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Democrazia Futura. La minaccia dell’autonomia differenziata all’arte e al paesaggio italiano

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in storia contemporanea |

Democrazia futura presenta un'articolata analisi di Giulio Ferlazzo Ciano di denuncia de "La minaccia dell'autonomia differenziata all'arte e al paesaggio italiani" che - come recita l'occhiello "rischia di produrre danni gravi e irreversibili al patrimonio storico e artistico della nazione".

Giulio Ferlazzo Ciano

“Soprintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia» è una frase scritta in un pamphlet pubblicato nel 2012, e in seguito anche pronunciata, dal ben noto uomo politico italiano che un altrettanto ben noto direttore di giornale per sua cautela da qualche tempo chiama l’Innominabile[1]. E Innominabile, per cautela, sebbene certamente riconoscibile, sarà definito anche in queste righe. Un altrettanto nota sodale dell’Innominabile rincarò la dose nel 2016 con la proposta addirittura di abolire le soprintendenze. È interessante il contesto quando questo avvenne. Si trattava della puntata di Porta a Porta del 16 novembre 2016, a ridosso della consultazione referendaria convocata per confermare o rigettare l’ultimo organico progetto di riforma costituzionale tentato in Italia. Tra gli ospiti della trasmissione, oltre alla sodale dell’Innominabile, vi era il noto comunista padano, al secolo Matteo Salvini.

Stando a chi si impegnò a trascrivere sprazzi di dialogo[2], su questo punto ci fu un’inconsueta convergenza di idee e obiettivi. Disse il comunista padano: «ci sono alcuni organismi statali che vanno rivisti, e io aggiungo qualcosa di più, cancellati: soprintendenze e prefetture. Ufficio complicazioni cose semplici! Soprintendenze e prefetture […] Se lo Stato vuole dimagrire, vuole snellire, vuole esser più veloce, vuole semplificare, inizi a cancellare qualcosa». Replicò la sodale dell’Innominabile sulle stesse note: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. […] Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo, diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto, ma il 4 dicembre votiamo a un referendum su questa riforma costituzionale”.

Apologia della soprintendenza

È vero che soprintendente e, per estensione, soprintendenza, è una delle parole più brutte di tutto il nostro vocabolario? Sostenerlo, pur al netto delle sempre più evidenti inefficienze di tali uffici, vorrebbe dire ignorare cosa le soprintendenze hanno significato per la salvaguardia e la conservazione di quel patrimonio diffuso del nostro Paese rappresentato non solo dai beni artistici e storico-culturali in senso stretto (edifici monumentali laici e religiosi, siti archeologici, musei, archivi e biblioteche), ma anche e forse ancor più significativamente dall’architettura vernacolare[3] e dal paesaggio urbano e rurale nel quale questi beni si inseriscono e si armonizzano con l’ambiente che li circonda. Sarebbe utile riflettere sul fatto che qualsiasi bene storico, artistico o architettonico privato dell’originario contesto urbano o rurale (perché oggetto di stravolgimento o di degrado) finisce a sua volta per essere mutilato, ridotto a muto testimone delle devastazioni provocate dalla combinazione di irresistibili interessi economico-speculativi, impoverimento culturale della popolazione e generale deterioramento del senso estetico. Un testimone mantenuto in vita e magari persino tirato a lucido per dimostrare ipocritamente che le istituzioni si prendono davvero cura del patrimonio storico e artistico della nazione.

Questo fortunatamente non è avvenuto in Italia, o per meglio dire è avvenuto solo parzialmente e in determinati momenti storici del suo recente passato, proprio grazie all’invenzione di questo necessario e benemerito ufficio a cui tutti gli italiani dovrebbero riservare rispetto e anche un po’ di affetto. Se possiamo ancora oggi passeggiare nei centri storici delle nostre cento città e dei tanti centri minori con dignità urbana senza dover incappare in stravolgimenti dettati dal desiderio di qualche amministratore pubblico di apportare significativi cambiamenti che esaltino il progresso e la tecnica a spese del nostro passato (al netto delle aree devastate dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale), lo dobbiamo in gran parte proprio a queste rompiscatole di soprintendenze che hanno evitato, dove possibile, di lasciare che il Paese virasse in direzione di una visione estremamente selettiva della tutela del patrimonio storico-artistico, salvaguardando solo i monumenti e sacrificando tutto ciò che li circonda.

