La recensione

Democrazia Futura. Net-War. Il digitale come algoritmo e come arma

di Stefano Rolando, Professore di comunicazione pubblica IULM e condirettore di Democrazia futura |

Il Webibnar sul libro di Michele Mezza "Net-War. Ucraina, come il giornalismo sta cambiando la guerra" e le riflessioni di Stefano Rolando.

Stefano Rolando

“Net-War. Il digitale come algoritmo e come arma” è il titolo del commento di Stefano Rolando sui temi che tratta il libro di Michele Mezza, Net-War. Ucraina, come il giornalismo sta cambiando la guerra affrontati in un web-seminario[1].”. Michele Mezza – osserva Rolando – è energetico, polemista, stupefattore nei dibattiti, per la sua indisponibilità al luogo comune, non dimentico delle lezioni novecentesche sulle cause delle distorsioni del potere. Così da sollecitare con forza – come ha sempre fatto con i suoi libri – il confronto. [Net-War non è un manuale, che trasforma in schemi cognitivi e in opzioni la dinamica problema/soluzioni. Ha una forza narrativa impetuosa e tende a problematizzare la materia, in alcuni momenti evidente, in altri allusiva. Gli interrogativi che proverei a immaginare per dialogare con questo testo sono molti, ma ne scelgo tre. Il primo è: tutti gli attori in campo (compreso gli alleati che affiancano e alimentano il conflitto) sono allineati nella nuova dimensione strategica? E che ruolo hanno in ciò i paesi della UE? Il secondo è: tutta questa accelerazione porta a consolidare la durata della guerra fino alla distruzione dell’avversario o porta ad introdurre nuove ipotesi per costruire territori di negoziato e di pace? Il terzo è: se tutte le crisi contengono rischi e opportunità, alla fine del teatro di guerra, questa analisi a quali opportunità ci potrà condurre?

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Michele Mezza si è formato professionalmente nella cultura del giornalismo, con importanti esperienze di inchiesta e di corrispondenza (tra cui a Mosca con la Rai) ma anche sui fronti dell’innovazione della professione, per esempio essendo tra i fondatori del format di Rai News 24.  Per poi – nell’era Internet – per dedicarsi, in una nuova esperienza di didattica universitaria (alla Federico II a Napoli), a quella che negli anni continua a chiamarsi “rivoluzione digitale”. Con attenzione prima ancora che al “metaverso” al “retroverso” dei poteri e delle potenzialità che questa rivoluzione disvela.

Il terreno di analisi è dunque una guerra complessa, con ragioni che coinvolgono storie antiche e moderne, con la visibilità cruenta delle armi e l’invisibilità non meno aggressiva di ciò che è chiamato “combattimento digitale”. Una materia che, dal febbraio di questo 2022, la geopolitica continua a presentare come un caso senza soluzioni, pur essendo indiscutibile la natura della sua origine, l’invasione russa dell’Ucraina.

La materia è vasta, quasi infinita. Scorre nell’intreccio tra economia, finanza, politica e potere dell’intero pianeta. Soprattutto presenta questa simmetrica capacità forgiante: il giornalismo diventa logistica militare; dunque, il giornalismo cambia la guerra ma, altrettanto, la guerra cambia i giornalisti.

Ecco le 214 pagine del libro “Net-War” edito da Donzelli con dieci pagine in appendice di Pierguido Iezzi, esperto di cyber-security[2].

Michele Mezza è energetico, polemista, stupefattore nei dibattiti, per la sua indisponibilità al luogo comune, non dimentico delle lezioni novecentesche sulle cause delle distorsioni del potere. Così da sollecitare con forza – come ha sempre fatto con i suoi libri – il confronto.

E in tempo di webinar l’agenda si riempie alla svelta. Costruendo eventi frequentabili anche da lontano e quindi con nessi reciproci che fanno di queste discussioni una sorta di dossier parallelo. Che comprende la vivisezione di un fenomeno di cui tutti avvertono l’importanza ma che pochi decifrano con adeguate ecografie. In alcuni casi si cerca di seguire nuove piste per capire se alla guerra c’è una riposta adeguata che cova nel mondo. Ovvero se lo stesso algoritmo opportunista può trasformarsi in regista della pacificazione.

