Riforme

Democrazia Futura. Il rilancio del bipolarismo come habitat mentale

di Celestino Spada, vice direttore della rivista Economia della Cultura |

L'Italia e la sfida delle riforme dopo l’elezione di Elly Schlein alla guida del Partito Democratico. La riflessione di Celestino Spada.

Celestino Spada

Celestino Spada torna sulla novità del quadro politico italiano “Dopo l’elezione di Elly Schlein alla guida del Partito Democratico” in un mini saggio “Il rilancio del bipolarismo come habitat mentale[1]“.   “L’elezione di una donna a segretario nazionale del Pd – scrive Spada – non ha mancato di richiamare il fatto che da qualche mese è una donna a guidare il governo italiano, Giorgia Meloni, leader del centro-destra: quasi una risposta da parte del “popolo” delle primarie Pd a una conquista storica delle donne italiane e del nostro paese, realizzata dal centrodestra. Nessuno può dire se e quanto questo ha contato nel voto per Elly Schlein, ma in ogni caso, quale ne sia stata la valenza emulativa, è un fatto che oggi due donne sono alla guida degli schieramenti politici la cui alternanza al governo ha caratterizzato (con qualche pausa recente) gli ultimi trent’anni della nostra storia”.

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Il caso ha voluto che, nelle ore in cui veniva scelto, con le ‘primarie’ del 26 febbraio 2023, il nuovo segretario nazionale del Partito Democratico, sulla costa calabrese della Penisola siano venuti ad approdare, trovandovi anche la morte in una tempesta di vento e di mare, decine di disperati – uomini, donne, bambini – in fuga dall’Afghanistan, dal terremoto, dalle guerre da tempo in corso in Turchia e in Siria. Si sono così proposte sui nostri media – all’attenzione di animi più o meno disposti ad essere coinvolti – immagini e grida di dolore di persone che si aggiungono a quelle che, da decenni, regimi politici, guerre e situazioni di sottosviluppo a noi vicine e remote inducono a rischiare la vita attraversando con ogni mezzo il Mediterraneo. E subito si è imposta la situazione di “emergenza” con i suoi caratteri ineludibili in termini di tempo, attenzione e impegno richiesti alle istituzioni – dal ministero degli Interni alla magistratura, alle amministrazioni locali, alla sanità – tutte seguite da presso dai media e incalzate dalle polemiche nell’opinione e a livello politico-parlamentare.

Nulla più di questa tragedia poteva fare di nuovo presente a Elly Schlein, uscita vincitrice dalle urne, questo aspetto non secondario del contesto nel quale è chiamata a operare nella sua nuova responsabilità, un aspetto a cui dal febbraio 2022 è venuta ad aggiungersi la situazione di opinione e di scelte e confronto politico conseguente all’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia – per richiamare l’altro fattore esogeno di prima grandezza che caratterizza in questa fase la vita del nostro Paese e che ne condizionerà il futuro almeno immediato. Tanto più se si considera il discorso nel quale il presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, a Varsavia, il 21 febbraio 2023, ha annunciato che la Nato tutta intera (e quindi anche l’Italia) è entrata in guerra al fianco dell’Ucraina – una “svolta”, per molti commentatori. Sicché è facile prevedere che nel nostro spirito pubblico, accanto ai fattori domestici e identitari attivati dagli sbarchi e da quel che ne seguirà in termini di accoglienza o non accoglienza, di aumento dei clandestini e di politiche europee al riguardo, verranno sempre più a definirsi i connotati italiani delle reazioni e degli schieramenti già attivati nei diversi Paesi della piattaforma continentale europea – nell’Unione europea in particolare – fino a poco tempo fa ben ferma e oggi posta sui rulli dello scorrimento verso ovest o verso est dall’evoluzione di quella guerra.

