Storie

Democrazia Futura. È vero Risorgimento quello ucraino? Una riflessione

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in Storia contemporanea |

La discussione sui processi di Nation Building deve necessariamente confrontarsi con storie nazionali che non sempre seguono percorsi paralleli.

Giulio Ferlazzo Ciano

Giulio Ferlazzo Ciano in un articolo per Democrazia futura si chiede: “È vero Risorgimento quello ucraino?” osservando – come recita l’occhiello – come «la discussione sui processi di Nation Building deve necessariamente confrontarsi con storie nazionali che non sempre seguono percorsi paralleli». E tale percorso parallelo non lo si ravvisa per l’Ucraina, per ragioni che spaziano dalla dubbia identità nazionale di quel Paese al fatto che, se di un Risorgimento si può parlare, ci sarebbe già stato a cavallo fra Ottocento e Novecento, con un processo di rinascita culturale identitaria che non ebbe esiti politici e di lotta per l’autodeterminazione, se non alla fine della prima guerra mondiale e all’inizio della seconda.

________________

È vero Risorgimento quello ucraino? Il problema va analizzato attraverso la lente d’ingrandimento dell’identità nazionale ucraina e attraverso la comparazione tra altri risorgimenti nazionali europei. La prima questione, considerandola da un punto di vista meramente oggettivo e storico, senza considerare quindi i sentimenti identitari e la chiara volontà di autodeterminazione espressa dal popolo ucraino, è la più complessa e spinosa da analizzare. Sia per le implicazioni legate alle ragioni stesse del conflitto, sia per le implicazioni che, a cascata, potrebbero derivare per altre realtà statuali del continente europeo.

Infatti, per esserci un Risorgimento nazionale deve esserci innanzitutto una nazione e non è detto, analizzandone la storia e la cultura, che l’Ucraina abbia quelle caratteristiche oggettive che permettono di individuarvi con ragionevole certezza un’essenza nazionale, ad esempio:

• un’etnia a sé stante e non minoritaria;
• una lingua che non sia un dialetto e che abbia acquisito una certa dignità letteraria, oppure che abbia avuto un uso cancelleresco-burocratico;
• un territorio circoscritto da pur approssimativi limiti naturali;
• radicate tradizioni di autogoverno, anche frammentato;
• antecedenti storici di una presa di coscienza nazionale con tentativi di autodeterminazione.

È più probabile invece che la storia recente, a partire dalla pace di Riga del 1921, con la quale fu riconosciuta la sovranità Sovietica su gran parte dell’attuale Ucraina, con il carico di sofferenza che ciò comportò per i suoi abitanti, e la cronaca degli ultimi decenni, dalla cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004, passando per le tensioni prodotte dalla rivolta di Jevromajdan e dall’annessione russa della Crimea, nel 2014, fino alla conflagrazione generale del 2022, abbiano creato quella frattura netta e insanabile che prelude alla nascita di una vera nazione a sé stante.

È probabile quindi che sia soltanto adesso che il processo di scissione nazionale fra “grandi russi” e “piccoli russi” sia giunto alla piena maturazione.

Il problema dell’identità nazionale ucraina è tuttavia uno dei più complessi, perché i dati oggettivi producono risultati diversi a seconda di chi li analizza.

Tra i problemi da tenere conto ci sono quelli relativi alla difficilissima delimitazione di uno spazio geografico che non presenta limiti naturali di qualunque genere in grado di definirne una specificità rispetto alle nazioni vicine. Allo spazio geografico è poi legata la questione più complessa da analizzare, ovvero se Kiev sia la culla della civiltà russa o se, al contrario, la Russia sia nata da un processo di scissione dell’antico Stato kievano che abbia originato un’altra nazione. La lettura russa della storia sostiene la prima interpretazione, riaffermando il legame inscindibile tra Kiev e Mosca basato sul principio della traslazione dello Stato, mentre la lettura ucraina presenta l’antica rus’[1]di Kiev come uno Stato a sé stante che si ricollegherebbe idealmente, attraverso varie fasi storiche, alla sua riapparizione definitiva, a partire dal 1991, sotto forma dell’attuale Repubblica Ucraina.

Traslazione dello Stato: un esempio a noi vicino

E se avessero ragione i russi? Il punto è questo. Si tende a negarlo a priori per non essere assaliti dai dubbi e mettere in discussione la nostra scelta di campo, ma in effetti c’è qualche buona ragione per credere che la lettura russa della storia sia quanto meno ragionevole.

