Pratiche

Democrazia Futura. Partecipazione

di Michele Sorice, Ordinario di Innovazione Democratica, Political Sociology e Sociologia della comunicazione alla LUISS di Roma |

Partecipazione: la parola chiave per capire l’acquisizione di competenze nelle pratiche democratiche. L'articolo di Michele Sorice.

Michele Sorice

A chiusura del nono fascicolo di Democrazia futura per il glossario Michele Sorice Ordinario di Innovazione Democratica, Political Sociology e Sociologia della comunicazione alla LUISS di Roma, illustra la voce “Partecipazione” parola chiave per capire l’acquisizione di competenze nelle pratiche democratiche.

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Il concetto di partecipazione ha rappresentato uno spazio di conflitto scientifico, si è intrecciato – in maniera non sempre lineare – con quello di democrazia (o, meglio, con i diversi approcci soggiacenti alle pratiche delle democrazie) e, non a caso, è stato formulato in molti modi diversi. Se nell’idealtipo della democrazia rappresentativa, la partecipazione si declina come pratica istituzionalizzata ma necessaria per l’esercizio della rappresentanza e l’attenzione al bene comune, nelle forme idealtipiche di democrazia diretta, invece, essa richiama al valore del coinvolgimento personale e si esercita per lo più attraverso il rifiuto della delega. Nelle pratiche concrete di democrazia, però, le cose sono sicuramente più complesse e la stessa operazionalizzazione del concetto di partecipazione è apparsa spesso molto problematica.

Un concetto problematico

Una“reale partecipazione è tale solo se porta una redistribuzione delle risorse a vantaggio di chi ne ha meno” (come scriveva Donatella della Porta nel 2011[1]): non è un caso che alla fine degli anni Sessanta (nel periodo delle contestazioni operaie, giovanili e delle donne), la partecipazione veniva considerata una categoria del “potere al servizio dei cittadini” ma anche uno strumento pedagogico. In questa seconda prospettiva, per esempio, si muoveva Carole Pateman che individuava nella dimensione educativa la principale funzione della partecipazione, dove il termine “educativa” comprendeva sia gli aspetti psicologici sia l’acquisizione di competenze nelle pratiche democratiche. La partecipazione politica, quindi, costituisce a un tempo fine e mezzo dello sviluppo sociale ed economico, poiché essa favorisce (o dovrebbe favorire) l’incremento di potere decisionale dei gruppi sociali più emarginati e dare rappresentanza alle voci di tali gruppi sociali. In questa prospettiva, quindi, la partecipazione favorisce anche lo sviluppo di meccanismi di rappresentanza e rivela una notevole portata emancipativa: essa, infatti, favorendo l’inclusione di fasce sempre più ampie di popolazione costituisce un elemento importante per giungere a forme di redistribuzione e giustizia sociale. D’altra parte, negli studi sulla democrazia, la partecipazione politica è strettamente connessa a principi ritenuti fondativi per le democrazie rappresentative (e non solo) moderne, come l’eguaglianza, il diritto all’inclusione, l’accountability elettorale, la responsiveness.

Nella tradizionale connessione fra democrazia e partecipazione c’è il riconoscimento etico-sociale dei soggetti come uomini e donne dotati di razionalità e portatori/portatrici di interessi e preferenze. La partecipazione, allora, assume anche un valore di autodifesa; da qui la condanna sociale (in alcuni momenti storici e soprattutto da parte dei ceti intellettuali) verso le forme di non-partecipazione, considerate come tendenze di irresponsabilità sociale. Nella democrazia rappresentativa, in effetti, una partecipazione ampia e continuativa è (in teoria) sempre auspicata ma la richiesta principale rivolta alle cittadine e ai cittadini si risolve di solito nell’invito a prendere parte alle elezioni ed esercitare il diritto di elettorato attivo. L’enfasi esclusiva sulla pratica elettorale, in altri termini, rischia di legittimare una partecipazione politica episodica e intermittente, ben distante dall’ideale (teorico) della partecipazione come pratica continuativa, inclusiva e funzionale allo sviluppo di una vera democrazia egualitaria.

Non è un caso che gli studi che si sviluppano fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ruotano intorno alla centralità dei partiti, di fatto considerati gli unici istituti di rappresentanza politica, da Lester Walter Milbrath a Hanna Fenichel Pitkin.