La risposta del “popolo” delle primarie: una donna alla guida del principale partito della sinistra

L’elezione di una donna a segretario nazionale del Pd non ha mancato di richiamare il fatto che da qualche mese è una donna a guidare il governo italiano, Giorgia Meloni, leader del centro-destra: quasi una risposta da parte del “popolo” delle primarie Pd a una conquista storica delle donne italiane e del nostro paese, realizzata dal centrodestra. Nessuno può dire se e quanto questo ha contato nel voto per Elly Schlein, ma in ogni caso, quale ne sia stata la valenza emulativa, è un fatto che oggi due donne sono alla guida degli schieramenti politici la cui alternanza al governo ha caratterizzato (con qualche pausa recente) gli ultimi trent’anni della nostra storia. Come anche è un fatto che, nel contesto mediale e sociale dominante della politica personalizzata, lo scrutinio della loro vita e delle loro scelte private non mancherà (già accade) di rilevarne differenze e affinità che peseranno, con la loro valenza simbolica, nella formazione della loro immagine sociale e culturale: ciò che avrà il suo ruolo nella formazione e nella conquista del consenso politico attorno a ciascuna di loro e al partito e allo schieramento che rappresentano.

Di questo lavorio personale e mediatico si sono avuti accenni fin dalle prime ore, risultando la storia e l’immagine di Giorgia Meloni più consona agli elementi più comuni e condivisi, che accompagnano la percezione di una donna da sempre (anche) sulla scena politica, di quanto possa risultare a prima vista la newcomer Elly Schlein con le sue scelte personali private. Un fatto – che anche componenti dell’entourage di quest’ultima si sono premurati di sottolineare – che non si sa quanto possa risultare in un vantaggio competitivo per Giorgia Meloni, data la grande varietà attuale delle percezioni e sensibilità personali e “di massa” alle questioni di genere e la fluidità delle opinioni su di esse, come si può quotidianamente verificare per esperienza diretta e nell’offerta mediale con i suoi risultati di pubblico (non ultima, e al massimo livello della popolarità, la recente edizione del Festival di Sanremo).

Piuttosto, stando così le cose e tali rimanendo prevedibilmente per un non breve periodo di tempo, viene da pensare che, con l’avvento di due donne nei ruoli apicali della politica italiana, si è determinata una situazione culturale e istituzionale nuova che potrebbe indurre l’Italia a rinnovare ai governanti della Repubblica Islamica dell’Iran la richiesta di un deciso cambiamento delle leggi e delle scelte di governo e di polizia nei confronti delle donne – richiesta già fatta dal Presidente Sergio Mattarella, fra i pochi statisti nel mondo a esprimere ad essi l’indignazione e l’insofferenza che suscita  anche in Italia quanto succede in quel paese nei confronti di metà del genere umano.

Il PD nel suo primo quindicennio da Veltroni a Bersani, da Renzi a Zingaretti: un soggetto politico o “uno spazio politico dove ognuno esercita il suo protagonismo?”

Insieme al loro esito le “primarie” del Pd hanno fatto notizia per l’affluenza al voto, maggiore di quella prevista, quasi a indicare per alcuni una controtendenza rispetto all’astensione-record registrata nelle elezioni politiche del settembre 2022. A parte l’aspetto fantasioso di questo confronto, più interessante è il nesso che si è voluto vedere fra l’affluenza alle urne delle “primarie”, la consistenza e la cogenza del mandato politico affidato dal “popolo” al segretario così eletto e la leadership effettiva, il governo, del Pd. Qui la storia è andata, come si sa, in un’unica direzione – da Walter Veltroni, plebiscitato nel 2007, con il suo programma di governo, da oltre tre milioni di voti e dimissionario poco più di un anno dopo, senza motivazioni pubbliche nelle sedi del partito o altrove, e da Pierluigi Bersani, eletto alle “primarie” del 2009 e del 2012 e sconfessato nel 2013 da 101 fra parlamentari e rappresentanti regionali del Pd nel corso dell’elezione del presidente della Repubblica (anche qui senza motivazioni pubbliche), a Matteo Renzi, eletto nelle primarie del 2013 e sconfitto nel referendum istituzionale del 2016 con il contributo di alcuni fra i maggiori esponenti del gruppo dirigente del Pd, poi anche usciti dal partito, a Nicola Zingaretti, eletto nel 2019 e dimissionario due anni dopo con una lettera resa pubblica di critica della vita interna del partito e di denuncia delle priorità che egli ha visto orientare le scelte dei suoi massimi dirigenti.