Si deve entrare in un’ottica storica a cui noi europei non siamo generalmente abituati, ovvero quella della traslazione dello Stato. In Europa ci confrontiamo con nazioni aventi baricentri politico-istituzionali e culturali geograficamente piuttosto stabili nel tempo, se non anche immutati.

 Si pensi, ad esempio, alla relativa centralità di Roma nella storia plurimillenaria della nostra Penisola e all’importanza simbolica che essa assunse nel corso del Risorgimento. D’altra parte, al di là di Roma, la culla della nazione italiana è rimasta sempre la stessa, una penisola nettamente delimitata dal resto del continente dall’arco alpino e proiettata verso il centro del Mediterraneo, assieme alle sue tre isole maggiori.

La Francia si è sviluppata in quello spazio – l’antica Gallia – delimitato grossolanamente dal canale della Manica e dalle coste atlantiche, dalla catena dei Pirenei, dal golfo del Leone, dalle Alpi occidentali e dal corso del Reno. E lo stesso si potrebbe dire, pur con qualche notevole differenza, della Spagna, della Germania, della Gran Bretagna e di molti altri Stati nazionali europei.

Una nazione “traslata” la troviamo invece nell’Europa sud-orientale. Si tratta della Serbia.

Il caso serbo, sebbene meno complesso di quello russo-ucraino, permette di comprendere il processo che, a partire dalla rus’ di Kiev, ha originato il principato della Moscovia e da questo la Russia che conosciamo.

Se dovessimo dire quale sia il baricentro nazionale della Serbia diremmo infatti che si tratta della sponda destra del corso medio-inferiore del Danubio, laddove si incontrano la Sava e la Morava Meridionale. Una regione prettamente balcanica, ma con un’appendice pannonica mitteleuropea che sfuma lentamente nell’Ungheria. E si tratterebbe però di una verità parziale.

Perché la Serbia nacque invece più vicina al Mediterraneo, in una regione compresa tra l’attuale Erzegovina e il Montenegro, avendo come suo centro propulsore la regione montana della Rascia (Raška). Da quel centro di irradiazione nacque a poco a poco il primo Stato serbo (1077). Esso si spostò poi ulteriormente verso sud, a partire dal riconoscimento, da parte del patriarcato di Costantinopoli, di una Chiesa autocefala (1219) con sede a Peć, nel Kosovo. E proprio nel Kosovo questo primo Regno serbo ebbe la sua fioritura culturale e istituzionale. Poco più di un secolo dopo, nel 1346, il grande sovrano Stefano Dušan si fece incoronare acora più a sud, a Skopje, divenuta la sua capitale, con il titolo altisonante di βασιλεὺς – ovvero imperatore – dei Serbi e dei Romani (intesi i greci-bizantini).

Era l’apoteosi di quello Stato e se non fosse intervenuto il genio guastatore della storia, inviando i turchi ottomani ad invadere il cuore della penisola Balcanica, forse la Serbia avrebbe ancora oggi il suo baricentro in quelle regioni e chissà, magari persino un affaccio sull’Egeo dalle parti di Tessalonica: i monasteri e le laure serbe già abbondavano nella vicina Calcidica (Monte Santo) e la Macedonia meridionale era stata in gran parte slavizzata e tale rimase peraltro fino agli inizi del Novecento.

Le cose, come sappiamo, andarono diversamente e dalla disfatta di Kosovo Polje nel 1389 fino al Risorgimento serbo di inizio XIX secolo, il cuore pulsante della nazione si spostò sul Danubio, a trecento chilometri più a nord. Non molti, ma abbastanza per un Paese relativamente piccolo come la Serbia.

Abbastanza perché – trovandosi non più nel sud dei Balcani, ma alle porte dell’Europa centrale, dove termina la grande pianura pannonica – il secondo Stato serbo, nato nel 1829 e riconosciuto indipendente nel 1878, ambisse questa volta a proiettarsi verso ovest, risalendo i corsi della Sava e della Drava, in direzione dell’Adriatico e delle Alpi orientali.