Con queste argomentazioni si è svolto un webseminar promosso dall’Associazione dei comunicatori pubblici italiani (con attenzione al risalto di una nuova forma di comunicazione pubblica “strategica” che permea la narrativa del libro) e l’Associazione Infocivica-Gruppo di Amalfi  (operatori interessati al tema “media e innovazione”) che è alla base di questa nuova rivista di geopolitica, media e comunicazione Democrazia futura. Dibattito a cui – per appartenenze in entrambi i fronti – ho partecipato concludendo un giro di interventi che hanno approfondito contenuti, intenzioni e valore aggiunto del testo in discussione.

Rimetto insieme gli appunti di questa esperienza per “recensire” un libro di cui, fresco di stampa, avevo incluso una scheda nel dossier, ora appena pubblicato, su “comunicazione e guerra in Ucraina”, in cui ho raccolto miei scritti e soprattutto altre opinioni sui dieci mesi di fitta agenda di guerra[3].

Il libro di Michele Mezza è interessante e nuovo. Carico di storie sulla trasfigurazione dei processi comunicativi(l’oblio cognitivo nel settore è il più rapido di qualunque altra disciplina esistente) e attento a tutto ciò che è in campo (visibile e invisibile) per spiegare come questa guerra, come si è detto, cambia il giornalismo, ma cambia anche la polemologia, cambia la gerarchia delle funzioni di guerra, cambia la funzione regolatoria della geopolitica rappresentata dai processi digitali.

Un breviario e le sue fonti

Il testo è, insomma, un breviario delle trasformazioni in atto. Ma le fonti si rifanno anche a tempi ben più lontani.  Alcune non troppo da lontano come l’analisi dell’intreccio tra tecnologica e poteri che rinvia ai contributi (ormai quasi trentennali) di Manuel Castells. Poi si riconosce in Machiavelli il primo legittimatore della parola “intelligenza” per indicare ciò che si intravede nella realtà, con riferimento alle funzioni moderne della “intelligence”. E viene svelato (vale per il popolo ucraino come per le donne iraniane) che il digitale è il fattore più forte della “socializzazione della guerra”, quindi genera “lotta di popolo”, risalendo fino al Concilio Laterano II del 1100 riconoscendo che su quei concetti la Cina si era attestata già quattro secoli prima. Oppure trova nella invenzione rinascimentale della “prospettiva” il disegno dei nuovi format del giornalismo digitale in un’epoca “in cui è più importante come si produce che cosa si produce”.

Al centro del saggio c’è lo sguardo professionale di chi ha fatto il giornalista. Dunque, la filiera dell’informazione. La cosa – qui si dice – più cambiata. Tanto che è in questo campo, più che in quello che prende il nome di “comunicazione” (disciplina e professione), che viene svolta l’analisi e fatta una certa istruttoria di proposte.

La differenza per molto tempo è stata in due mestieri diversi (dare le notizie ovvero collocarle nei contesti percettivi per accompagnare nuovi comportamenti), riconoscendo che nel primo dei due mestieri, l’informazione, si è concentrata una parte importante della gestione rapida, fulminea, manipolatoria, essenzializzata dei processi digitali.  Alla comunicazione restavano (come tuttora restano) altri compiti: contestualizzare, confezionare, accompagnare, organizzare la delivery, spiegare.

Piani intrecciati e nuovo scenario comune tra informazione e comunicazione

La storia di questa guerra – in generale dei conflitti contemporanei – mostra che i due piani sono più intrecciati, strategizzati in parallelo. Diventano strategia perché la rete diventa teatro di guerra. Ed è sempre più evidente la polarizzazione tra le armi materiali (i carri armati e l’artiglieria che procedono lenti nei territori, avanzando e ritraendosi, scontrandosi con il format della guerriglia) che certo producono conquista e distruzione al tempo stesso, spaesano e mettono in diaspora la popolazione; rispetto alla rete in cui tutto appare invisibile ma che è, appunto, una nuvola suggestiva che corre più veloce dei pur moderni armamenti.

In questi ambiti saltano e comunque si modificano le strategie. Ma verrebbe anche da dire che è qui che si prepara la memoria per una futura Norimberga digitale, prima mai tentata.

Ecco alcuni passaggi del testo – tra i tanti a disposizione – in cui si coglie il territorio di mischia delle due professioni. Scrive Michele Mezza:

“Le azioni militari vengono strategicamente studiate e messe in atto proprio pensando al loro effetto comunicativo, perché il modo in cui verranno raccontate determinerà la percezione del conflitto e, in ultima analisi, il suo esito. Se non è una novità che la comunicazione della guerra sia un terreno cruciale e delicato, oggi essa è diventata l’oggetto del contendere”.