Un’esperienza quindicennale a senso unico per la quale vale ancora il quesito posto dall’onorevole Pierluigi Bersani dopo il voto dei 101:

“Vogliamo essere un soggetto politico o uno spazio politico dove ognuno esercita il suo protagonismo?”[2].

E che egli, con la consueta onestà intellettuale, è venuto a ricordare (anche) alla nuova segretaria quando ha enunciato il “dover essere” del Pd nel quale, con la elezione di Elly Schlein, è rientrato:

“I meccanismi con i quali abbiamo fatto i congressi lasciano un inespresso sul piano politico… non c’è stato un confronto di merito sui nodi veri… un partito plurale esiste se si può discutere di politica”[3]

Che cosa è stato e sia il Pd, nel contesto della “partitocrazia senza partiti” (Mauro Calise) succeduta alla “prima repubblica”, resta materia di riflessione. Qui importa prendere atto che dalla nuova segretaria chi l’ha sostenuta e votata si attende una iniziativa politica e alleanze che segnino il rilancio del bipolarismo che ha caratterizzato la seconda repubblica e, con esso, dell’orizzonte mentale duale “amico/nemico”, che nelle menti e nei cuori degli italiani è stata la struttura portante dell’assetto della rappresentanza politica nazionale per quasi trent’anni. L’assetto che ha assicurato (anche) alle forze raccolte nel Pd, insieme, il riferimento ad esse del loro insediamento sociale e culturale e la possibilità concreta, vincendo le elezioni, di accedere ai ruoli di governo, offerta dalla “democrazia dell’alternanza” come portato inevitabile del sistema elettorale maggioritario.

La fine del bipolarismo del sistema politico italiano in un contesto di crescita continua di disaffezione al voto

Anche senza considerare che, nel corso degli anni, proprio il sistema elettorale è stato modificato in senso più o meno proporzionale per iniziativa e con il consenso, in pratica, di tutte le forze politiche in Parlamento, il fatto di cui si deve prendere atto da almeno un decennio è la fine del bipolarismo del sistema politico italiano: acquisita nel voto popolare e nel confronto parlamentare, in crescita nell’informazione e nei processi di formazione dell’opinione pubblica, aperta, con l’affermazione elettorale e la leadership di Fratelli d’Italia, nel centrodestra oggi al governo, a una nuova, diversa caratterizzazione della rappresentanza sostenuta dal voto maggioritario degli italiani.

Sul primo versante, dopo le elezioni del 2008, che assicurarono al centro-destra la più grande maggioranza parlamentare nella storia della Repubblica, è stato più o meno rapido ma continuo lo smottamento del consenso fino ad allora raccolto dai due poli – prima sul versante del centrodestra, come evidenziato dai risultati elettorali del 2013, poi su quello del centrosinistra – con l’affermarsi nelle urne del Movimento5stelle, un “non-partito” che dopo il successo del 2018, nel giro di tre anni, e in tutta la scorsa legislatura, è riuscito a esprimere in Parlamento due maggioranze di governo con formazioni opposte (la Lega di Matteo Salvini, una volta, e il Pd e i vari gruppi della sinistra, l’altra) e a farsi parte di un’altra maggioranza ancora, a sostegno di un terzo governo, quello presieduto da Mario Draghi. Nel contesto della crescita continua dell’astensione per la quale, nel 2022, la maggioranza (e poi il governo) uscita vincente dalle elezioni è espressa da meno del trenta per cento dell’elettorato.