La traslazione dello Stato kievano e i suoi effetti sull’identità dell’Ucraina

La geografia è importante e gioca sempre un ruolo non indifferente, anche nella visione che i popoli hanno di sé. E così l’ha giocato nel mondo russo, un mondo dove le distanze diventano un fattore relativo e quasi si annullano. Una realtà distesa su un uniforme e vastissimo bassopiano ondulato (l’ormai ben noto Bassopiano Sarmatico), interrotto soltanto dal corso di alcuni grandi fiumi. Uno spazio da colonizzare che, oltrepassati gli Urali, fu spinto fino all’estremo Oriente e alle coste del Pacifico. Di questo vasto spazio russo Kiev ha di fatto rappresentato la porta d’ingresso e la scintilla di accensione di quel moto inarrestabile verso est degli slavi orientali.

Spesso si omette di considerare che la Moscovia non fu fondata da “altri” rispetto a coloro che avevano fondato e regnato sulla rus’ kievana. Erano sempre i discendenti di quegli stessi sovrani appartenenti alla dinastia slavo-variaga dei Rjurikidi. Questa volta il genio guastatore della storia che decretò la traslazione fu rappresentato dai mongoli che, a partire dal 1223, invasero, saccheggiarono e scompaginarono lo Stato kievano, già indebolito da contese e guerre civili. La rus’ si frammentò, Kiev decadde rapidamente e iniziò quella fase della storia russa nota come età degli appannaggi (udel), per cui presero il sopravventò altre città della rus’, mentre alcuni rjurikidi si diedero a fondare nuovi principati indipendenti verso nord e nord-est. Così nacque Mosca, destinata a prevalere sugli altri appannaggi (Novgorod, Pskov, Smolensk, Vladimir-Suzdal’), annettendoli gradualmente.

Il legame con Kiev rimaneva tuttavia nella memoria collettiva, essendo la patria che si era dovuta abbandonare. Pertanto i principi rjurikidi della rus’ moscovita «videro in Bisanzio il loro supremo modello e nella Russia di Kiev il loro ancora validissimo retaggio storico»[2]. Dopo la presa di Kazan (1552) lo Stato moscovita, ormai identificatosi come rappresentante dell’unica rus’, dunque Russia a tutti gli effetti, iniziò a volgersi verso est, in direzione degli Urali e poi oltre, nello spazio quasi infinito siberiano. Un secolo dopo tornò a ovest e, in seguito al trattato di Perejaslav, nel 1654, rimise piede in quella regione che avrebbe iniziato ad assumere il nome di Ucraina (letteralmente e significativamente: “zona di confine”). Inizialmente sulla sola metà orientale (riva sinistra del Dnepr), cui si aggiunse nel 1667, strappandola alla Polonia, Kiev, tornata a far parte di uno Stato russo. E così il cerchio si chiuse.

Da allora l’Ucraina centrale e occidentale è stata lentamente conglobata nell’Impero Russo, mentre alcune regioni a sud e a ovest (Galizia e Bucovina), la prima appartenuta al grande Regno Polacco-Lituano, la seconda al Principato romeno della Moldavia (vassallo dell’Impero ottomano), furono annesse all’Impero Austriaco.

Era naturale che una simile partizione territoriale dovesse provocare un peculiare senso di appartenenza, slegato dalla storia e ancorato semmai alla contingenza di un territorio dai confini molto incerti, tirato da una parte o dall’altra per opposte ambizioni imperiali o nazionali. A questo spazio geografico mancava uno Stato proprio. Gli storici ucraini ne hanno individuato uno nella comunità cosacca del Dnepr, che si riuniva in un consiglio (Rada) per eleggere il suo capo, l’etmano. Ma non era una caratteristica specificamente ucraina, dato che anche i cosacchi del Don avevano medesime strutture sociali e politiche, tanto più che non tutti gli ucraini erano cosacchi, anzi, questi ultimi semmai erano una minoranza. Si aggiunge il fatto che le attuali regioni meridionali dell’Ucraina che affacciano sul mar d’Azov e sul Mar Nero, inclusa la Crimea, non ne facevano ancora parte, essendo comprese in un khanato tataro islamizzato e formalmente vassallo dell’Impero ottomano. Fu la Russia a occupare quei territori gradatamente, fino alla Crimea, che fu ufficialmente annessa nel 1783. Fu sempre la Russia a colonizzarli e ripopolarli, fondando città e centri abitati, facendone quella Novorossija che è al centro della propaganda putiniana.

Ucraina: nascita di una nazione?

Una cultura ucraina per di più non è esistita in maniera nettamente riconoscibile, essendo di fatto un insieme di tradizioni contadine e di minoritari retaggi cosacchi. Il risveglio culturale in chiave nazionale è arrivato pertanto decisamente tardi, a Ottocento inoltrato, innestandosi su linee di tendenza culturali e politiche (il romanticismo e in seguito il populismo) che spingevano in quella direzione. Un prodotto inizialmente di intellettuali formati nelle università russe, ai quali il regime autocratico zarista stava stretto.