Il prezzo di tale approccio per noi cittadini è costato senz’altro tempo perso per la richiesta di permessi poi magari negati, il sensibile aumento dei costi di restauro di immobili vincolati, talvolta il pagamento di contravvenzioni e il sottostare a obblighi di ripristino, più in generale è costato la riduzione della libertà di scelta in merito a decisioni che riguardano il personale gusto estetico di ciascuno. Però possiamo dirlo, al netto delle noie e dei disagi, ne è valsa e ne vale tuttora la pena. Certamente le soprintendenze soffrono per la mancanza di organico e di risorse economiche, per leggi di semplificazione burocratica che rendono impossibile esprimere per tempo il loro parere vincolante e, al contempo, per le sempre più rigide procedure e le imperscrutabili logiche burocratiche che le ispirano, per le non sempre valide promozioni ai vertici di quegli uffici da parte del ministero, producendo quindi nel tempo tutto ciò i consueti frutti avariati dell’inefficienza e dell’ipertrofia burocratica che tanto bene noi italiani conosciamo. Eppure vale la pena di conservarle queste soprintendenze, queste sentinelle della bellezza e della nostra identità culturale.

Breve storia della tutela del patrimonio storico e artistico italiano

Senza voler andare troppo nel dettaglio, si ricorderanno alcune tappe fondamentali nella storia di questa istituzione, che è bene conoscere per poterla ancor più apprezzare[4]. E bisogna partire menzionando un grande italiano, Giovanni Battista Cavalcaselle (1819-1897), nativo di Legnago in provincia di Verona, studente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ma probabilmente, a dispetto del suo dichiararsi artista fino a tarda età, decisamente più abile e acuto critico e storico dell’arte. Colto dal desiderio di scoperta e dallo spirito di avventura, abbandonò l’accademia e con i denari rimasti intraprese viaggi in giro per il Veneto e poi per l’Italia, andando a piedi da un paese all’altro con il classico involto contenente ciò che gli era necessario portare con sé infilato ad un bastone che portava a spalla e frattanto, come recita la voce a lui dedicata sul Dizionario Biografico degli Italiani, «visitava chiese, pinacoteche pubbliche e private, palazzi e conventi, scoprendo un’infinità di opere d’arte inedite, che riportava in schizzi su quaderni di viaggio o su fogli sparsi, e documenti che diligentemente trascriveva»[5].

Tale attività di inventariazione e di studio, proseguita da esule in Germania e in Gran Bretagna, valsero il 18 aprile 1861 al Cavalcaselle la nomina, per mano di un altro grande italiano, Francesco De Sanctis, allora ministro della Pubblica Istruzione del neocostituito Regno d’Italia, di inviato speciale per conto del governo nelle province umbre e marchigiane appena annesse, al fine di catalogare opere e oggetti artistici conservati in collezioni private o in strutture ecclesiastiche, onde evitare che queste fossero alienate da proprietari ed ecclesiastici senza scrupoli ad antiquari ed istituzioni museali straniere, complice il momento di parziale vuoto istituzionale prodotto dal cambio di regime che favoriva tali transazioni[6]. Assieme a Giovanni Morelli, anch’egli nominato inviato speciale, storico dell’arte veronese e suo compagno di viaggio durante quei 68 giorni di febbrile attività, compilò un “Catalogo degli oggetti d’arte delle Marche e dell’Umbria”, primo degli scritti che il Cavalcaselle fornì al ministero della Pubblica Istruzione per consigliare i modi più adatti alla conservazione di monumenti e opere d’arte. Consigli che tuttavia non produssero nell’immediato i risultati sperati.