La prospettiva di recupero del ruolo politico del Pd affidata al rilancio del bipolarismo anche con la “costruzione di un campo largo”, come si dice, e la conquista di nuovi consensi nella società e nelle urne, se punta al voto giovanile, mira soprattutto a ridurre l’area dell’astensione dal voto. Un obbiettivo, questo, più che problematico dal momento che una rinnovata offerta politica del Pd continuerebbe ad essere respinta o a lasciare indifferenti gli ex-elettori del centrodestra – per la impermeabilità reciproca di opinioni e scelte di voto dell’elettorato dei due poli (un dato costante nell’analisi dei flussi elettorali dell’ultimo decennio) – mentre rischia  di apparire una minestra riscaldata ai suoi ex-elettori passati all’astensione o ad altre scelte, e di non risultare “nuova” stanti gli esponenti politici e l’orizzonte mentale da essi riproposto.

In concreto, oltre che affidarsi alle alee del confronto politico e delle scelte cui è e sarà chiamato il governo del paese, l’obiettivo del rilancio del bipolarismo tiene fermo e conta soprattutto sulla persistenza del contesto politico-culturale nel quale viviamo da quasi trenta anni. Durante i quali (come di rado è avvenuto nella loro storia unitaria, e senz’altro in quella della Repubblica) gli italiani si sono trovati a condividere forse al massimo grado i caratteri dello spirito pubblico e le prassi dominanti la stessa “società civile”, per il ruolo che la politica ha assunto nella nostra vita quotidiana, dei singoli come delle collettività. Non sono molti, a questo proposito, i contributi di analisi e riflessioni maturati all’interno degli stessi partiti e schieramenti[4], ma è un fatto che, fin dagli anni Novanta, gli elettori, nella quasi totalità, insieme alla fiducia nei loro rappresentanti variamente dislocati sui versanti del maggioritario, non solo hanno condiviso l’universo mentale duale delle contese elettorali (l’“O di qua! O di là!” delle reti Fininvest dal 1993-1994) e ne hanno accettato e sostenuto, con il loro consenso, le ricadute degli esiti delle votazioni in termini di spoil system (“i pesi e le misure”, nella sintesi dell’onorevole Bersani) nelle istituzioni e nella società, ma, soprattutto, hanno assunto essi stessi identità, credito e influenza nei rapporti sociali, nell’economia e nelle istituzioni, in termini di “appartenenza”, “vicinanza”, “contiguità”, “riferimento” agli esponenti, alle componenti e agli schieramenti politici. A partire dall’informazione e dalla comunicazione (nella Rai come nei media audiovisivi e a stampa privati), nelle istituzioni e organismi pubblici, nelle imprese, nelle professioni e nei mestieri, nella cultura, nella scuola, nelle università e nella sanità: la stragrande maggioranza delle persone si è definita, è stata o si è fatta accreditare in quei termini e la “lottizzazione” è diventata pensiero e logica organizzativa all’interno, e criterio di scelta e di decisione verso l’esterno, di istituzioni e organizzazioni pubbliche e private[5].

Il contesto – va ricordato, per concludere su questo punto – nel quale, dalla metà degli anni Novanta, nelle istituzioni e nel governo della Repubblica (da cui erano stati esclusi per mezzo secolo) hanno assunto piena cittadinanza i dirigenti e gli elettori di Alleanza Nazionale con le loro motivazioni e i loro obbiettivi. E nel quale, dal 2013, è stato possibile integrare gli eletti e gli esponenti del Movimento 5 Stelle, stemperando e assorbendo la valenza eversiva, “anti-sistema”, della loro genesi e ragion d’essere grillina. (Una cosa prevista dagli interlocutori di Antonio Polito che, in non dimenticati reportage da alcune città della Campania, nel 2018 riferiva sul Corriere della Sera di professionisti e docenti universitari orientati a votare per quel Movimento, “avendo già dato i partiti quello che potevano dare”.) 