Quasi un modo per marcare le differenze con la distante corte pietroburghese e avvicinarsi al popolo e al suo spirito più genuino. Così, poco a poco, iniziò a diffondersi qualcosa di vagamente paragonabile a uno spirito nazionale. Inutile dilungarsi nei dettagli, fatto sta che questa è la fase che effettivamente sarebbe più corretta definire del Risorgimento ucraino. Perché è in questo periodo, con al centro la breve ma incisiva attività della Confraternita cirillo-metodiana (1845-1847), che prese corpo la creazione o rinascita dello spirito nazionale. Che sia una sua creazione artificiale o una riscoperta poco importa a questo punto. Quel che importa invece è che questo è il periodo in cui riemerse dalle nebbie della storia, ovvero fondamentalmente risorse, l’Ucraina. È il vero Risorgimento di quel Paese. E lo si deve soprattutto allo storico Mykola Kostomarov (1817-1885), che ha dato all’Ucraina una specifica lettura della sua storia (sebbene ancora legata al principio di traslazione dell’autorità kievana e all’esistenza di un solo popolo russo[3]) e al poeta Taras Ševčenko (1814-1861), che per primo ha scritto nel peculiare dialetto sud-occidentale dei “piccoli russi”, dandogli dignità letteraria.

Il Risorgimento ucraino c’è già stato, dunque. Ma a differenza di altri risorgimenti nazionali (greco e italiano primariamente, ma anche quelli serbo, romeno, bulgaro, ungherese, ceco e polacco) non ha sortito alcun esito politico-istituzionale, rimanendo a un livello meramente culturale e identitario.

In tale ambito la fioritura di studi etnografici e storici è anzi proseguita per tutta la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, in ambedue le Ucraine, quella russa e quella austriaca. In quegli anni fu anche formulata per la prima volta la tesi storica, grazie all’ampio lavoro documentario attuato da Kostomarov e dai suoi seguaci, che riconosceva nell’Ucraina uno specifico Paese dotato di un suo peculiare sviluppo storico fin dall’antichità. Ne fu artefice Mychajlo Hruševs’kyj (1866-1934), storiografo discepolo di Kostomarov all’università russa di Kiev e promotore di studi storici ucraini presso la Società Scientifica Ševčenko di Leopoli, allora in Austria-Ungheria[4]. Hruševs’kyj fu anche presidente della Central’na Rada (assemblea centrale) della travagliata e autoproclamata Repubblica Popolare Ucraina (o Nazionale, a seconda del significato che si vuole attribuire al termine di lingua russa e ucraina Narodna) che si staccò già nel novembre 1917 dal resto della Russia dei soviet. Primo ma effimero Stato indipendente ucraino dell’era moderna[5]. Citando direttamente Giulia Lami, studiosa di cultura e storia ucraina e docente all’Università degli Studi di Milano, Hruševs’kyj

«impose un nuovo schema della storia slava orientale, contestando la visione accettata di una translatio del potere da Kiev a Vladimir-Suzdal’, indi a Mosca e a San Pietroburgo, sottolineando che essa era illogica se applicata non tanto alla storia degli Stati, quanto a quella dei popoli, perché non dava conto dell’evoluzione storica del popolo bielorusso e di quello ucraino»[6].

Questione di non poco conto: se le ragioni russe si affidavano alla storia dello Stato, dei suoi regnanti, delle istituzioni, dell’alta cultura, quelle dell’ucraina invece si affidavano alla storia del popolo, delle sue tradizioni, usi e costumi, lingue e dialetti.

Principio comprensibile ma foriero di pericolose analogie se applicato alle realtà nostrane: cosa si potrebbe dire, ad esempio, analizzandole con lo stesso criterio, delle identità sarda, corsa, siciliana, finanche veneta o lombarda? Oppure di quelle catalana, gallega, bretone, scozzese, bavarese? È un principio che è stato fatto proprio dalla visione storica della moderna Repubblica Ucraina, pienamente legittimata dalle tesi di Hruševs’kyj, elevato a sommo padre della Patria. Gli storici – inutile aggiungerlo – da quelle parti godono ancora oggi di alta considerazione, come la carriera di attore di Volodymyr Zelens’kyj sta a dimostrare: nella serie televisivache lo rese famoso il nostro interpretava giustappunto un professore di storia di liceo, consapevole più di altri del ruolo e della dignità che l’Ucraina avrebbe meritato. Ad ogni modo, storici o non storici, noi dobbiamo accettare per necessità e scelta di campo questa lettura della storia.