Tuttavia era questione di tempo e lentamente andò prendendo forma la struttura che oggi conosciamo di tutela del patrimonio storico-artistico, così rilevante da essere riconosciuta dalla stessa Costituzione repubblicana, nella parte relativa ai Principi fondamentali, all’articolo 9: «La Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». E lo fa attraverso la struttura ministeriale apposita (un tempo il Ministero della Pubblica Istruzione, dal 1974 il neoistituito Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, dal 2021 ridenominato un po’ infelicemente Ministero della Cultura) che opera sul territorio con i suoi organi e strutture decentrate che ne sono diretta emanazione, tra cui le “famigerate” soprintendenze. All’alba del XX secolo, «contestualmente al regolamento della legge Nasi del 1902, prende corpo la tipica organizzazione delle soprintendenze, articolate su base regionale o interregionale, con specializzazione settoriale delle competenze, che resterà un punto fermo della nostra Amministrazione»[7]. Ormai già in piena età giolittiana il Regio Decreto n.431 del 1904 istituì 29 soprintendenze, che con la legge n.386 del 1907 divennero 47 (suddivise tra Soprintendenze ai monumenti; agli scavi ed ai musei archeologici; alle gallerie, ai musei medievali e moderni ed agli oggetti d’arte), per poi essere ridotte, con l’avvento del Ventennio fascista, a 25 (poi a 28) in base al Regio Decreto n.3164 del 1923.

Questa relativa contrazione (pur a fronte di annessioni territoriali) era tuttavia una breve parentesi, dovuta più che altro a ragioni di bilancio che spingevano a favore di uno snellimento amministrativo. Il vento tornò però a spirare a vantaggio delle soprintendenze e di una concezione della tutela di stampo conservativo che puntava a preservare e tutelare non solo i monumenti, ma l’intero contesto storico-paesistico che facesse loro da corona. Questo avvenne a partire da quando Giuseppe Bottai assunse l’incarico di ministro dell’Educazione Nazionale, nel 1936. Pochi anni dopo da quel ministero furono emanati i testi sacri della legislazione italiana in tema di tutela dei beni culturali e del paesaggio urbano, rurale e naturale: si tratta delle leggi n. 1089 e n. 1497 del 1939, denominate rispettivamente “per la tutela delle cose di interesse artistico e storico” e “per la tutela delle bellezze paesistiche”. Naturalmente tale complesso di tutele necessitava di organi periferici adatti alla vigilanza e al controllo e lo trovò nelle già esistenti soprintendenze, che con la legge n.823 del 1939 furono accresciute da 28 a 58, distinte in tre classi e con territori di competenza ristretti, più facilmente sottoponibili a vigilanza.

Nel secondo dopoguerra sono intervenuti nuovi fattori di natura istituzionale, fra gli altri la nascita delle regioni a statuto speciale, che hanno assunto competenze in materia di tutela dei beni archeologici, architettonici e storico-artistici, cosa che ha comportato «il trasferimento di alcune soprintendenze statali a questi enti»[8], ma anche la già citata iscrizione in Costituzione del principio della tutela statale nei confronti del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (art. 9 Cost.). La legge n.1264 del 1961 apportò un riordino ulteriore di questi organismi che crebbero in totale a 66, mentre un regolamento (DPR n.805 del 1975), ultimo di questi ritocchi significativi, le distinse in tre gruppi: soprintendenze archeologiche; per i beni artistici e storici; per i beni ambientali e architettonici.

Il ministro Franceschini e la “grande rivoluzione”

Che poi l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini (costui invece va nominato a imperitura memoria e disdoro) le abbia ridotte, così come riferito nel 2016 dalla sodale dell’Innominabile e così come recita la conversione in legge del decreto n.83 del 2014, è un segno dei tempi poco felici che corrono. L’ineffabile André Malraux ferrarese che volle farsi ministro della Cultura come il suo omologo francese (ben altra statura intellettuale per il ministro della Cultura di Charles de Gaulle), in virtù di una maggiore aderenza alle necessità di una radicale spending review semplificò la struttura delle soprintendenze, accentrando quelle archeologiche e quelle miste (belle arti e paesaggio), considerate mere articolazioni della Direzione centrale, e accorpandole fra loro, riunendo così le soprintendenze per i beni artistici e storici a quelle per i beni ambientali e architettonici[9]. All’epoca si riuscì con abilità a girare la frittata dichiarando ai quattro venti l’avvento di una “grande rivoluzione”, definita dalla valorizzazione dei musei e dell’arte contemporanea, dal rilancio delle politiche di innovazione e formazione e dal taglio delle figure dirigenziali. Fumo negli occhi.