Un primo superamento delle vecchie tassonomie della partecipazione avviene solo fra l’inizio degli anni Ottanta e la fine del XX secolo, quando nuovi modelli (da quelli di Ronald Inglehart a Barry Barnes, da Melville Dalton a Leonardo Morlino[2]) cercano di superare la vecchia distinzione fra partecipazione convenzionale e non-convenzionale.

Il XXI secolo si è aperto con la consapevolezza della necessità di rivedere le vecchie teorie sulla partecipazione anche alla luce delle trasformazioni proprio nelle pratiche partecipative e di impegno politico.

 In questo contesto vanno inquadrate le riflessioni sul concetto e le pratiche della partecipazione, provenienti per lo più dagli approcci sociologici e, in particolare, dai media studies. L’iper-ottimismo acritico che ha circondato la prima fase di sviluppo della cosiddetta cultura digitale e dei social media ha favorito l’emergenza di una definizione molto semplificata (e talvolta banalizzante) di partecipazione; la grande enfasi sulle “culture partecipative” ha costituito l’avvio di una narrazione semplificatoria e fondamentalmente anestetizzante della partecipazione politica, spesso ridotta a una mera logica di “accesso” al dibattito pubblico. Lo sviluppo dapprima di una tendenza di studi più pessimista rispetto alle potenzialità democratizzanti del web e poi degli approcci “tecno-realisti” hanno costretto ricercatrici e ricercatori a una riflessione più complessa e critica.  

La seconda decade del XXI secolo ha visto una ripresa degli studi critici sulla partecipazione [3]accanto, tuttavia, al ritorno di retoriche “partecipazioniste”, cioè di narrazioni sociali funzionali di fatto alle istanze di depoliticizzazione: a fronte di una forte retorica sulla partecipazione, il partecipazionismo determina una sostanziale espropriazione dei diritti di parola dei cittadini. Spesso è proprio la retorica partecipazionista a ridurre la partecipazione politica a una sorta di attività ritualizzata e senza effettivo potere nei processi di governance democratica: una tendenza che si colloca perfettamente nei processi di sviluppo del neoliberismo.

La “minorità” dei cittadini e il “partecipazionismo”

La dimensione del conflitto e la sua gestione costituiscono elementi centrali delle pratiche partecipative, siano esse l’azione sociale diretta o la membership di partito, l’impegno nelle svariate forme della cittadinanza attiva o l’impegno nei movimenti sociali, fino alla miriade di esperienze episodiche o “intermittenti” di partecipazione politica. L

a gestione del conflitto dipende dalle possibilità di accordo e di output condivisi, e non dalla mera efficienza temporale. Il mito «efficientista» che si è fatto strada in molti paesi (per cui un Parlamento «funziona» solo se decide rapidamente, magari evitando il dibattito) costituisce un pericolo per la stessa democrazia.

Non è un caso che una sorta di partecipazione orientabile e senza conflitto (o in cui il conflitto viene anestetizzato) è spesso auspicata in diversi contesti e rappresenta l’esito di processi diversi ma convergenti: dallo sviluppo del New Public Management alle nuove tendenze di imperialismo mediale, dai processi di depoliticizzazione all’emersione della post-democrazia, dalle tendenze tecnocratiche (anche in alcune esperienze di innovazione democratica o di rigenerazione dei beni urbani) fino all’egemonia del pensiero unico neoliberista.

La partecipazione senza conflitto, tuttavia, si è rivelata un utile strumento di sostanziale anestetizzazione della partecipazione democratica. Molte esperienze di innovazione democratica (spesso innovative nelle pratiche ma di fatto poco partecipative) sono diventate mera gestione del territorio. Poiché tutti possono partecipare alla governance territoriale, essa finisce per diventare lo spazio principale di dibattito e impegno pubblico; uno spazio in cui non solo il conflitto tende a scomparire ma in cui anche l’auto-emancipazione dei cittadini si risolve talvolta in una mera possibilità di presa di parola.

D’altra parte, è altrettanto vero che in alcune esperienze di innovazione democratica, la spinta verso l’adozione di strumenti di democrazia partecipativa produce la ri-significazione dello spazio pubblico come spazio di inclusione generando così la possibilità di un’effettiva sovranità popolare. Quest’ultima possibilità, però, appare meno comune.

