capire, lo stesso Sraffa si riconosce e che anzi aveva anticipato nel 1924, l’anno in cui la sua lontananza dalla politica dei comunisti fu massima.

Pertanto, non sappiamo, o sappiamo poco, quali furono le posizioni sia di Gramsci sia di Sraffa nell’importante arco temporale compreso tra l’inizio della carcerazione di Gramsci (1927) e la fine di essa (aprile 1937), che coincise con la sua morte.

Anche i rapporti tra loro ebbero poco e nulla di politicamente rilevante. E’ quanto mostra il carteggio tra Sraffa e Tania Schucht.

Esso semmai rende evidente il protrarsi di una rottura di Antonio Gramsci con la leadership comunista di stanza a Parigi, oltreché con Mosca.

Quali furono i rapporti tra i due vecchi compagni torinesi al di là del tenace e generoso lavoro di assistenza e di solidarietà curato dall’economista nei confronti di un leader politico non solo gravemente malato, ma anche ormai escluso dall’attività di partito?

Anche tra loro smise di esserci uno scambio culturale. Come è stato dimostrato[16], l’analisi dei processi economici, i mutamenti avvenuti nei mercati, il ruolo crescente avuto dalla tematica della distribuzione e del consumo, lo stesso il dibattito sulla pianificazione in Urss, non rappresentano argomenti di discussione e confronto tra loro. Si è ormai creata una cesura, una separazione negli interessi di ricerca. E anche sul piano personale, il durissimo contrasto insorto tra il ramo russo della famiglia Gramsci e Palmiro Togliatti, compreso l’affaire Grieco, mostrano un comportamento di Sraffa che Silvio Pons, uno studioso ben poco temerario, ha definito ambiguo[17].

Che cosa sia stato il comunismo di Sraffa nel secondo dopoguerra non è riducibile alla sua cura della pubblicazione dei manoscritti carcerari di Gramsci. Non si può parlare di un ruolo di guida, perché ad avocare in pratica ogni potere fu lo stesso Palmiro Togliatti. Preferì servirsi di un senatore astigiano, Felice Platone, affidandogli le paginette in corsivo con cui presentò i diversi volumi dei Quaderni dal carcere.

Mai il tentativo di sovietizzare, cioè ridurre a ripetizione passiva dell’ortodossia stalinista un pensiero che da essa era ormai diventato remoto anni luce, è stato così plateale.

Sraffa non aprì bocca. Lasciò fare anche quando quei manoscritti furono selezionati o tagliati e addirittura omessi. In quest’ultimo episodio egli non fu uno spettatore inerme, ma un convinto protagonista per un saggio di economia.

In che misura aveva fatto sua la linea di condotta di Palmiro Togliatti? Al capo del Comintern, Georgi Dimitrov e a Dmitrij Manuil’skij (che si occupava dei comunisti italiani)il nuovo leader dei comunisti italiani fece sapere subito che la sua volontà, nella pubblicazione dei manoscritti carcerari, era di privilegiare l’utilità che poteva trarne il partito e non la preoccupazione di assecondare il rispetto di principi elementari di filologia e metodologia storiografica.

La trentennale collaborazione con la casa editrice di Giulio Einaudi

Nei trent’anni che Sraffa prestò la sua attività di consulenza presso l’editore Giulio Einaudi ebbe una linea di condotta molto coerente e rigorosa, direi fino alla spavalderia. Fece pubblicare solo scritti di autori che avessero quella che amò chiamare “una buona posizione“. Non importava che fossero iscritti al partito comunista o ne fossero usciti, ma soltanto che il loro giudizio su questo o quell’aspetto del regime sovietico fosse positivo.

A dominare in lui fu la logica estrema della guerra fredda, l’esecrazione del l’imperialismo americano e più in generale del capitalismo concepiti come male assoluto. A salvare il prestigio e l’autorevolezza della casa editrice Einaudi sarà la collaborazione di intellettuali come Norberto Bobbio, Franco Venturi, Vittorio Foa, per citarne alcuni. Se non venisse liquidata come una malizia indecente o un’aperta provocazione, c’è da chiedersi quanto questa linea di condotta di Sraffa nei confronti dell’Urss differisse da quella dei notissimi intellettuali filo-sovietici (anzi spie) di Cambridge. Non so se, e quanto, furono in dimestichezza con Sraffa, ma sono al centro della narrazione di Michael Straight[18] sulle cosiddette “spie di Cambridge”.  Va, però, precisato che negli archivi ex sovietici su Piero Sraffa esisterebbe un fascicolo, ma esso risulta vuoto – come ci ha confermato uno studioso come Silvio Pons.

Sraffa, economista del lavoro?

Il modo in cui Sraffa affronta nel 1921 i diversi aspetti dello sfruttamento dei lavoratori, i grandi limiti posti alle organizzazioni sindacali, la negazione di elementari diritti civili eccetera, tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito; sia nell’esaminare, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924, le conseguenze del nuovo regime fascista sull’esercizio dei diritti sindacali per l’occupazione, i salari e i mutui per le abitazioni; sia nel giudizio nel 1927 sullo schema della legge sulle corporazioni durante il fascismo, inducono a rappresentarlo come un economista del lavoro.

Le sue competenze di esperto di diritto commerciale vennero utilizzate da Gramsci e Togliatti affidandogli dopo il 1924-1926, la gestione dei finanziamenti al nuovo partito.