È bene tuttavia essere consapevoli delle implicazioni che ciò comporta per l’Europa e i nostri Stati nazionali, che potrebbero presto o tardi dover riconoscere l’esistenza di piccole Ucraine in casa propria.

La fase attuale

E allora come chiamare la fase storica che gli ucraini stanno vivendo oggi, nel 2023?

Difficile dirlo con certezza, mancando giustappunto la prospettiva storica, non potendo infatti prevedersi il futuro. Non certo un Risorgimento però. Tanto più che lo Stato ucraino non deve essere creato, come in qualsiasi Risorgimento che si rispetti. Esiste già e non da ieri, ma dal dicembre 1991. E per di più uno Stato esteso su territori che non erano storicamente tutti ucraini.

Al di là della Crimea, sarebbero da considerare: la Bucovina settentrionale, che per secoli appartenne al principato romeno di Moldavia e fu annessa alla Romania negli anni 1919-1944; il Budžak (Bugeac in romeno, che traduce un toponimo turco con il significato di “angolo” ma anche di “confine”), ovvero la Bessarabia inferiore, regione affacciata sul Mar Nero compresa tra i fiumi Nistru (Dnestr) e Danubio, popolata da russi e ucraini (giuntivi a partire dal XIX secolo), gagauzi (ovvero turchi di religione cristiana ortodossa), bulgari, romeni e zingari. Regione che fu anch’essa storicamente moldava e annessa pertanto alla Romania negli anni 1918-1944.

Infine la Transcarpazia (Zakarpats’ka in ucraino), regione molto particolare, geograficamente appartenente all’Europa centrale, situata infatti – caso unico per quel Paese – a sud della catena dei Carpazi, fino a lambire la pianura ungherese. Territorio di popolamento slavo, un tempo prevalentemente slovacco, ma con presenza di cospicue minoranze magiare ed altre, meno importanti, romene, tedesche ed ebraiche. Un territorio storicamente appartenente al Regno d’Ungheria, passato all’Impero degli Asburgo, poi alla Cecoslovacchia (1919-1939) e infine gentilmente donata da Stalin, nel 1945, alla RSS Ucraina, così che l’Unione Sovietica potesse dotarsi di un proprio strategico corridoio di ingresso all’Europa centrale. Fu proprio dal corridoio transcarpatico che affluirono comodamente in Ungheria le truppe dell’Armata Rossa per reprimere la rivolta di Budapest (23 ottobre-4 novembre 1956).

Insomma, da alcune parti d’Italia si direbbe «troppa grazia, sant’Antonio!». Un popolo ma non una nazione (ognuno la pensi come crede) che, pur dopo aver patito le pene dell’inferno (innanzi tutto l’holodomor, ovvero la grande carestia artificiale, negli anni 1932-1933), ma dopo aver anche contribuito attivamente a commettere indicibili efferatezze ai danni delle popolazioni ebraica e polacca durante l’occupazione nazista (1941-1944), si è ritrovato improvvisamente con uno Stato indipendente e sovrano che racchiudeva magicamente al suo interno tutti i territori e le regioni che neppure Hruševs’kyj avrebbe potuto sognare di annettere. Era come se l’Italia fosse nata nel 1861 includendo già al suo interno non solo tutti i territori attualmente italiani (Trento e Trieste incluse), ma anche quelli sognati dai più fervidi irredentisti, andando persino oltre, al di là delle Alpi (come nel caso della Transcarpazia), conservando ad esempio anche la Savoia o annettendosi l’intero Tirolo settentrionale. Troppa grazia, per l’appunto. Tanto più che a ritagliare l’Ucraina moderna negli attuali confini erano stati i tanto odiati russi, per di più bolscevichi. Quando si dice l’ironia della storia.

