il racconto

Democrazia Futura. Lampedusa e le tende alla Guitgia

di Lucio Saya, regista, sceneggiatore, pittore autore e documentarista |

Un breve racconto per i lettori di Democrazia futura di Lucio Saya, regista e sceneggiatore, su come si presentava agli escursionisti "l'isola di Lampedusa sessant'anni fa".

Lucio Saya

Lampedusa ormai da diversi anni è alla ribalta della cronaca per i motivi che tutti conosciamo. Voglio raccontare invece una Lampedusa diversa, come si poteva trovarla quasi sessant’anni fa.

La prima volta che ci andammo fu verso la metà degli anni Sessanta

Arrivammo in Sicilia percorrendo la costa campana e calabrese, perché non esisteva ancora l’Autostrada del Mediterraneo sino a poco tempo fa nota come Salerno-Reggio Calabria.

Vicino a Messina c’era la casa della mia famiglia paterna. Chiedemmo a tanti amici del posto quale fosse la strada migliore per attraversare l’interno ma nessuno seppe darci indicazioni più precise di qualche “forse…”, “ho sentito dire…”, “potete provare da…”. Avevamo la sensazione di chiedere informazioni sulla pista che porta da Kampala a Nairobi.

Un giorno ci avventurammo nella ‘traversata’ con un caldo feroce. Del resto era agosto.

Verso sera arrivammo a Porto Empedocle e dopo alcune ore di attesa ci imbarcammo per Lampedusa. Salpate le ancore e trascorsa la notte in placida navigazione, dopo undici o dodici ore ci fermammo a Linosa, piccola isola vulcanica immersa nelle acque più cristalline del Mediterraneo.

Salito in coperta per dare un’occhiata vidi un vitello che dondolava imbragato e sospeso ad una gru; mi sembrò della razza Simmental, come quelli sulle scatolette di carne. Pensai che portassero rifornimenti all’isola, ma, con mia meraviglia, risposero che stavano caricandolo sulla nave. Quei vitelli li allevavano a Linosa e ne erano una delle principali risorse ed io che pensavo ad una piccola isola sperduta in mezzo al mare e che viveva di pesca!

Mi dissero poi che l’alimento base di quei bovini era costituito dalle “pale”, cioè le foglie, dei fichidIndia.

Ripresa la navigazione dopo un paio di ore eravamo finalmente a Lampedusa. Vista dalla nave, la prima impressione fu quella di una grande spugna di pietra. A parte qualche basso cespuglio qua e là, non si vedeva nulla che assomigliasse ad un albero.

Messo piede a terra ci avvicinammo alle prime case; c’era poca gente, qualche giovane. Forse il mio stupore fu eccessivo, ma ho anche il vissuto e studiato in Sicilia, ne ho conosciuto buona parte e conoscevo le caratteristiche fisiche e la statura dei siciliani, quindi mi ero aspettato di vedere i lampedusani più bassi e con capelli e occhi ancora più scuri. Invece alcuni di quei giovani, e altri che vidi in seguito, erano alti, avevano capelli più o meno biondi gli occhi verdi.

Prendemmo qualche indispensabile informazione e ci dissero, fra l’altro, che c’era anche un albergo, l’albergo di Raimondo di Malta. Non eravamo interessati ad un albergo, ma ci ripromettemmo di andare a vederlo.

Decidemmo il da farsi e ci allontanammo di alcune centinaia di metri dal paese. Arrivammo così ad una caletta che chiamavano “la Guiccia”, la cui grafia corretta credo sia “Guitgia”. Era il posto ideale per uscire la mattina con la barca. Per di più, a pochi metri dalla riva, c’erano due alberi, un fico e un mandorlo. Erano piuttosto spennacchiati ma sarebbero stati utili per appendere qualcosa ad asciugare e uno specchietto per fare la barba. Sotto la loro scarsa ombre piantammo le tende.

C’era anche, vicino ad una palma non proprio rigogliosa, una minuscola casa colonica. Adocchiammo subito qualcosa che ci sarebbe stata preziosa: un pozzo con l’acqua. E questo pozzo si trovava nel bel mezzo di un vigneto, di quell’uva con cui si producono la Malvasia e il Passito.  Così chiedemmo al contadino della piccola casa se potevamo tirare su qualche secchio d’acqua e prendere qualche grappolo d’uva. Fu molto gentile a dire di si.

Avevamo risolto in un colpo solo il problema dell’approvvigionamento idrico e della colazione del mattino che sarebbe stata a base di uva dorata.

Ci accordammo poi con un pescatore. Tutte le mattine veniva a prenderci con la sua barca alla Guiccia e ci riportava a terra all’imbrunire. Il pesce che si mangiava era sempre freschissimo.

In quegli anni la pesca subacquea era molto seguita e praticata. Campionati italiani e campionati del mondo erano svolti nelle acque delle Tremiti, di Ustica, delle Eolie, eccetera. Mi dissero che da Lampedusa erano passati alcuni campioni mondiali di questo sport come Carlo Gasparri dell’Elba, il napoletano Massimo Scarpati o Arturo Santoro delle Tremiti.