Rimane il dubbio, stando alla scarsa simpatia per l’istituto della soprintendenza in quanto tale, dimostrata dalla allora compagna di partito di Franceschini durante la puntata di “Porta a Porta”, che la “grande rivoluzione” si riferisse soltanto ai tagli di spesa e a un generale disinteresse per quella cospicua porzione di patrimonio storico, artistico, architettonico e paesistico non in grado di generare ricchezza materiale in modo diretto e relativamente immediato. Come interpretare altrimenti quel «io sono d’accordo, diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole…lavoriamoci dal giorno dopo» pronunciato da costei quella sera del 16 novembre 2016 nel candido salotto buono di Bruno Vespa? E cosa le avrebbero detto i fantasmi di Cavalcaselle o di Bottai se si fosse materializzati in quel momento?

Nuove nubi all’orizzonte: l’autonomia differenziata

Fortunatamente per ora le soprintendenze non sono state abolite o svuotate di qualsiasi autorità. È bene tuttavia rimarcarlo: per ora. Un nuovo pericolo, infatti, aleggia sulle loro esistenze. Fermo restando le eterne e immutabili difficoltà di bilancio per le istituzioni della nostra Repubblica che potrebbero portare a futuri nuovi tagli e nuovi accorpamenti, si intravede un altro pericolo ben più concreto e ravvicinato stagliarsi all’orizzonte: l’autonomia differenziata. Come si sa la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione della Repubblica Italiana, attuata con legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001, ha innovato la materia in fatto di rapporto fra Stato, regioni e autonomie locali; complicandola ulteriormente. E rendendo più vulnerabile la struttura di tutela statale del nostro patrimonio storico, artistico e paesistico.

Andando direttamente a leggere sul testo della Costituzione, la nuova versione dell’articolo 116, terzo comma, recita:

“Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.”

È su queste basi costituzionali che si è reclamata l’autonomia differenziata e se ne è disciplinata la materia. Ora, andando a leggere nel dettaglio il dettato costituzionale, si dice quindi che le materie «oggetto di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» sono indicate dal terzo comma dell’articolo 117 e da alcune lettere del secondo comma del medesimo articolo. È bene premettere che il lungo e verboso articolo 117 ripartisce la materia in tre parti, suddivise fra il secondo, il terzo e il quarto comma. Nel secondo sono elencate le materie di “legislazione esclusiva” dello Stato; nel terzo le materie di “legislazione concorrente” fra Stato e regioni; nel quarto tutte quelle materie non espressamente citate nei due commi precedenti. Partiamo quindi dal terzo comma. Relativamente a ciò che interessa mostrare in questo articolo, rientra nel capitolo di “legislazione concorrente” fra Stato e regioni, e che potrebbe essere attribuita alle regioni, la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali».

Tra valorizzazione e tutela del patrimonio storico, artistico e paesistico

Valorizzazione è fortunatamente diverso da tutela, sebbene i confini non siano nettamente definiti. Eppure si può senz’altro affermare, stando anche al dibattito che interessò i costituenti, che la tutela «non è emergenziale, ma sistematica e preventiva, e ha l’obiettivo di rendere sicuro il patrimonio e di consegnarlo inalterato alle generazioni future»[10], e che inoltre l’espressione «la Repubblica tutela» ricorre quattro volte nel testo costituzionale, a favore delle minoranze linguistiche, della salute, del lavoro e, giustappunto, del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. «In tutti questi casi la parola “tutela” significa che la Repubblica interviene perché sa bene che, lasciate ai rapporti di forza economici e sociali, queste “cose” tra loro molto diverse, ma accomunate dall’essere vitali per la coesione della comunità nazionale, sarebbero destinate a soccombere»[11].