I media strutture portanti del bipolarismo inteso come habitat mentale e del ritorno dei “notabili”

Com’è noto, sono stati i media, e la comunicazione da essi prodotta e proposta al pubblico, le strutture portanti e incessantemente attive del bipolarismo: ben più dei partiti che, in varia misura, più che al loro insediamento territoriale e alle relazioni dirette con le persone, hanno affidato all’offerta mediale i loro rapporti con i cittadini/elettori, per conquistarne o mantenerne il consenso. Con il risultato di promuovere e rendere dominante la “personalizzazione” mediale della politica e di riproporre sulla scena pubblica la figura dei “notabili”, ben radicati nel loro territorio, fonti e riferimento di dichiarazioni e “notizie” e “padroni” delle liste elettorali: la figura tipica dell’“Italietta liberale” prima dell’avvento dei partiti politici moderni, con il Psi, nel 1892. (E forse anche la vicenda del Pd trova qui una sua chiave di lettura.)

Un rilancio del bipolarismo come habitat mentale, in cui si continui a proporre giorno dopo giorno il confronto sociale e politico, e come prassi in cui si coltivino e si formino opinioni e scelte politiche (quando il tutto non si riduca al semplice “posizionamento” sul “mercato politico”), verrebbe per lo meno a tener fermo quanto ha caratterizzato la comunicazione politica negli ultimi trent’anni. E cioè una professione giornalistica esercitata a ridosso – più o meno – del personale politico e un’industria mediale che ha affidato il suo rapporto con il pubblico, e anche le sue prospettive di tenuta e di sviluppo economico, alle dinamiche competitive in cui maturano e si coltivano le simpatie e le affinità, se non anche i processi di identificazione attivati dall’“O di qua! O di là!”. Con esiti deficitari in termini di percezione della realtà, come si rese evidente nel 2012, quando i media, che avevano salutato il “ritorno della politica” dopo la parentesi (da loro stessi mal sopportata) del “governo dei tecnici” presieduto da Mario Monti, scoprirono nelle urne elettorali che milioni di cittadini avevano smesso di votare per entrambi i poli. E nel 2014, quando le retate disposte dalla Procura della Repubblica di Roma (qualificate dai nostri media “Mafia Capitale”) portarono alla ribalta relazioni e intrecci fra esponenti politici, settori della pubblica amministrazione (al centro e nei municipi) e malavita che nonostante la loro frequentazione quotidiana e ravvicinata dei politici quasi nessun giornalista a Roma aveva prima percepito[6]. Un orizzonte mentale e una prassi, in ogni caso, che hanno pregiudicato la formazione e lo sviluppo di una opinione pubblica maturata e in grado di compiere scelte politiche in base alla considerazione del merito delle proposte e alla verifica dell’azione dei governi: una “vera” opinione pubblica, nutrita dal sentimento della comune cittadinanza, a fondamento della nostra democrazia, come ci hanno promesso a suo tempo, con la “fine delle ideologie”, i seppellitori della “prima repubblica”.

Il ritorno di una politica improntata al perseguimento dell’interesse della collettività?