Spesso dopo cena, strimpellando la chitarra seduti su qualche muretto, si cantavano soprattutto cose del folklore siciliano e salentino, repertorio dovuto alle nostre origini. Qualche volta si accendeva un fuoco ed era piacevole perché la sera rinfrescava e l’umidità si faceva sentire.

Durante uno di questi ristretti concerti intorno al fuoco, dal buio emersero alcuni ragazzi (alti, biondi, eccetera) e si unirono a noi. Poi uno di loro chiese la chitarra e ascoltammo canzoni popolari in versioni differenti da quelle che conoscevamo, ma anche canzoni che non conoscevamo affatto, e ne prendemmo nota.

Tornarono a trovarci altre sere i ragazzi dagli occhi verdi.

Come ci eravamo ripromessi, una volta abbandonammo le nostre tende e la nostra cena a base di pesce e andammo a cenare nell’albergo di Raimondo di Malta. Anche lì mangiammo dell’ottimo pesce!

Raimondo era un personaggio singolare e, con il lodevole intento di far divertire gli ospiti, riusciva a fare delle incredibili smorfie e a roteare gli occhi col risultato di alterare completamente la fisionomia del viso.

In quel tempo aveva un gran numero di affezionati lettori la rivista Mondo Sommerso.  La pubblicazione di un paio di articoli sulle sue pagine diede a Raimondo una certa notorietà, facendone un personaggio di Lampedusa.

La sala da pranzo del suo “Albergo” non era molto grande, aveva dei pesanti e polverosi tendaggi tutti intorno alle pareti, e pochi tavoli rotondi ognuno dei quali poteva ospitare cinque o sei persone.

Prendemmo posto a un tavolo qualsiasi, tanto erano tutti liberi, e quando si riuscì, utilizzando numerose “zeppe”, a dargli un’approssimativa stabilità, Raimondo e le sue smorfie ci servirono la cena. Avevamo deciso di tentare anche un pernottamento. Così salimmo al piano superiore, cioè in terrazza, e su questa si affacciavano le tre porte delle tre camere dell’albergo, in ogni camera c’erano due letti, o meglio due reti con materassi e relativi cuscini, e un tavolino.

Durante i preparativi per la notte uno di noi, forse per migliorare l’aerazione vista l’assenza di finestre, decise che il letto non stava bene dov’era. Lo spinse sul lato opposto della stanza tentando ostinatamente di farcelo stare, ma il letto, altrettanto ostinatamente, scivolava verso la posizione iniziale. Feci da spettatore ad alcuni tentativi poi condussi l’amico sulla terrazza; si camminava come sulla coperta di una barca a vela che navigasse un po’ sbandata. Tutta la costruzione era leggermente inclinata

Il mattino successivo tornammo alle nostre tende, alla nostra colazione con grappoli di zibibbo e alla nostra barca.

Qualche sera si andava in paese. Seduti sulla soglia o sui gradini della propria casa c’erano sempre vecchi pescatori che riparavano delle reti e ascoltavamo le loro avventure di pesca o alcune personalissime interpretazioni della storia dell’isola. C’erano anche delle donne che cucivano o ricamavano.

Chi conosce Lampedusa saprà che via Roma, già da molto, è tutto un susseguirsi di Caffè, Ristoranti, Pub, Boutiques e Gelaterie. Ma allora era solo tranquillità.

La vera “attrazione “la trovavi proprio in via Roma, la strada principale del paese. Si trattava di un bussolotto di legno che esibiva la scritta “Pane e Panelle lire 100”.

Alla nostra richiesta una signora ci sorrise e tirò fuori le Panelle, cioè delle specie di piadine, le condì con un filo d’olio, un pizzico di sale, una spolverata di origano, e continuammo a passeggiare in via Roma addentando ogni tanto le panelle.

Un posto davvero unico era l’Isola dei Conigli, che poi è un’insenatura con una delle spiagge più belle del mondo, sabbia corallina bianchissima che non scotta mai.

Davanti all’insenatura, dall’acqua cristallina, emerge un grosso scoglio (e non chiamatelo scoglione… è vecchia!) e forse proprio da questo deriva il nome Isola dei Conigli.

A questa spiaggia, tra giugno e agosto, erano solite dirigersi le tartarughe per deporre le uova. Per la precisione si trattava delle Caretta Caretta. Rimasi di stucco così tanto da non riuscire a dare la risposta che avrei voluto e dovuto a un giovane indigeno quando mi raccontò che lui e suoi amici si divertivano un mondo a cercare “con i remi della barca” i nidi della sabbia e a romperne le uova una volta individuati. Ma anche se avessi trovato le parole, sarebbe servito a qualcosa spenderle?

Facemmo l’immancabile foto ricordo a Punta ‘O Spada, o punta pesce spada, davanti al blocco di pietra con lapide che indica il punto più meridionale d’Italia.

E in quegli anni Sessanta tornammo ancora nell’isola.