Anche se non esiste unanimità di opinioni, ritengo significativo quanto hanno scritto due studiosi assai poco teme rari di Gramsci, come Guido Liguori e lo stesso presidente della Fondazione Gramsci di Roma, Giuseppe Vacca di cui riporto un brano significativo:

“ci sembra sufficientemente provato l’inserimento di Sraffa, dopo l’elezione di Gramsci a segretario, nella rete delle attività di partito riservate e coperte[19].

Nella corrispondenza trentennale con la casa editrice di Giulio Einaudi il filo-comunismo di Piero Sraffa si manifesta in un tenace e prorompente filo -sovietismo. E’ la ragione per cui è inesauribile la sua ostilità, fino allo scherno, nei confronti dei grandi liberali della scuola viennese. In parti colare verso Friedrich von Hayek (che stroncò in un saggio rimasto memorabile sull‘Economic Journal) e Werner Stark, ma anche a carico di uno studioso della levatura di Ludwig von Mises.

Nei confronti di quest’ultimo non vengono argomentate le ragioni di una ripulsa così durevole. E’ probabile che la si debba ricercare nella critica tempestiva mossa da von Mises si al funzionamento della pianificazione sovietica.

Sul corporativismo. La “conversazione di Piero Sraffa sullo Stato corporativo in Italia al Keynes Political Economy Club

Nell’inverno del 1927 Piero Sraffa tenne una conversazione al Keynes Political Economy Club che aveva per tema lo Stato corporativo in allestimento in Italia. A rileggerla si ricava un’idea, consolidata su una scala temporale ampia, della concezione che egli aveva maturato della storia d’Italia, dei partiti politici, nel contesto dei rapporti tra capitalisti e lavoratori (questo lessico è suo).

Nel dopoguerra l’obiettivo al centro dei “due opposti ed esclusivi partiti” che rappresentavano gli interessi del capitale e del lavoro fu, a suo avviso, quello di “acquisire il controllo dello Stato”.

Era progressivamente venuto meno fino a saltare “l’equilibrio del governo democratico” che si fondava nel limitare la forza degli interessi per cui si combatteva. In realtà, si era finito per confrontarsi come se si fosse in un vero e propri o “stato di guerra”,

 in cui ciascuna delle parti si guardava bene del prendere in considerazione, ed entrare nel merito di ogni particolare tema di disputa, valutando “i vantaggi immediati da aggiudicarsi o le “temporanee sofferenze da soppor tare”.

Era diventata una regola quella di non sprecare energie per ottenere successi immediati in “questioni secondarie o di dettaglio”. In questo modo venivano chiamati “i salari o le riforme sociali”.

Tutto, dunque, andava concentrato su un conflitto di importanza generale, puntando esclusivamente sulla vittoria finale che avrebbe determinato la supremazia di una delle due classi intorno a due domande cruciali: “chi comandava nelle fabbriche, chi aveva il controllo dello Stato”.

Tra i capitalisti come tra i lavoratori prevalevano esattamente questi “sentimenti di classe” e questa “concezione di classe dello Stato”.

I governi liberali cercarono, in questa radicale contrapposizione, di mantenere un atteggiamento di imparzialità per salvaguardare un equilibrio tra destra e sinistra (le due forze che si contendevano il campo). Il risultato fu una incessante politica di concessioni a favore ora di una, ora dell’altra classe sociale con la conseguenza di una perdita, tramite rinuncia, “di un po’ dell’autorità dello Stato”.

Di fronte a questa mediazione continua, connessa all’impossibilità di schierarsi interamente da un lato, cioè di fare una scelta unilaterale, a derivarne fu la decisione assunta dalle due più forti e attive sezioni della comunità nazionale di auto-organizzarsi come entità autosufficienti. Si diede, cioè, luogo ad “una separata organizzazione sociale” nel quadro di un fenomeno inedito come quello della separazione dallo Stato: ”i datori di lavoro delusi dal non aver ottenuto tutto l’appoggio aperto al quale ritenevano di avere diritto, i lavoratori consapevoli che lo Stato segretamente aiutava a preparare la reazione fascista a favore dei capitalisti”.

L’instabilità dei governi postbellici Sraffa l’attribuiva alla mancata sanzione della “vittoria completa di una delle classi” sociali da parte delle maggioranze politiche che formarono i governi.

Nel biennio 1922-1924 Mussolini tentò di muoversi su questa strada con un’azione di smantellamento del sistema di restrizioni come la cosiddetta tassazione demagogica (cioè le imposte di successione e la tassa sui profitti delle imprese) e la legislazione di guerra (cioè le limitazioni imposta alla libertà di impresa e le “riforme socialistiche del dopoguerra”.

Sul piano istituzionale vennero prese delle misure più originali e di carattere qualitativo, cioè la sostituzione della concezione liberale e della concezione socialista dello Stato. Venne cioè creato “un meccanismo statale che potesse giustificare ed assicurare la permanenza e stabilità del regime fascista stabilizzando l’equilibrio attuale nelle relazioni tra le classi sociali”.

Si arriva così’ nel 1925-1927 a concepire il meno nebulosamente possibile la formazione dello Stato corporativo.

Esso muove dall’assunzione dell’idea che “gli interessi del lavoro e del capitale, e anche quelli della nazione nel suo complesso, sono identici per quanto riguarda la produzione: quanto maggiore il prodotto, tanto maggiore la quota che andrà ad ognuno, e tanto maggiore la potenza nazionale”.

Separazione e contrasto hanno luogo sul terreno della divisione del prodotto, in quanto si scatena una lotta per una maggiore quota da sottrarre. L’arma usata sarà la maggiore forza contrattuale di cui le singole parti dispongono e quindi la minaccia di sottrarre il proprio contributo alla produzione Tale attrito, se lasciato sviluppare, porterebbe a una diminuzione della produzione e perciò a un danno a carico di tutti degli interessi di tutte le parti.