Poi però si deve riuscire a risalire a chi tira le fila. Una guerra di per sé conduce ai poteri degli Stati e per certi versi, soprattutto riferendosi alla procedura dell’invasione (ideologica, argomentativa, organizzativa e di presidio comunicativo) si capisce che lo Stato resta ampiamente implicato:

“La censura applicata ai media russi, dove la stessa parola «guerra» è bandita e va sostituita con l’edulcorata definizione di «operazione militare speciale», è l’esempio più lampante di un giornalismo che ha perso il suo carattere di autonomia”.

Letta nel suo insieme la trasformazione conduce ad attori in campo che vanno al di là della dimensione “regionale” del conflitto e si configurano nel soprammondo che domina la trasformazione digitale del nostro tempo:

“In questa trasformazione gruppi privati, come quello di Elon Musk, Microsoft e Google, diventano potenze geopolitiche, offuscando ruolo e trasparenza degli Stati. Per la prima volta, le armi con cui viene condotta la guerra coincidono con le infrastrutture digitali dell’informazione: siti web, smartphone, droni, sistemi di geolocalizzazione, piattaforme social hanno costituito il principale arsenale del confronto fra invasori e invasi, permettendo ai secondi di localizzare e colpire con estrema precisione le forze nemiche, anche grazie al supporto diretto della popolazione che rimaneva connessa, persino sotto i bombardamenti”.

Il superamento della netta separazione (filiere accademiche, filiere professionali, filiere industriali) tra informazione (selezionare le notizie immensamente più disponibili e soprattutto gerarchizzarle come fa un “attore” che ha il suo ruolo nell’agenda building) e comunicazione (accompagnare i processi cognitivi puntando ad incidere sui comportamenti) è dunque in atto per molte ragioni, tanto che la distinzione è sempre più sottile nella stessa testa dei fruitori. E le vicende in atto incidono.

La preoccupazione deve tuttavia restare quella che si è formata planetariamente ai tempi della seconda guerra mondiale e che non ha smesso di avere occasioni di “engagement”. Capire e aiutare a capire cosa è propaganda e assertività immotivata e cosa è spiegazione e sforzo di interpretazione critica.

Qui – nella guerra – il disvelamento della falsificazione è una parte attiva nel nuovo intreccio. Riguarda media, studiosi, istituzioni e imprese. Chi per affinare perversione, chi per sostenere le ragioni etiche della libertà e della responsabilità.

Va aggiunto – in particolare nell’ottica di chi scrive – che la stessa analisi che conduce Michele Mezza sollecita i sostenitori di una riforma in senso sociale e critico della comunicazione pubblica.  Materia che ha perso smalto e funzioni in ambito istituzionale per lo schiacciamento da parte della comunicazione politica e che non è ancora riuscita ad affermare realmente dei tavoli di permanente sinergia con la comunicazione sociale e la comunicazione di impresa nel trattamento dei temi di interesse generale.

In realtà non solo la guerra ma tutta la sequenza delle crisi (migrazioni, pandemia, occupazione, inflazione, morsa energetica, guerra stessa) hanno determinato condizioni di rilancio di una qualità organizzata anche in senso sociale della comunicazione pubblica. Ma per ottenere questo non c’è automatismo. Servono scelte e proposte, di cui l’aggiornamento digitale – come vediamo in tutta Europa – è fattore molto importate, ma non è il solo.

In ogni caso gli Stati sono investiti da una domanda di interlocuzione forte. Questo è il motore principale del cambiamento possibile. E in Net-War questa “domanda” si legge, sia in positivo che in negativo. Cioè rispetto a esiti virtuosi ovvero ad esiti più autoritari e liberticidi.

Gli interrogativi che Net-war fa affiorare

Net-War non è un manuale, che trasforma in schemi cognitivi e in opzioni la dinamica problema/soluzioni. Ha una forza narrativa impetuosa e tende a problematizzare la materia, in alcuni momenti evidente, in altri allusiva.

Gli interrogativi che proverei a immaginare per dialogare con questo testo sono molti, ma ne scelgo tre.

  • Il primo è: tutti gli attori in campo (compreso gli alleati che affiancano e alimentano il conflitto) sono allineati nella nuova dimensione strategica? E che ruolo hanno in ciò i paesi della UE?
  • Il secondo è: tutta questa accelerazione porta a consolidare la durata della guerra fino alla distruzione dell’avversario o porta ad introdurre nuove ipotesi per costruire territori di negoziato e di pace?
  • Il terzo è: se tutte le crisi contengono rischi e opportunità, alla fine del teatro di guerra, questa analisi a quali opportunità ci potrà condurre?