L’enfasi sulle retoriche partecipazioniste costituisce il substrato anche di concetti che sono andati molto di moda nei media studies negli anni Novanta, come per esempio quello di culture partecipative, che è stato citato qualche riga sopra. Le potenzialità delle tecnologie e della comunicazione digitali, anch’esse raccontate come supporto a nuove forme di partecipazione, rappresentano invece un modo attraverso cui

“si rinuncia a ripensare la democrazia partecipativa e ci si affida al paneconomicismo liberista e tecnocratico, visto non come surrogato provvisorio della politica, ma anzi come suo inveramento”,

per usare un’ancora attuale espressione di Fausto Colombo[4] (2013).

Molto spesso, poi, esiste un sentimento diffuso su una sorta di “minorità” dei cittadini, considerati di fatto incapaci di occuparsi di questioni pubbliche. Forse non è un caso che nei processi partecipativi – anche in buona fede – sia cresciuto il peso dei “facilitatori” (cioè l’equivalente dei tecnocrati delle pubbliche amministrazioni) con una sostanziale riduzione delle dinamiche di inclusività sociale.

D’altra parte, il corto-circuito dell’innovazione democratica è stato ampiamente studiato nel corso degli ultimi anni: da una parte, l’innovazione democratica come potrebbe essere, e cioè un set di strumenti per democratizzare la democrazia e renderla appunto più inclusiva; dall’altra parte, le pratiche reali, spesso fortemente depoliticizzate e capaci di trasformare un processo di “democratizzazione” della vita pubblica in nuove forme di legittimazione (apparentemente “popolare”) del potere di nuove oligarchie.

Cambiare paradigma

Uno dei problemi della partecipazione è che essa dovrebbe provocare cambiamenti reali sia nelle priorità d’agenda delle politiche pubbliche sia nelle misure da intraprendere, sia nell’incremento della trasparenza delle procedure sia, infine, nell’empowerment della cittadinanza. La partecipazione politica, in altre parole, non può esaurirsi nelle procedure della partecipazione; al contrario, essa, dovrebbe favorire l’inclusione e l’eguaglianza sostanziale.

Le molte forme di partecipazione disconnessa[5] della contemporaneità si accompagnano alla trasformazione della sfera pubblica o, meglio, alla sua frammentazione. In effetti, la relazione fra processi di piattaformizzazione sociale, frammentazione della sfera pubblica ed emersione di una narrazione partecipazionista si riconnette decisamente allo storytelling neoliberista: le stesse asimmetrie di potere che tendono a frammentare la sfera pubblica, infatti, rappresentano un ostacolo alla partecipazione democratica che, opportunamente anestetizzata, diventa uno spazio di potenziale legittimazione dello stesso “discorso” neoliberista. La razionalità neoliberista[6] (come la definiscono efficacemente Pierre Dardot e Christian Laval) tende, peraltro, a ripetere sé stessa in maniera sistematica, come lucidamente evidenziato da Papa Francesco nella sua Enciclica del 2020 Fratelli Tutti[7].

Molti studiosi (fra cui Giulio Moini ed Ernesto d’Albergo) hanno lucidamente spiegato – e con dovizia di dati empirici – come l’azione pubblica sia stata ridefinita nelle logiche neoliberiste e nel quadro di una forte spinta depoliticizzante[8].

La governance possibile – collaborativa, trasparente, solidale, fondata sul bene comune – è stata sostituita da forme di governance verticali e anestetizzate, legittimate dal ricorso a strumenti di partecipazione virtualmente “dal basso” ma saldamente eterodiretti dall’alto. Le eccezioni – comunque numerose e significative – hanno vestito il colore dei municipalismi solidali, della cittadinanza attiva che non rinuncia al conflitto, dei movimenti sociali urbani e delle tante attività che si sono sviluppate intorno al paradigma sociale della cura.

La logica della partecipazione creativa si è così sviluppata all’interno di un tessuto che ha riconosciuto nell’uscita dalla logica mercatista, l’unica possibilità per riconnettere le persone fra loro e con la politica.

Grégoire Chamayou, in un libro del 2018[9], metteva in luce con grande chiarezza la convergenza fra:

a) istanze di depoliticizzazione (e quindi delegittimazione dei partiti democratici);

b) propaganda di distruzione sistematica della rappresentanza sindacale (e quindi anche dei suoi meccanismi democratici);

c) retorica sulla governabilità (con un forte accento al rischio proveniente da una pluralità di voci politiche);

d) lo sviluppo della retorica dello Stato leggero, contraddetta però da politiche di edificazione dello Stato forte per un’economia totalmente libera da vincoli.