Ecco quindi che potrebbe apparire un po’ forzato sostenere che ora si stia vivendo il Risorgimento ucraino. Questa fase c’è già stata, come si è detto, sia a livello di rinascita culturale e storico-identitaria, ma anche a livello di lotta per l’autodeterminazione, come testimoniano le esperienze della prima Repubblica Popolare (o Nazionale) Ucraina (ottobre 1917-aprile 1918), dell’Etmanato d’Ucraina (aprile 1918-dicembre 1918), della seconda Repubblica Popolare Ucraina (dicembre 1918-1919/20), così come l’esistenza di movimenti indipendentistici clandestini nel periodo interbellico, sia in Unione Sovietica, sia in Polonia, fra i quali il principale, l’OUN (Orhanizacija ukraïns’kych nacionalistiv – Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini), sopravvissuto fino a pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Poi il lungo silenzio pluridecennale della pax staliniano-sovietica e poi ancora, nel 1991, l’improvvisa nascita di uno Stato indipendente, per grazia ricevuta, ovvero per spontaneo e indolore collasso dello Stato sovietico.

Guerra fratricida o guerra d’invasione e liberazione

Siamo quindi ben oltre quella fase risorgimentale, che è già avvenuta. E dunque possiamo meno romanticamente ammettere che ci troviamo, né più, né meno, di fronte a una classica guerra d’invasione e liberazione di uno Stato indipendente e sovrano. Ma anche un tentativo di ritornare sulle proprie orme da parte di uno Stato che ritiene di vantare inalienabili diritti storici su quel territorio. Non molto di diverso rispetto a ciò che toccò subire alla Finlandia (staccatasi anch’essa dalla Russia nel dicembre del 1917) a partire dal 30 novembre 1939 (22 anni dopo l’indipendenza), quando fu aggredita militarmente dall’Unione Sovietica. Guerra che si prolungò fra alterne vicende fino al 19 settembre 1944, nella cornice del secondo conflitto mondiale e per le stesse ragioni di oggi: riprendere ciò che era stato perduto, sebbene in quel caso non potessero vantarsi ragioni storiche millenarie, ma una relativamente breve dominazione russa (1809-1917) su un territorio etnicamente non slavo. Anche per quanto riguarda l’attuale conflitto sono passati molti anni dall’indipendenza dell’Ucraina. Per l’esattezza trenta.

L’Ucraina dunque già esisteva e, come si è visto, aveva già ben radicata una sua mitologia storica e nazionale, con i suoi eroi e suoi martiri (non sempre senza macchia). Ora ne sta semplicemente aggiungendo altri, in lotta contro il nemico di sempre. In più ha nuovi traguardi davanti a sé. L’Ucraina sta infatti recuperando in seno alla sua comunità anche quei cittadini russofoni che vivono nelle regioni centrorientali del Paese e che, fino all’anno scorso, avevano creduto alla propaganda di Putin, per vedersi poi trattare alla stregua di “nazisti” e nemici pubblici, bombardati nelle loro case, talvolta torturati o uccisi a sangue freddo senza troppi scrupoli, con buona pace delle dichiarazioni di storica affinità e fraternità etnico-culturale. Russofoni che per anni avevano contribuito a destabilizzare il Paese concedendo il loro voto a politici che prendevano ordini più o meno direttamente dal Cremlino.

L’Ucraina sta inoltre rimediando al danno di immagine provocato dagli stermini di ebrei e polacchi, a cui concorsero molti ed entusiasti nazionalisti, uniti in una stolta alleanza suicida con gli occupanti nazisti (quelli veri) negli anni 1941-1944.

Tutte queste tristi vicende verranno presto dimenticate, perché ora gli ucraini stanno dalla parte giusta della storia, qualunque sia l’esito del conflitto, non esitando a rappresentarsi come una società aperta, libera e tollerante.

 È vero inoltre che gli ucraini sognano l’integrazione nell’Unione Europea, il pieno realizzarsi dello Stato di diritto e di istituzioni liberaldemocratiche. Queste sono le grandi novità. Ma queste fanno parte più di un riposizionamento che di un risorgimento. E tale riposizionamento sarà molto probabilmente l’esito naturale di questo conflitto bellico che può essere letto, a seconda dei punti di vista in merito all’identità ucraina, come una guerra fratricida e insensata, oppure come una guerra di invasione e liberazione. Non però come una guerra risorgimentale.


[1] Rus’ equivale a “Principato” o “Stato”.

[2] Nicholas V. Riasanovski, A History of Russia, Oxford, Oxford University Press, 1984, ed. italiana Storia della Russia. Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1989, 732 p., cit. p. 84.

[3] Giulia Lami, La questione ucraina fra ‘800 e ‘900, Milano, Cuem, 2005, 190 p., cit. p. 126

[4] Ivi, pp.128-129

[5] Ivi, pp.134-137

[6] Ivi, p. 130