Per impedire tale frizione, occorre contrastare l’interferenza dello Stato in tale campo e pertanto affidarsi all’iniziativa dell’impresa privata, come prescriveva la Carta del Lavoro dello Stato corporativo.

Lo Stato deve, però, intervenire per governare la distribuzione perché i produttori possano dedicarsi interamente all’aumento della produzione. La soluzione adottata non è la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma la nazionalizzazione del meccanismo della distribuzione.

“Il che implica non solo arbitrato obbligatorio, ma in pratica controllo e direzione dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro da parte del governo”[20] .

Alla fine, Sraffa conclude rilevando che “le corporazioni non sono associazioni di individui, ma dipartimenti governativi: di fatto esse sono sezioni del Ministero delle Corporazioni”.

Dal punto di vista delle funzioni sindacali ordinarie delle organizzazioni corporati ve, il “fascismo non ha introdotto nulla di sensazionale”.

Di originalità fascista, chiamata rivoluzione, ritiene si possa parlare per la riforma delle fondamenta dello Stato, con la sostituzione delle organizzazioni corporative ai distretti elettorali, e del produttore al cittadino ed elettore al Parlamento Dalle linee generali di questa riforma si può essere certi che “il fascismo non correrà grandi rischi in sperimentazioni arrischiate.”

Ad avviso di Sraffa, lo Stato Corporativo è un meccanismo elaborato

“inteso molto più a dare un as petto moderno a una dittatura di vecchio stampo, piuttosto che instaurare un nuovo sistema di governo rappresentativo”.

Si vuole dare l’impressione che la dittatura sia indipendente dagli interessi settoriali, che essa sia un tentativo benintenzionato di governare paternalisticamente un popolo arretrato non adatto a un governo democratico o almeno che, se esso è oppressivo, il suo peso cada egualmente sulle diverse sezioni della comunità”.

Sraffa e il negoziato tra capitale e lavoro nella storia d’Italia.

Su questo punto, Sraffa si dedica ad un esame ravvicinato di alcuni dettagli della legge sul le relazioni tra capitale e lavoro e sulla organizzazione sindacale. Colpisce gli scioperi, qualunque sia la motivazione, e ammette, invece, la serrata, punendola solo quando essa sia fatta “senza adeguato motivo”.

Ma si tratta di un inutile formalismo dal momento che se gli scioperi sono proibiti, le serrate non hanno ragion d’essere. In secondo luogo, i datori di lavoro, senza ricorrere alla serrata, possono rompere gli accordi collettivi non ritenuti convenienti, e contro di loro l’associazione dei datori di lavoro non può prendere misure disciplinari, se mai le volesse fare. Ottenere questo risultato è impossibile per i lavoratori, in quanto non possono scioperare.

Sono, infatti, gli stessi sindacati fascisti a lamentare che in molti casi i datori di lavoro riescono ad eludere le clausole degli accordi, ed essi non hanno mezzi per costringerli a rispettarli.

In sintesi Sraffa ritiene che la differenza fondamentale tra datori di lavoro e lavoratori risieda nella natura stessa delle loro rispettive organizzazioni. Le associazioni dei datori di lavoro sono genuinamente volontarie, fondate liberamente nel pre-fascismo, e ai loro vecchi nomi hanno aggiunto semplicemente la parola fascista. Infatti essi si auto-governano in modo democratico, i loro rappresentanti sono eletti con i voti dei soci, e per fare un contratto collettivo o per qualsiasi altra decisione importante è richiesta la sanzione dei membri.

Esattamente il contrario si verifica per le organizzazioni dei lavoratori. Il primo passo del fascismo fu quello di distruggere i sindacati liberi esistenti. Col riconoscimento ufficiale dei sindacati fascisti, i vecchi sindacati sono stati dichiarati illegali e sciolti, e il loro patrimonio è passato ai sindacati fascisti. I lavoratori sono stati costretti ad aderire ai sindacati del regime, il che veniva fatto dai datori di lavoro al momento della loro assunzione.

Malgrado questi incentivi, gli iscritti ai sindacati fascistizzati sono circa due milioni mentre nel 1920 erano tre milioni e mezzo gli iscritti ai sindacati prefascisti. I sindacati fascisti non si possono definire dei sindacati, ma sono solo un’organizzazione imposta ai lavoratori per tenerli sotto stretto controllo.

Gli iscritti non partecipano alle decisioni in materia di tattica o di accordi salariali, né eleggono i funzionari o i comitati esecutivi. A farlo alla testa delle sei grandi confederazioni è il presidente della Confederazione generale dei Sindacati come delle federazioni del commercio, e delle federazioni provinciali.

Secondo Sraffa la domanda importante da farsi è “se il fascismo è un prodotto anormale della psicosi post-bellica, che si attaglia solo sulle condizioni locali italiane, o se esso rappresenti un risultato logico ed inevitabile delle moderne società industriali. L’opposizione democratica nel primo periodo del fascismo ha preso la prima posizione ed è stata in fiduciosa attesa della caduta del fascismo, che avrebbe dovuto realizzarsi appena la gente fosse rientrata in sé. Il fascismo sarebbe a quel punto passato senza lasciare tracce permanenti, tutto sarebbe tornato al sistema liberale, e l’ordine naturale delle cose sarebbe tornato esattamente quello dei vecchi tempi”.