Dentro questa cornice, la “pericolosa” fuga in avanti della partecipazione politica ampia e orizzontale continuò a rappresentare uno spazio di resistenza, nonostante le molte (e via via crescenti) esperienze di proceduralizzazione delle istanze partecipative. Lo sviluppo di pratiche partecipative realmente significative e capaci di dare potere alle donne e agli uomini del nostro tempo non può limitarsi a “tecnicalità” più o meno raffinate e nemmeno ridursi alle possibilità offerte da logiche anestetizzanti gestite “dall’alto”.

Diventa sempre più necessario cambiare paradigma ed è illusorio pensare che possano bastare buone pratiche partecipative, per quanto esse possano comunque essere elementi di attivazione di un processo virtuoso.

In questa direzione, diventa utile riprendere la riflessione sulla cultura del “comune” e sul valore del koinònein, cioè della pratica egalitaria e inclusiva del mettere in comune. In questo spazio la partecipazione diventa un valore aggiunto della democrazia. La partecipazione come possibilità di essere uguali nel prendere parte.

Bibliografia di base

Grégoire Chamayou, La société ingouvernable, Paris, La Fabrique Editions. 2018, 336 p.

Fausto Colombo, Il potere socievole. Storia e critica dei social media, Milano,Bruno Mondadori, 2013, 168 p.

Ernesto d’Albergo, Giulio Moini, Politica e azione pubblica nell’epoca della depoliticizzazione. Attori, pratiche e istituzioni, Roma, Sapienza Università Editrice, 2019, 248 p.

Pierre Dardot, Christian Laval, La nouvelle raison du monde: Essai sur la société néolibérale, Paris, La Découverte, 2010, 498 p. Traduzione italiana: La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista. Prefazione di Paolo Napoli, Roma, Derive Approdi, 2013, VI-497 p.

Donatella Della Porta, Democrazie, Bologna, Il Mulino, 2011, 159 p.

Leonardo Morlino, Changes for Democracy. Actors, Structures, Processes. Oxford, Oxford University Press, 2011, 320 p.

Giovanni Moro, Michele Sorice, Partecipazione democratica. Dialogando di sogni e realtà. Roma: Castelvecchi, 2022, 112 p.

Papa Francesco. Lettera enciclica Fratelli Tutti del Santo Padre Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, 2020. Cf. https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html

Michele Sorice, Partecipazione democratica. Teorie e problemi, Milano, Mondadori, 2019 VI-162 p.

Michele Sorice, Partecipazione disconnessa. Innovazione democratica e illusione digitale al tempo del neoliberismo, Roma, Carocci, 2021, 204 p.


[1] Donatella Della Porta, Democrazie, Bologna, Il Mulino, 2011, 159 p.

[2]Leonardo Morlino, Changes for Democracy. Actors, Structures, Processes. Oxford, Oxford University Press, 2011, 320 p.

[3] Michele Sorice, Partecipazione democratica. Teorie e problemi, Milano, Mondadori, 2019 VI-162 p

[4] Fausto Colombo, Il potere socievole. Storia e critica dei social media, Milano,Bruno Mondadori, 2013, 168 p.

[5] Michele Sorice, Partecipazione disconnessa. Innovazione democratica e illusione digitale al tempo del neoliberismo, Roma, Carocci, 2021, 204 p.

[6] Pierre Dardot, Christian Laval, La nouvelle raison du monde: Essai sur la société néolibérale, Paris, La Découverte, 2010, 498 p. Traduzione italiana: La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista. Prefazione di Paolo Napoli, Roma, Derive Approdi, 2013, VI-497 p.

[7] Papa Francesco. Lettera enciclica Fratelli Tutti del Santo Padre Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, 2020. Cf. https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html

[8] Ernesto d’Albergo, Giulio Moini, Politica e azione pubblica nell’epoca della depoliticizzazione. Attori, pratiche e istituzioni, Roma, Sapienza Università Editrice, 2019, 248 p.

Cf. https://www.editricesapienza.it/sites/default/files/5585_Politica_azione_pubblica_depoliticizzazione.pdf

[9] Grégoire Chamayou, La société ingouvernable, Paris, La Fabrique Editions. 2018, 336 p.