Secondo l’estensore del testo prima citato, lo storico dell’arte Tomaso Montanari, la storia del concetto di tutela del patrimonio culturale è riscontrabile persino all’interno della storia della letteratura artistica. Nel 1519 papa Leone X aveva assegnato a Raffaello Sanzio il compito di attuare una campagna di rilevamento e di disegno delle antichità romane. Compiuta l’opera, Raffaello, pare aiutato da Baldassarre Castiglione, indirizzò una lettera al pontefice con la quale lo esortò ad aver cura e tutelare «quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana» rivolgendosi ai suoi predecessori come “tutori” che avrebbero dovuto difendere le reliquie del passato di Roma. In tempi a noi più recenti, le già citate leggi Bottai del 1939 hanno introdotto il principio della “tutela” come termine cardine della protezione, da parte dello Stato, del patrimonio storico, artistico, architettonico e paesistico del Paese[12].

Diverso è invece il significato del termine “valorizzazione”. Sempre secondo Tomaso Montanari, non senza una certa fondatezza, quando negli anni dell’impetuoso sviluppo economico del secondo dopoguerra hanno iniziato a dispiegarsi in tutta la loro forza le pressioni del mercato, si è parlato «di una presunta “staticità” della tutela, e per correggerla si è dato vita alla categoria della “valorizzazione”»[13]. Nel concreto tuttavia poco e nulla si poteva dire in merito al significato giuridico di quella parola, ma dalla lettura degli atti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, voluta nel 1964 dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui e presieduta dal deputato democristiano Francesco Franceschini «si capisce che il termine alludeva allora agli interventi, della più diversa natura, utili ad accrescere il pubblico godimento del bene culturale»[14].

In che modo lo spiegò più nel dettaglio nel 1985 Gianni De Michelis, il quale, nella veste di ministro del Lavoro del primo governo guidato Bettino Craxi, intervenne ad un convegno fiorentino organizzato dal PCI e denominato Valorizzazione del patrimonio storico artistico. In quella sede il politico socialista spiegò che «le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno mai, finché non viene evidenziata la valorizzazione economica. Le risorse non si avranno infatti mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione; solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica, diventa possibile una operazione le cui risorse possono essere destinate alla sua conservazione». Pare che in quello stesso consesso lo storico dell’arte Giovanni Previtali avesse affermato come a suo dire fosse partito «il treno della mercificazione dei beni culturali»[15].

Ciò che più preme far notare è che fu proprio in quegli anni, al di là delle posizioni ideologiche o dell’approccio più o meno acritico nei confronti dell’ideologia liberista, che maturò l’idea dello sdoppiamento fra tutela (protezione) e valorizzazione (fruizione economicamente redditizia) dei beni culturali e del paesaggio. Tale sdoppiamento trovò infine uno sbocco giuridico proprio nella riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, all’articolo 117 di cui si accennava poco prima, nel quale la scissione fra tutela e valorizzazione è sancita dalla stessa carta fondamentale. Ora, che si abbia o meno una visione smaliziata nei confronti della valorizzazione o che la si accetti, è indubbio che non possa esistere valorizzazione se a monte manca la tutela. A meno che non si accetti l’idea di una tutela ristretta a una lista di beni culturali vincolati senza troppo curarsi del contesto.

E il contesto, da un punto di vista economico, ha un valore potenziale enorme. Significa per il comparto dell’edilizia la possibilità di liberare le forze del mercato in un settore rimasto per decenni compresso dai vincoli imposti dalle esigenze di tutela. Significa, più concretamente, la possibilità di attuare, con minime limitazioni, sostituzioni edilizie (gergo tecnico per indicare le demolizioni e ricostruzioni) o pesanti ristrutturazioni e ammodernamenti nei centri storici o nelle aree residenziali urbanizzate fra Ottocento e Novecento; la possibilità di modificare a piacimento architetture vernacolari non espressamente vincolate; significa, in breve, la possibilità di fare liberamente tutto ciò che oggi è molto difficile mettere in atto proprio grazie alla tutela, esercitata dallo Stato attraverso le soprintendenze, sul patrimonio storico, architettonico e paesistico.