Ma se il fascismo “effettivamente ha rappresentato l’ultima linea di resistenza su cui l’ordine sociale attuale deve ricadere al fine di difendersi contro gli attacchi del lavoro organizzato, se in effetti esso è l’unico metodo per consolidare le basi del capitalismo quando esso abbia raggiunto uno stadio in cui non è più possibile conservarlo senza rompere le forme della democrazia politica-allora gli sviluppi del fascismo avranno molto maggiore interesse in quanto essi rappresentano forse un’anticipazione dei risultati cui il capitalismo può portare negli altri paesi”.

La sua paura, che comunica ai colleghi e agli amici inglesi è che il regime creato in Italia da Benito Mussolini possa diventare una sorta di modello. Andrea Ginzburg vi ha ravvisato un avvertimento (che non compare esplicitamente nel testo della conferenza) per il rischio che “il fascismo possa diffondersi in Inghilterra e più in generale in Europa” in quanto generato non dall’arretratezza, ma da “qualche aspetto del capitalismo più fondamentale e permanente“.

Alcune divergenze di analisi dello studioso con il pensiero di Antonio Gramsci

Sraffa si sottrae, però, a schematizzazioni come quelle di Antonio Gramsci e dello stesso Angelo Tasca. Essi avevano attribuito al fascismo la sconfitta del movimento operaio l’obiettivo di centralizzare il negoziato tra capitale e lavoro con un’opzione per gli interessi monopolistici. Sraffa, invece, nella discussione avviata con Angelo Tasca su Stato Operaio, non nega che nel breve periodo la preoccupazione di Benito Mussolini fosse quella di conquistare il consenso dei ceti intermedi e di settori della stessa classe operaia.

Tra Sraffa e la leadership comunista ci fu una scarsa coincidenza che si può rilevare sulle loro posizioni sul fascismo come sulla strategia antifascista per abbatterlo.

Anche se l’abitudine è di spacciarle per identiche (anzi per scontate) fino alla prima metà degli anni Venti sono sensibilmente differenziate, se non contrastanti.

Sul primo aspetto Piero Sraffa non si limita a quanto aveva abbozzato negli articoli su The Economic Journal di John Maynard Keynes (cioè il regime politico del capitale finanziario e del capitalismo sempre meno concorrenziale e sempre più monopolistico). Nello stesso anno in cui Antonio Gramsci venne arrestato, 1927, Sraffa tenne la conferenza prima citata presso il Keynes Political Economy Club, a Cambridge, sullo Stato corporativo.

Proprio nella conclusione egli formula una domanda importante che è volta a cercare di delineare la natura del fascismo non come un prodotto meramente italo-centrico, ma piuttosto “un risultato logico ed inevitabile delle moderne società industriali”.

Sraffa mostra di avere una concezione della storia politica e sociale da materialismo storico, fondata cioè sul conflitto di classe e quindi dominata dagli obiettivi e dalle azioni da un lato dei capitalisti e dall’altra dei lavoratori. Pertanto, la sua domanda può essere formulata avendo per soggetto principale il destino del capitalismo.

Nel 1927 parlando ad un pubblico prevalentemente di economisti, il lessico che usa è quello ad essi più consueto: se il fascismo “effettivamente ha rappresentato l’ultima linea di resistenza su cui l’ordine sociale attuale deve ricadere al fine di difendersi contro gli attacchi del lavoro organizzato, se in effetti esso è l’unico metodo per consolidare le basi del capitalismo quando esso abbia raggiunto uno stadio in cui non è più possibile conservarlo senza rompere le forme della democrazia politica-allora gli sviluppi del fascismo avranno molto maggiore interesse in quanto essi rappresentano forse un’anticipazione dei risultati cui il capitalismo può portare negli altri paesi”.

La risposta non è semplice né unilineare, anche se propendo a pensare che alla fine essa corrisponda alla seconda indicazione dell’alternativa. Per Sraffa, cioè, il fascismo è l’arma di cui il capitalismo si serve per consolidare il suo grado di sviluppo ricorrendo al mezzo estremo di stravolgere l’architettura del regime democratico, cioè la forma assunta storicamente dalla democrazia politica.

In fin dei conti, lo Stato Corporativo gli appare come un meccanismo “inteso molto più a dare un aspetto moderno a una dittatura di vecchio stampo, piuttosto che instaurare un nuovo sistema di governo rappresentativo”.

Si vuole dare l’impressione che la dittatura sia indipendente dagli interessi settoriali, che essa sia un tentativo benintenzionato di governare paternalisticamente un popolo arretrato non adatto a un governo democratico o almeno che, se esso è oppressivo, il suo peso cada egualmente sulle diverse sezioni della comunità.

Come ha mostrato Andrea Ginzburg[21], la lettura sraffiana del fascismo non restò consegnata alle formulazioni dottrinarie fatalistiche e altamente prescrittive (fino al dogmatismo) prima di Lenin e poi del Comintern. Si trattò di una convergenza acquisita autonomamente, cioè parallela.

Ma i suoi giudizi non solo non coincidono, ma sono sensibilmente distanti da quelli sia di Gramsci sia della storiografia che anche criticamente se ne è occupata. Manca la percezione dalla capacità del regime di adeguarsi ai cambiamenti e alle trasformazioni in corso a livello internazionale. In primo luogo la capacità di abbozzare una forma di programmazione economica, di allargare sia l’area dei consumi sia della domanda, di corrispondere anche alti salari e un incremento dell’occupazione. 