Qualche elemento di argomentazione.

Sono in campo Russia e Ucraina come è noto, ma da un lato con i paesi-satellite e sullo sfondo la Cina. Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti e la NATO e – connessi alla Nato ma con una certa autonomia geopolitica rispetto agli USA – i paesi UE. L’infoguerra – a cui è dedicata la seconda parte del saggio (la prima riguarda l’evoluzione del giornalismo come metaverso) – è un campo in cui hanno principale ruolo coloro che hanno risorse per sapere come riprogrammare l’algoritmo. Tutti sono in questa partita? In cui la UE appare più debole almeno sul controllo dei global player imprenditoriali in grado di reggere la sperimentazione.

Dunque, pare che ci siano problemi, oltre a quelli di una “compattezza friabile” dovuta alla nota condizione costituzionale frammentata dell’Europa.

Il testo ci parla della Svizzera, in cui rintraccia in ambito pubblico la vicenda della agenzia Melani, una sorta di evoluzione del vecchio controspionaggio in una moderna struttura di servizio   per la gestione della conflittualità digitale. Potrei aggiungere – sulla base delle informazioni che ricavo dalla rete europea dei comunicatori pubblici (Club of Venice, che presiedo) – che anche il Regno Unito è evoluto in questo senso. E anche i paesi baltici hanno molta attenzione “di Stato” su queste materie.  Ma, intanto, come si sa, Confederazione Elvetica e Regno Unito ora non sono membri dell’Unione Europea, e, sul resto, ci sono molti annunci ma non è evidente che i livelli di armonizzazione strategica tra i paesi europei possano dirsi ancora “avanzati”.

Guerra o pace?

Resta in agenda, per molti, il quesito se tutto ciò prolunghi la guerra o faciliti condizioni di pace.

L’idea (per quanto poco comprovata) che circola è che non essendo scalfibile l’impalcatura ideologico-identitaria zarista con cui Putin ha scatenato la guerra[4], questa cultura digitale potrebbe scappare di mano alla stessa vecchia cultura spionistica di Vladimir Putin ma non a quella di una nuova leva di generali, formati in epoca di relazioni aperte con il sistema occidentale, che vengono accreditati come gli unici in grado di gestire una deviazione storica del bellicoso percorso in atto. In sostanza l’arma digitale potrebbe diventare un deterrente più forte dell’atomica e potrebbe aver bisogno di ridurre il carattere cruento rispetto al controllo sostanziale della logistica. Alla luce di un consolidato mix teorico-tecnologico-tecnocratico-transnazionale del potere digitale, di cui scrive Mezza, viene da dire se, nelle sue pieghe cioè per meglio dire nelle sue complessità, non si celi una risposta all’interrogativo di Henry Kissinger nel suo saggio Leadership, messo in chiara sintesi nella recensione di Sabino Cassese: “Manca il motore internazionale della pace e sono assenti i rimedi contro le guerre[5].

Un altro aspetto riguarda l’evoluzione della narrativa identitaria che ha visto la Russia arretrare all’età imperiale e l’Ucraina crescere all’età della coscienza nazionale. Fermo restando che gli USA (con il modello svizzero federale) e l’Europa (forse obbligata a riprendere il suo percorso federalista) sono più avanti di entrambi.  

Michele Mezza rintraccia carenza di analisi e di lucidità negli attori in campo presi dalla violenza quotidiana del bollettino dei morti da nascondere. Ma da noi dovrebbe aprirsi un vero dibattito pubblico pilotato dalle università e non dal gossip parapolitico sul destino occidentale in questa trasformazione, per dare risposta al senso dei nostri dibattiti.