I rischi legati al trasferimento alle regioni della tutela

Si obietterà che il terzo comma dell’articolo 117 cita soltanto la valorizzazione come ambito della legislazione concorrente che potrebbe passare dallo Stato alle regioni. Ma si ricorderà anche che l’articolo 116 recita che «le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo [il 117] alle lettere l),[…] n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni». E queste materie sono l’oggetto del contendere nell’odierno negoziato portato avanti dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli. La bozza della legge quadro presentata lo scorso novembre 2022 dal ministro prevede infatti di attribuire alle regioni tutte le materie previste in quel secondo comma dell’articolo 117. Si tratta in concreto, alla lettera l, dell’organizzazione della giustizia di pace, alla lettera n, delle norme generali sull’istruzione, ovvero il capitolo sulla scuola che sta provocando qualche timore e malumore, nonché infine, alla lettera s, quello che a livello mediatico è definito molto stringatamente “ambiente” e che nel testo costituzionale è indicato invece più ampiamente in «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali».

Tutela dei beni culturali, proprio così. La tutela fino ad oggi esercitata dal vecchio ministero per i Beni Culturali e Ambientali (oggi della Cultura) passerebbe dunque a tutte le regioni. Con le conseguenze che qualsiasi persona di buon senso può immaginare: 20 sistemi diversi e differenziati di tutela, 20 piccoli governi regionali sottoposti all’influenza di gruppi di pressione legati prevalentemente al settore dell’edilizia (ma non soltanto, non escludendosi interessi legati al settore dell’agricoltura intensiva e della produzione di energie rinnovabili, dall’eolico al solare) che potrebbero spingere le giunte regionali (anche con la sola leva elettorale, ma non escludendo neppure metodi meno ortodossi e poco legali) ad abbassare i livelli minimi di tutela con il conseguente rischio di andare incontro a una crescente smania costruttivista che potrebbe portare nel giro di qualche decennio a veder attuare veri e propri sfregi e danni irreversibili al paesaggio urbano e rurale storicamente consolidato. Paesaggio che è arrivato quasi integro fino al 2022, al netto dei danni prodotti dal secondo conflitto mondiale, dalla ricostruzione sbrigativa e qualitativamente scadente, dai terremoti e dalle frane, nonché dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo.

I pregi della via italiana alla tutela, quasi un unicum nel mondo

Paesaggio urbano e rurale che rappresenta quel contesto originario, segnato dall’incedere del tempo, nel quale si inseriscono i beni archeologici, artistici e architettonici singolarmente vincolati. Paesaggio urbano e rurale nel complesso sopravvissuto (pur con numerose eccezioni) alla speculazione del boom economico, alle ambizioni di ammodernamento architettonico di sindaci e amministratori pubblici, alla pessima pianificazione urbana e allo stesso abusivismo edilizio. Tale contesto di alto valore è la cifra che definisce la via italiana alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Chiunque abbia viaggiato un minimo avrà notato come, con le uniche lodevoli eccezioni della Francia e parzialmente del Portogallo, tale principio non sia stato seguito in quasi nessun’altra nazione del mondo.

Rimanendo all’Europa, si consideri il Regno Unito. In quel Paese la libertà di impresa e lo sviluppo economico possono avere la precedenza su qualsiasi altra considerazione. Un giro per le strade della City di Londra, ormai trasformata in un’avveniristica città di acciaio e superfici specchiate, può dare l’idea. Le sostituzioni edilizie, fin dentro il perimetro degli historic district, a danno di edifici non espressamente iscritti in liste di immobili tutelati (il sistema dell’iscrizione di pochi e specifici edifici e monumenti in liste di tutela è il più diffuso nel mondo; gli edifici esclusi possono essere in qualsiasi momento sostituiti) sono un fenomeno abbastanza normale a cui la gente ha fatto l’abitudine. Basta una passeggiata a Londra o in qualsiasi altra città o centro minore del Regno Unito per rendersene conto.

Si consideri poi la Spagna, la nostra sorella latina, dove il disinteresse dello Stato a tutelare il patrimonio storico e architettonico del Paese (con la consueta eccezione dei monumenti iscritti in apposite liste), sia negli anni del regime franchista, così come negli anni successivi al varo della costituzione democratica liberale del 1978, quando tale ambito è stato delegato alle comunità autonome (corrispettivo spagnolo delle regioni), ha prodotto risultati di assai dubbio valore e a macchia di leopardo, con città e centri minori di fatto sfregiati da pluridecennali speculazioni e sventramenti. Un esempio su tutti: Valladolid, città in gran parte risparmiata dalla guerra civile, ma vittima dal 1938 e per i decenni successivi del Plán Cesar Cort. Maun destino non molto migliore è toccato, generalmente parlando, a quasi tutti i capoluoghi di provincia della Spagna e a molti centri minori, blandamente protetti da commissioni regionali che esprimono tuttavia pareri non vincolanti. Certamente tale scempio non lo si avverte a Madrid e solo parzialmente a Barcellona, entrambe città dove la buona se non ottima qualità dell’edificato storico è tale da non avere richiamato su di esso, se non in minima parte, il desiderio di speculazione.