Anche questi limiti (difficoltà o ritardi) nel cogliere le “innovazioni” del fascismo, insieme alla differenziazione da Gramsci, mostrano come Sraffa fosse uno studioso non solo molto colto, ma assai indipendente nel senso che non amava pendere dalle grazie di nessuno, persone o partiti, amici o avversari.

E’, però, vero che, per vie proprie, egli finì per riecheggiare alcune delle tesi (spesso erano veri e propri paradigmi) della teoria comunista delle crisi, e ne rimase a lungo, ma mai completamente, se non tributario certamente influenzato. Soprattutto, direi, di fronte alla maggiore minaccia che in Europa venne a rappresentare l’escalation del nazismo.

Bisogna, però, avanzare ragionevolmente un dubbio. Non essendo un militante, Sraffa non necessariamente ha potuto conoscere tutti i passaggi (per lo più relazioni e interventi interni agli organi del Partito Comunista d’Italia e al Comintern) attraverso i quali l’interpretazione gramsciana si è venuta stratificando.

Per fare un esempio, la sua visione rigorosamente classista della storia d’Italia non coincide con quella (meno drastica) di Gramsci che nel maggio 1930 scriveva: ”La concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi sociali non può essere applicata meccanicamente l’interpretazione  della storia italiana ed europea  dalla Rivoluzione francese fino a tutto il secolo XIX” perché anche se borghesia capitalistica e proletariato moderno concepiscono lo Stato come “forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione, non è detto che il rapporto di mezzo e fine sia facilmente determinabile e assuma l’aspetto di uno schema semplice e ovvio a prima evidenza”.

Bisognava, a suo avviso, tenere conto del “problema complesso dei rapporti delle forze interne del paese dato, del rapporto delle forze internazionali, della possibile geopolitica del paese dato…

Tra i due compagni c’è una differenza molto netta e precisa. Gramsci fino al 1918 ritiene che iniezioni di liberismo, provvedimenti specifici e in generale una politica economica non protezionistica potessero scongiurare la rotta del capitalismo verso chiusure corporative, interessi particolari, resa a discrezione di ceti sociali di borghesia recente e non industriale. La sua è una fiducia, e un auspicio, sulla possibilità che il sistema economico produca occupazione, alti salari e sviluppo. Sraffa, invece, non spende una parola sulla conversione del capitalismo italiano come se fosse colpito da un baco e da tossine che lo condannerebbero alla regressione e a moltiplicare ineguaglianze e squilibri e ad arrecare danni e distorsioni al funzionamento del mercato.

Una fonte di informazione e una base affidabile, per potersi rendere conto del suo orientamento negli anni Trenta e Quaranta, potrebbe essere l’amicizia con i suoi colleghi britannici Maurice Dobb e con Eric Hobsbawm. Con entrambi, e soprattutto col primo, ebbe uno scambio frequentissimo di opinioni per la confidenza e l’amicizia che si era stabilita fra loro.

Questa presa di posizione di Piero Sraffa corrisponde nell’insieme allo schema interpretativo del Comintern e dello stesso Gramsci. Ma è un punto di arrivo, che, rispetto al punto di partenza, ha dei chiaroscuri, non è cioè uniforme. Mi riferisco al fatto che Sraffa nell’esporre il suo ragionamento offre una sorta di diagnostica della storia d’Italia che assume come centrale ed esaustivo il conflitto capitale-lavoro. In base a questo schema interpretativo egli non ritiene che alle sue origini il fascismo fosse un regime alternativo a quello liberale. Dal momento che omette il riferimento alla democrazia politica (la evocherà nella chiusa della conferenza tenuta a Cambridge, in un punto centrale), lo rubricherà solo come una forma nuova del vecchio dominio.

Le Tesi di Lione di Antonio Gramsci

Gramsci, invece, nelle Tesi di Lione, si limitò a correggere le analisi precedenti di Amedeo Bordiga per delineare l’identificazione del movimento-partito di Mussolini con la base sociale del ceto medio, cioè con la rottura del blocco agrario-finanziario-industriale con la media e piccola borghesia che alle origini aveva costituito la base di massa del fascismo, ma anche la sua riserva. Siamo nella sfera cominternista della “stabilizzazione capitalistica”, che verrà espansa come un elastico o ristretta come una pelle di zigrino.

Dunque avrebbe avuto luogo uno spostamento delle classi medie, ma anche una loro radicalizzazione. A prendere piede è la riproposizione della logica sottesa al modo di produzione capitalistica che lo condanna a una frenata e infine alla certezza del declino.

Il piombo nell’ala sono le tossine indicate nelle Tesi di Lione, cioè il rapporto con gli intellettuali, la questione meridionale intesa come un aspetto regionale-territoriale dello “sfruttamento economico ‘coloniale’… del Mezzogiorno” e quindi uno specchio della divaricazione e del conflitto esistente tra diversi strati della borghesia. Specchio che viene anche nella normativa del codice di commercio in materia di azioni privilegiate, cioè la distinzione tra azioni implicanti soltanto la partecipazione al finanziamento dell’impresa e le azioni che garantivano un potere decisionale stabile ed effettivo a un ristretto numero di possessori.

Sarebbe, però, un errore dare esclusivo o prevalente importanza ai rapporti economici, ai movimenti avanti o indietro dei singoli settori o delle innovazioni. Nel decidere i tempi e le forme del contrasto tra capitalismo e socialismo, le analisi politiche dei comunisti sono sempre improntate, oltreché a giudizi specifici su quanto avviene nel capitale alla coerenza dei programmi con quanto prescriveva la politica e l’ideologia. Il che spiega perché Gramsci e i suoi compagni, attribuiscano un rilievo essenziale ai rapporti con gli strati intellettuali intermedi del Mezzogiorno, che cercano di “uscire dal blocco agrario e di impostare la questione meridionale in forma radicale”.