Se è vero quello che Mezza scrive e sostiene, che cioè la trasformazione digitale si fonda per definizione sui rapporti sociali e che la filiera civica-amministrativa-territoriale (sindaci, imprese, comunità) non sono soggetti subordinati nell’organizzazione della difesa ucraina, ma snodi vitali,  è chiaro che è aperto un tema di connessione con la stessa architettura sociale dell’Europa e forse anche con quell’abbozzo di de-verticalizzazione che gli stessi russi andavano sperimentando pur nelle convulsioni della caduta del comunismo.  Da un lato tutto ciò entra nell’indagine controversa sull’avvenire della “rivoluzione digitale” rispetto all’autonomia e alla libertà degli esseri umani, ovvero nella trasformazione della vita stessa nel post-simbolico (il sociologo Vanni Codeluppi indica “l’enorme ruolo della dimensione mitologica” – da Guerre stellari in poi – che incide profondamente nella cultura sociale[6]). Qui, cioè nel quadro di questa storia, viene da osservare che il tessuto partecipativo (la forza delle relazioni) entra come una saldatura ora nemmeno citata nell’agenda della pace, fatta salva qualche argomentazione del mondo cattolico, ma che forse è anche una risorsa vitale per chi subisce oggi l’autocrazia delle violenze ed è alla ricerca di un progetto di contenimento se non anche di sconfitta dello schema da “congresso di Vienna” a cui sembra relegata la discussione sulla pace. Una pace che viene narrata sempre nelle mani di pochissimi. Segreta, autoritaria, imperialistica, affaristica.

Forse la “mediamorfosi” di cui ci parla Net-war potrebbe anche nascondere la sorpresa di un’evoluzione delle decisioni dove società, mondo del lavoro e delle imprese, comunità e legami linguistico-identitari, mettono in campo la forza invisibile che noi diciamo spesso appartenere al grande contenitore dell’opinione politica. Una forza ora nel teatro di guerra rintracciabile nella velocità e nella capillarità di circolazione dei processi digitali. Anche se su questo spiraglio di ottimismo serve la controprova di una discussione competente sugli effetti post-traumatici, discussione che forse è appena cominciata.

Per concludere la sua “istruttoria” – con soluzioni ancora necessariamente sospese – Michele Mezza sceglie una citazione di Jeff Bezos, che vuole dimostrare la sua valutazione dannunziana e quindi sprezzante che il “nuovo ordine” esprime rispetto ai fattori costitutivi del Novecento.

La citazione del fondatore di Amazon, che ha acquistato The Washington Post, è questa:

Certo che i giornali resisteranno. Saranno oggetti esotici. Un po’ come avere un cavallo, non si tiene per il trasporto ma perché è bellissimo[7].


[1]Alcuni argomenti di questo articolo sono stati oggetto dell’intervento nelle conclusioni dell’web-seminar dedicato alla discussione del libro di Michele Mezza,  promosso da Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale e da Infocivica-Democrazia Futura, svoltosi il 5 dicembre 2022 con le introduzioni di Leda Guidi, Pieraugusto Pozzi, Michele Magheri e Michele Mezza; e con  gli interventi di Pier Virgilio Dastoli, Mihaela Gavrila, Giampiero Gramaglia, Eugenio Iorio, Giacomo Mazzone e Stefano Rolando.  Anticipato sul mio blog. Cf. https://stefanorolando.it/?p=6896

[2] Michele Mezza – Net-War. Ucraina: come il giornalismo st cambiando la guerra, Con un post scritto di Pierluigi Iezzi, Roma, Donzelli, 2022, VI-226 p.

[3] Stefano Rolando, “Delitto e castigo”. La guerra della Russia di Putin in Ucraina. Informazione, comunicazione e propaganda, parte strategica del conflitto russo-ucraino, Milano, Lumi edizioni universitarie, novembre 2022, 153 p.

[4] A proposito, nessuno ci ricama davvero troppo, non essendo facilissimi i nessi storici, ma i tratti biografici di Boris Godunov – che ha visto la Scala affollatissima per la prima di qussto 7 dicembre 2022 (respingendo al mittente la protesta diplomatica ucraina, inspiegabile anche per i loro fini) – contengono molti elementi di percorso che rendono terribilmente allusiva la trama scritta da Aleksandr Sergeevich Puškin e musicata da Modest Petrovic Musorgskij.

[5] Sabino Cassese, “I leader di tutto il mondo e la difficile arte della pace”, Corriere della Sera, 6 dicembre 2022, con riferimento alla versione italiana del saggio di Henry Kissinger, Leadership. Sei lezioni di strategia globale, Milano, Mondadori, 2022, 600 p. Edizione originale inglese: Henry Kissinger, Leadership: Six Studies in World Strategy, New York, Penguin Press, 520 p.  

[6] Vanni Codeluppi, Mondo digitale, Roma-Bari, Laterza, 2022, 128 p.

[7] Michele Mezza, op. cit alla nota 1, pag. 207