In ogni caso, dal 2018, stante la conferma e anzi il primato elettorale di un terzo polo e, nel corso dei mesi e degli anni, con la girandola delle alleanze parlamentari e il mutare dei governi, è venuto (sta venendo) meno, anche nell’offerta dei media, il carattere bipolare del sistema politico per la ricerca più o meno decisa di nuove priorità della loro agenda e di nuovi soggetti sociali e culturali coinvolti nella loro offerta, insieme e grazie ai quali assumere essi stessi, fornendole al loro pubblico, informazioni e verifiche delle scelte e dei risultati di una politica che sia sottratta ai personalismi e riportata alla sua ragione e dovere essere, in termini di bene comune. Una disposizione degli intelletti e degli animi e un’esigenza di fondamento oggettivo e di verifica di validità del servizio reso alle loro audience, e alla collettività nazionale, che prima l’emergenza della pandemia da COVID-19, con il bene primario della salute di ciascuno e di tutti messo a rischio, poi l’imperativo di una quanto più rapida ripresa dell’economia, con il più vasto possibile sostegno alle imprese e al lavoro, e ancora poi le opportunità offerte dai finanziamenti del PNRR dell’Unione Europea hanno imposto – più o meno, fossero o meno disposti – a tutti.

“C’è voluta la mano di Dio” perché il perseguimento dell’interesse della collettività – di ciascuno e di tutti – si imponesse come ragion d’essere e criterio di valutazione delle proposte e dei risultati dell’azione politica, nonché della organizzazione e dell’attività della pubblica amministrazione. Un riassetto di priorità e di criteri ad oggi non si sa quanto condiviso nelle stesse classi dirigenti[7] e a livello “di massa”, di cui sembrano tornati ad essere parte integrante la qualità e l’apporto del lavoro e gli obbiettivi di crescita economica e sociale del Paese dopo trent’anni di stagnazione se non di regresso[8].

Una “svolta”, forse, di cui sembra prova anche l’attenzione e il favore diffuso che ha accompagnato nei media l’attività del governo presieduto da Mario Draghi (senza confronto con quanto avvenne nel 2011-12 con il governo Monti), sulla cui solidità, allo stato, nessuno può scommettere dato che, tuttora, l’offerta mediale è impegnata nella “campagna elettorale permanente che da trent’anni caratterizza la nostra vita pubblica” (Angelo Panebianco), con i “borsini elettorali” dei vari partiti, rilevati dai sondaggi e pubblicati a cadenza settimanale.

La riaffermazione del principio dell’elezione popolare come criterio di investitura

E una svolta, in ogni caso, di cui non ha potuto non prendere atto l’onorevole Giorgia Meloni, attenta a quanto realizzato se non anche al consiglio di Mario Draghi quando, dall’opposizione, riaffermava il principio della elezione popolare come criterio di investitura della potestà di governo nella nostra democrazia, ed oggi con la continuità rispetto a quell’esperienza di alcune fra le più rilevanti scelte del governo da lei guidato.

Sarà interessante, già nei prossimi mesi, osservare quali caratteri assumeranno il confronto, se non anche la lotta politica fra il Pd, il maggior partito di opposizione, guidato da Elly Schlein e la maggioranza di centrodestra che sostiene ed esprime il governo presieduto da Giorgia Meloni. Una new comer, tutto sommato, della politica nazionale e una politica di lungo corso, esponente di un “movimento” chiamato trent’anni fa dal monopolista della televisione privata nazionale a far massa nelle urne per “impedire la vittoria dei comunisti” realizzando in Italia la “rivoluzione liberale”[9], che si è emancipata da quella condizione servente quando si è resa evidente nelle urne elettorali del 2012 la crisi del centrodestra, ha raccolto attorno a sé militanti, quadri e dirigenti di un “partito” nuovo e ha vinto le elezioni politiche del 25 settembre 2023, leader della stessa coalizione in cui era stata ammessa per far numero.

Fratelli d’Italia, un partito nazionale distinto dal partito personale di Berlusconi nel centro-destra

Nel libro, estremamente sorvegliato nel linguaggio, con cui l’attuale Presidente del Consiglio aveva voluto presentarsi al pubblico dei lettori (dieci edizioni fra maggio e giugno 2021)[10], si rende evidente che, fin dal nome, il partito da lei fondato e guidato segna una netta presa di distanza dall’orizzonte mentale delle identità contrapposte (spesso soltanto “posizionamenti”) che hanno caratterizzato il sistema politico bipolare italiano.