 E’ la via attraverso la quale il proletariato manifesterebbe “la sua capacità di conseguire un’autentica egemonia”.

Questa instabilità fu elevata. Si ebbe una forte inflazione nel 1919 e soprattutto l’anno successivo, il 1920,in cui il costo della vita raggiunse  il 31 per cento  e il prezzo politico del pane (abbassato dal governo Nitti nell’estate 1919) venne  eliminato dal governo Giolitti per ragioni di bilancio (cioè per ridurre il deficit al quale tale prezzo contribuiva  per ben 6 miliardi, cioè con oltre il 6 per cento del Pil del 1920) all’inizio dl 1921, ma si stabilizzò, nel 1922.Con lo smantellamento dell’apparato bellico furono contenute le spese statali e si ridusse il disavanzo. Per la stessa ragione aumentò la disoccupazione extra-agricola. Cresciuta di 8-9 milioni di persone toccò il picco di 419 mila unità nel dicembre 1921, mentre l’occupazione industriale si accrebbe del 13 per cento nel 1920, ma con la recessione del 1921 diminuì nella stessa misura percentuale.

In sintesi, sul piano macroeconomico dal 1919-1922 si ebbero inflazione, recessione e disoccupazione in seguito ad uno shock di origine interna.

Nel “biennio rosso” esso fu dovuto all’aumento del costo unitario della manodopera, alle rivendicazioni dei lavoratori, all’insicurezza che pervase produttori e soprattutto grandi gruppi industriali alle prese con problemi di riconversione e ristrutturazione produttiva e finanziaria.

Come ricordò un contemporaneo come Riccardo BachiSulle masse lavoratrici esercitano un gran miraggio il vocabolo ‘soviet’, le frasi ‘nazionalizzazione delle industrie’, ‘controllo sindacale’, ‘esercizio collettivo dell’impresa’, ‘appropriazione dei mezzi di produzione’“.

Si creò un fronte unico contro “il pericolo rosso”, cioè nel condividere l’ostilità, e la paura, verso il movimento dei lavoratori e gli anarchici in cui confluirono la grande borghesia agraria e industriale insieme alle classi medie.

Nel reddito e nell’occupazione avevano subito le ripercussioni pesanti dell’inflazione bellica e post-bellica sospinta dai salari (e della quale i salariati si avvantaggiavano), cioè attribuita al costo del lavoro. Si erano cumulate – come scrive nel 1923 Gino Borgatta sulla Rivista di politica economica – alle forti perdite sui risparmi per

“i ribassi in Borsa degli investimenti garantiti dell’impunità fiscale, i tracolli dei titoli industriali acquistati ad alti costi […] gli ulteriori aumenti delle imposte e dei prezzi, eccetera, che si scaricano su masse già state colpite e malcontente”[22].

Solo nei Quaderni dal Carcere, come ha mostrato Fabio Frosini, Gramsci avvierà una rimeditazione del fascismo, e del bolscevismo, come totalitarismi che incorporano dentro sé stessi le autonomie, le diverse articolazioni di ceti e di interessi che si erano espresse nello Stato liberale, ma all’esterno del suo corpo istituzionale.

In realtà, il valore euristico di questo concetto fin dagli anni Sessanta, è stato fatto bersaglio di obiezioni di natura sociologica e storico-politica animando una vera propria storiografia che lo ha radicalmente ridimensionato, come è stato distesamente mostrato[23].

Nota bibliografica

Il saggio di Piero Sraffa sul corporativismo, e lo scambio di lettere tra Sraffa e Angelo Tasca su Stato Operaio sono rinvenibili in appendice al volume di Giancarlo De Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma, Castelvecchi, 2017, 188 p.

Per una discussione sul nuovo regime di regolamentazione dei rapporti tra capitale e lavoro si veda il seminario promosso nel marzo 1999 a Roma dall’Associazione per il rinnovamento della sinistra, Sraffa politico. Alcuni inediti. Si vedano le relazioni di Marcello De Cecco “Quota 90”; Andrea Ginzburg, “Lo Stato corporativo”; Nerio Naldi, “Nell’Italia fascista degli anni ’20”, e gli interventi di Pierangelo Garegnani e Aldo Tortorella. L’intero convegno può essere ascoltato nell’archivio di Radio Radicale al seguente link: https://www.radioradicale.it/scheda/111626/sraffa-politico-alcuni-inediti-org-dallassociazione-per-il-rinnovamento-della-sinistra?i=1847240.

Si vedano altresì l’affresco ricchissimo di Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005). Nuova edizione aggiornata: Torino Bollati Boringhieri, 2020, 448 p. e le analisi ravvicinate di Riccardo Bachi, L’Italia economica nel 1919. Annuario della Vita Commerciale, Industriale, Agraria, Bancaria, Finanziaria e della Politica Economica. Vol. 11. Reprint: London, Forgotten Books, 2018, 492 p. [si vedano le pagine V, VIII e IX].

Per i contributi generali rimando a Gianpasquale Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma 2006, 320 p., e Alessio Gagliardi, Il corporativismo fascista, Laterza, Bari-Roma 2010, 208 p.

Per le ricostruzioni fondamentali e di ampio respiro rimando a Terenzio Cozzi and Roberto Marchionatti (edited by), Piero Sraffa’s Political Economy. A Centenary Estimate, London, Routledge, 2000, 456 p. In particolare cfr. Maria Cristina Marcuzzo, “Sraffa and Cambridge Economics, 1928-1931”. Testo ripreso in Maria Cristina Marcuzzo, Fighting Market Failure. Collected Essays in the Cambridge Tradition of Economics, London, Routledge, 2011, XVIII-286 p.

Sempre utili sono le note sintesi di Alessandro Roncaglia, Sraffa, la biografia, l’opera, le scuole, Bari-Roma, Laterza, 1999, 154 p. e di Nerio Naldi: Sraffa visto da Nerio Naldi, Roma Luiss University Press, 2008, 147 p.

Per le fonti ho attinto alla liberalità di Nerio Naldi nella ricca saggistica (relativa alla biografia e a diversi temi della riflessione sraffiana), distribuita in riviste in italiano e in inglese.

Per riferimenti specifici diversi saggi (in particolare quelli di Alessio Gagliardi, Andrea Borelli, Bruno Settis, Francesco Giasi e Silvio Pons) dell’importante raccolta curata da Paolo Capuzzo e Silvio Pons, Gramsci nel movimento comunista internazionale, Roma, Carocci, 2019, 242 p.

Claudio Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo 1919-1923, Editori Riuniti, Roma 1982; 400 p.; Mike Taber (edited by) The Communist Movement at a Crossroad, Leiden-Boston, Brill, 2018, 796 p.;

Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci, 1926-1937, Torino, Einaudi, 2014, XIX-399 p.

Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, Como-Pavia, Ibis, 2021, 442 p. Books, 2018, 492 p. [si vedano le pp. V, VIII e IX).

Sull’importanza della scuola liberale viennese (Friedrich A. von Hayek e Ludwig von Mises, le cui opere sono state pubblicate opportunamente dall’editore Rubbettino, a cura di Lorenzo Infantino, il richiamo è inevitabilmente ai numerosi studi di Raimondo Cubeddu.

Si ringraziano per la collaborazione Nerio Naldi (dell’Università di Roma), Roberto Marchionatti (Fondazione Luigi Einaudi di Torino), Paolo Capuzzo ed Enrico Pontieri (della Fondazione Istituto Gramsci di Bologna) e Bruno Somalvico (direttore editoriale della rivista Democrazia futura).


[1] Per un’opinione in più punti diversa rimando a Nerio Naldi Piero Sraffa e il fascismo ne gli anni Venti. Una ricognizione” nel volume a più voci Sraffa politico. Alcuni inediti. Convegno dell’Associazione per il rinnova mento della Sinistra, Roma, 5 marzo 1999. Ai testi utilizzati in questa nota, al di là di utili precisazioni, poco o nulla aggiungono due altri scritti sraffiani sul fascismo. Mi riferisco al manoscritto Aprile 1923 e al British Empire (rinvenibile nelle carte di Maurice Dobb).

[2] i veda la lettera a firma Piero Sraffa, “Problemi di oggi e di domani”, L’Ordine Nuovo, 1-15 aprile 1924. Ora in Antonio Gramsci, La costruzione del Partito Comunista Italiano, 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971, XV-565 p. [vedila alle pp. 175-177].

[3] Antonio Gramsci, La costruzione del Partito Comunista Italiano, 1923-1926, op. cit. alla nota precedente.

[4] Nerio Naldi, “Dicembre 1922: Piero Sraffa e Benito Mussolini, Rivista italiana degli economisti, III (2), aprile-giugno 1998, pp. 269-298.

[5] Si veda l’osservazione di Luca Meldolesi, L’utopia realmente esistente. Marx e Saint-Simon, Roma-Bari, Laterza, 1982, VII-155 p. [vedila a p. 110].

[6] Si veda la ricostruzione di questa vicenda politica ad opera di Nerio Naldi, Piero Sraffa “politico” nel 1924. Una lettura di Nerio Naldi, in Istituto Gramsci, Annale XVI, Gramsci nel suo tempo, a cura di Francesco Giasi, Roma Carocci, 2008, 943 p. [il contributo si trova nella parte seconda “La rivoluzione italiana” del primo tomo]. Si veda altresì Epistolario famigliare. Carlo, Nello Rosselli e la madre (1914-1937), Introduzione di Leo Valiani. Prefazione e cura di Zeffiro Ciuffoletti, Milano, Sugarco,1979, 590 p.

[7] Open Shop Drive”, L’Ordine Nuovo,5 luglio 1921; “Industriali e governo inglese contro i lavoratori”, L’Ordine Nuovo, 21 luglio 1921: “I Labour leaders,L’Ordine Nuovo, 5 agosto 1921.Per la prima ed efficace analisi di essi rimando al saggio di Francesco Auletta, “Piero Sraffa e Antonio Gramsci: L’Ordine Nuovo e le lotte operaie in Inghilterra e in America (1921), Studi Storici, L (1), gennaio-marzo 2008, pp. 177- 208.

[8] Si veda il saggio di Bruno Settis, “Tra Wilson e Lenin. America e americanismo nella formazione dei comunisti italiani, 1917-1921”, in Silvio Pons e Paolo Capuzzo, a cura di, Gramsci nel movimento comunista internazionale, Roma, Carocci, 2019, 242 p. [pp. 33-58].

[9] Rimando a Wobblies of the World. A Global History of the IWW, a cura di Peter Cole, David Struthers e Kenyon Zimmer London, Pluto Press 2017, 320 p. ; Ahmed White, Under the Iron Heel. The Wobblies and the Capitalist War on Radical Workers, Oakland, University of California Press 2022,360 p. oltre al classico Melvyn Dubofsky. We Shall Be All: A History of the Industrial Workers of the World, Champaign, University of Illinois Press, 1988, 312 p.