Fratelli d’Italia lancia un ponte “di là” del dualismo amico-nemico che ha segnato la seconda repubblica.

Lo fa come partito nazionale nello stesso centro-destra, distinguendosi dal partito personale di Silvio Berlusconi e dalla Lega Nord, che negli anni ha saputo offuscare il suo originario carattere divisivo dell’unità e della comunità nazionale entrando nella rete delle alleanze elettorali e dello spoil system di governo. E lo fa, nel segno dell’Italia, rispetto alle formazioni raccolte nel centro-sinistra, il cui “popolo” è oggettivamente assunto a interlocutore, appunto, “fraterno”.

Certo, una parte che si identifica con la bandiera nazionale – in questo caso addirittura con l’appello iniziale dell’Inno di Mameli – mette per ciò stesso gli “altri”, tanto più i loro avversari politici, nella condizione di essere contro l’unità del popolo italiano sotto l’insegna nazionale. Questo, lo si voglia o no – questa retorica – nella nostra storia, ha un precedente sul versante di destra del Diciannovismo, per richiamare le riflessioni di Pietro Nenni sulle origini del fascismo[11]. E si capisce l’allarme antifascista che ha accompagnato i primi mesi del governo presieduto da Giorgia Meloni, anche in presenza di assalti alle persone di diverso orientamento e di manifestazioni che di “fraterno” hanno davvero poco, da parte di organizzazioni o di gruppi che al suo partito fanno riferimento.

In ogni caso, non ci vorrà molto per capire quanto siano sincere e conseguenti le assicurazioni degli esponenti di Fratelli d’Italia circa il rispetto della legge (anche) a questo proposito e le responsabilità istituzionali che ne conseguono per la premier e il suo governo. E per vedere in che misura e rilievo gli obiettivi dichiarati di contrastare il declino demografico dell’Italia, di rilanciare  l’occupazione, in particolare femminile, di riproporre la “crescita”, la “modernizzazione” e lo “sviluppo” dell’Italia quali obbiettivi primari dell’azione di governo – in dichiarata continuità con quello presieduto da Mario Draghi – insieme alla evocazione del ruolo delle imprese pubbliche nello sviluppo di produzioni e infrastrutture di rilievo strategico per il nostro Paese (anche nel contesto europeo – una nota che mancava da anni nelle prime dichiarazioni di un presidente del consiglio in Parlamento circa la sua responsabilità in proposito) – si concretizzeranno in scelte legislative coerenti e nel perseguimento effettivo di questi obiettivi.

Parole e impegni di cui è difficile negare la novità da parte di un leader di centrodestra in Italia, nei quali si avverte la presenza, nel gruppo dirigente che si è stretto attorno a Giorgia Meloni, di esponenti e quadri dell’impresa pubblica e della politica da tempo ai margini, se non esclusi dai ruoli di governo. Un fatto che si è reso particolarmente evidente nella sola enunciazione – in sede di presentazione del suo governo alle Camere – di un “Piano Mattei per l’Africa”, un nome (quello di Enrico Mattei) forse mai fatto da un leader di partito e da un Primo Ministro italiano da sessant’anni, in quella circostanza. E un’idea, un progetto, che già nei primi mesi di governo sembra costituire la cornice strategica – e il frame comunicativo – degli incontri e dei viaggi di Stato della premier e che viene a costituire un ancoraggio di prima grandezza delle priorità e delle scelte alle quali il nostro Paese è chiamato dalla sua collocazione nel Mediterraneo e dalla guerra in Europa. Gli elementi del contesto nel quale Elly Schlein è venuta ad assumere il suo nuovo ruolo, e da cui ha preso avvio questo articolo.