[10]La tesi universitaria di Sraffa venne pubblicata nel 1920, a Milano dalla Premiata scuola salesiana, col titolo L’inflazione in Italia durante e dopo la guerra. Regia Università di Torino, Facoltà di Giurisprudenza, Novembre 1920, 47 p.  Nel Regno Unito vedrà la luce solo nel 1993, col titolo “Monetary Inflation in Italy during and after the War”, Cambridge Journal of Economics, XVII (1) marzo 1993, Oxford University Press, pp. 7-26, e un anno dopo sarà ristampata initaliano dalla rivista Economia politica, Bologna, Il Mulino, 1994, XI (2), aprile-giugno 1994, pp. 163-196.

[11] Mi riferisco al saggio pubblicato in italiano a Milano dall’Università Bocconi (Piero Sraffa, “Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta”, Annali di Economia, II (1) novembre 1925, , pp 277-328) e più estesamente in inglese “The Laws of Returns under Competitive Conditions”, The Economic Journal, XXXVI (144) dicembre 1926, pp 535-550 (ora in Valore, prezzi e equilibrio generale. Saggo di E.Barone, M. Dobb, J.R. Hicks, N. Kaldor, T.C. Koopmans, R.L. Mek, J. Robinson, K.W. Rothschild, P. Sraffa, J. Viner, K. Wicksell, a cura di Giorgio Lunghini, Bologna il Mulino, 1971, 330 p.). Sui due testi debbo una precisazione ad un colloquio con Roberto Marchionatti, presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino.

[12] Rimando all’ampio giudizio d’insieme che John Maynard Keynes redige nel volume, Sono un liberale? e altri scritti, a cura di Giorgio La Malfa, Milano, Adelphi, 2010, 320 p. [si vedano le pp. 61-156].  E per un aspetto cruciale cfr. Roberto Marchionatti, “Between Berlin and Cambridge. Classical Conceptions of General Economic Equilibrium in the late 1920s”,. Cambridge Journal of Economics, XLIII (5) Settembre 2019, pp. 1377–1395.

[13] Si deve alla cura di Roberto Marchionatti la riscoperta e valorizzazione de La Scuola di economia di Torino. Co-protagonisti ed epigoni, Firenze, OIschki, 2009, VIII-482 p.

[14] Si veda Bruno Settis, “Tra Wilson e Lenin”, loc cit. alla nota 7.

[15] Si veda Nerio Naldi, “Some Notes on Piero Sraffa’s Biography: 1917-1927″, Review of Political Economy, Taylor & Francis Journals, X (4), ottobre-dicembre 1998 pp. 493-515. [in particolare p. 282 e le pp. 285-286].

[16] Rimando all’importante saggio di Giuliano Guzzone, Gramsci e la critica dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma della ‘traducibilità’, Roma, Viella, 2018, 306 p. e al volume Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, Como-Pavia, Ibis, 2021, 442 p.

[17] Silvio Pons,L‘Affare Gramsci-Togliattia Mosca (1938-1941)”, Studi Storici, XLIV (1) gennaio-marzo 2004, pp. 83-117.

[18] Grazie agli Annali della Fondazione Luigi Einaudi, XLIII, 2009, “Sul rapporto tra Piero Sraffa, Antonio Gramsci e gli interpreti” che ha ospitato i contributi di Giuseppe Ricuperati, Giancarlo De Vivo e Giuseppe Vacca alle pp. 3-55. “Il primo a parlare, racconta Freeman, fu Michael Straight, un ricco americano che aveva fatto l’università a Cambridge (quella inglese, ndr) negli anni Trenta, e che non si era sottratto al vento marxista. Poco dopo, però, rientrando negli Stati Uniti, Straight lasciò il partito comunista pur rimanendo uomo di sinistra”, scrive Laura Lilli, “Il quarto uomo”, La Repubblica, 24 dicembre 1986 a proposito del saggio appena uscito nel Regno Unito scritto da Barrie Penrose e Simon Freeman, The conspiracy of silence. The Secret Life of Anthony Blunt, London, Grpfton 1986. 588 p. Seconda edizione rivista e aumentata: 1987 XXIV-649 p.

[19] Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci ,1926-1937, Torino, Einaudi, 2014, p. 53. Sul punto in merito alla condivisione di Guido Liguori, non si allinea Nerio Naldi che all’argomento ha dedicato una ricostruzione come sempre attenta, “The Friendship between Piero Sraffa and Antonio Gramsci in the years 1919-1927,” European Journal of the History of Economic Thought, VII (1) estate 2000, pp. 80-114 [si veda in particolare le pp. 79-95].

[20] Giancarlo De Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma, Castelvecchi, 2017, 188 p. [il passo citato è a p. 126].

[21] Andrea Ginzburg, “Lo stato corporativo” in Sraffa politico. Alcuni inediti. Convegno dell’Associazione per il rinnovamento della Sinistra, Roma, 5 marzo 1999. L’intervento può essere ascoltato nell’archivio di Radio Radicale. Cf. https://www.radioradicale.it/scheda/111626/sraffa-politico-alcuni-inediti-org-dallassociazione-per-il-rinnovamento-della-sinistra?i=1847240.

[22] Gino Borgatta, “L’economia bellica e postbellica e le società per azioni. I; Le linee generali dell’economia bellica e postbellica”, Rivista di politica economica” ,1923, p. 269.

[23] Si veda Andrea Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa, 1905-1956, Bolognail Mulino, 2001, 336 p.