Analisi e considerazioni sugli argomenti qui richiamati sono state proposte dall’autore nel saggio “Politica (partiti) e comunicazione in Italia. Un approccio analitico”, ComPol IV (2) maggio-agosto 2012, p. 229-247 e in articoli pubblicati negli ultimi dieci anni su Mondoperaio, disponibili sul sito: www.mondoperaio.senato.it


[1] Articolo uscito inizialmente con il titolo “Elly Schlein alla prova dell’opposizione di governo”, Mondoperaio, LXXV (3) marzo 2023 pp. 40-45.

[2] l’Unità, 5 maggio 2013

[3] Dichiarazione rilasciata al talk show “Otto e mezzo”, La7, il 1 marzo 2023.

[4] Vittorio Emiliani, Affondate la Rai. Viale Mazzini prima e dopo Berlusconi, Milano, Garzanti, 2002, 261 p.; Franco Cardini e Marcello Veneziani, Intervista a Paolo Conti, Corriere della sera, 24 giugno 2006; Carlo Rognoni, Rai, addio. Memorie di un ex consigliere, Milano, Tropea Editore, 2009, 511 p.

[5] Paolo Mancini, “La lottizzazione, carattere dell’identità nazionale”, Il Mulino, LVIII (442), marzo-aprile 2009, pp. 302-306.

[6] Il giornalista Lirio Abbate, poi minacciato, pubblicò un’inchiesta su queste realtà, nel dicembre 2012 sul settimanale L’Espresso. L’emergere del ruolo delle mafie e della malavita organizzata nella vita economica e sociale di tante parti d’Italia, e i condizionamenti della vita di singoli e comunità che ne derivano (compresa l’astensione dal voto), non sembrano avere attratto finora una considerazione adeguata da parte delle forze politiche e dei media. Con il risultato di lasciare a magistratura e forze dell’ordine il compito di contrastare il fenomeno senza l’adeguata attenzione e il conseguente impegno dell’opinione pubblica. Cfr. Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma, Laterza, 2019, 240 p..

[7] L’esperienza degli ultimi decenni ha mostrato la relativa influenza, fra di esse, dell’associazione degli industriali, la Confindustria, che dal 20 maggio 2020 è guidata da Carlo Bonomi, e dei sindacati confederali nazionali (i loro dirigenti).

[8] Nella sintesi proposta da Federico Fubini (Corriere della sera, 24 giugno 2019), “un’economia in regime di stagnazione o di decrescita si instaura fra la metà degli anni 1990 e la lunga crisi iniziata nel 2008, al cui termine (2018) l’Italia è l’unico paese europeo a crescita zero”, mentre “dal 2000 un anno di lavoro di una persona produce meno valore rispetto a tutti gli altri concorrenti”. Un andamento e un risultato trentennale, che certo non è il frutto del caso ed ha avuto, su entrambi i versanti dell’antagonismo culturale e politico, le sue classi dirigenti socio-economiche, culturali e politiche.

[9] Può essere di un qualche interesse ricordare oggi che nel 2006, dopo le elezioni perdute dal centrodestra, la necessità di realizzare “la rivoluzione liberale preconizzata nel 1994 e nel 2001” fu al centro di una discussione sulla rivista di cultura politica il Domenicale. La causa della sconfitta vi era indicata nella “mancanza di un’adeguata politica culturale per creare un consenso vitale per le riforme” per cui, si aggiungeva, “ci vuole Gramsci”. Considerazione che suscitò i commenti di Franco Cardini e Marcello Veneziani che, stante la loro esperienza di amministratori della Rai “espressi” da Alleanza Nazionale, ne indicarono la causa “nella condizione del partito, nella gran parte, di disarmo organizzativo e di crisi di identità”. Su questo vedi Celestino Spada, “Gramsciani immaginari”, Mondoperaio, LXVII (4) aprile 2015, pp. 44-48.

[10] Giorgia Meloni, Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, Milano, Rizzoli, 2021, 336 p.

[11] Pietro Nenni, Il Diciannovismo. Come l’Italia divenne fascista, Roma, Harpo, 2020.