Ma chiunque abbia frequentato la Spagna avrà senz’altro notato come siano diffusi, camminando nelle strade di un qualsiasi casco histórico, i vuoti prodotti dalle demolizioni di immobili vetusti, con le pareti degli edifici adiacenti stabilizzate da una sostanza che ad occhio non esperto ricorda, nella forma e nel colore, dell’argilla ocra. Avrà notato come sia ormai molto raro imbattersi in centri minori non intaccati, più o meno pesantemente, dalla modernità e che quei pochi rimasti (di indubbio fascino e tirati a lucido come dei gioiellini, per esempio Albarracín, in Aragona, o La Alberca, nel León) siano di fatto tutelati da leggi speciali di preservazione pensati ad hoc per il singolo caso. Proprio quello che si dovrebbe evitare da noi dove non esistono singoli casi, ma esiste una bellezza diffusa abbastanza ben distribuita (e discretamente preservata) sull’intero territorio nazionale.

Si prenda infine in considerazione il caso di un Paese a noi confinante, la Svizzera. E di una piccola città della Svizzera profondamente italiana per geografia, lingua e cultura: Lugano. Qualcuno che l’abbia vista fotografata o l’abbia visitata quaranta o cinquant’anni fa saprebbe riconoscerla oggi? Il centro storico deturpato quasi ovunque da costruzioni moderne, giunte ormai anche sulle rive del lago; al di fuori del centro una teoria di villini neoclassici, eclettici e liberty ormai quasi del tutto scomparsi, demoliti e sostituiti da anonimi complessi residenziali o finanziari ispirati allo stile brutalista o, se più recenti, al design più avveniristico. In ogni caso la vecchia e caratteristica città lacustre non c’è più e non tornerà mai più. A differenza della vicina Como, in territorio italiano, che invece si è salvata, almeno per ora, e presenta un volto di qualità più autentico nel suo centro storico e nelle espansioni più moderne, otto-novecentesche, ad esso adiacenti.

Perché la tutela deve rimanere allo Stato

Sono questi i modelli di “tutela” a cui ci si avvicinerà in futuro il nostro Paese? Si obietterà che in Italia in ogni caso esiste il Codice dei beni culturali e del paesaggio[16], che garantisce dei livelli minimi di tutela per tutto il territorio nazionale, e che finora i peggiori guasti sono giunti semmai dalla pessima pianificazione urbana negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, dal selvaggio abusivismo edilizio e dai condoni che hanno legalizzato parte di quell’abusivismo a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Tutto vero, ma in verità un caso da prendere in considerazione perché esemplare di ciò a cui si potrebbe andare incontro c’è: la provincia autonoma di Bolzano. Per comprendere come il caso dell’Alto Adige possa esistere si deve tenere conto che in effetti lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’articolo 3, prevede espressamente che non solo lo Stato, ma siano anche le regioni e gli enti locali gli strumenti che «assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione», mettendo pertanto insieme tutela e valorizzazione e consentendo che l’esercizio della tutela sia affidata persino agli enti locali, attuando quello che lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha definito «un flagrante tradimento dell’art. 9» della Costituzione[17]. Dettato costituzionale che, in effetti, stabilisce che sia la Repubblica a tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione, e non la regione o un qualsiasi altro ente locale.

E non si tratta di un mero dettaglio o di un enunciato che si presta a una lettura doppia (per esempio che le regioni stesse sono parte della Repubblica), perché la volontà di affidare al solo Stato centrale la protezione del nostro patrimonio storico, artistico e paesistico si riflette negli atti dell’Assemblea costituente e negli interventi di singoli autorevoli membri dell’Assemblea volti a precisare il significato degli articoli e a proporre eventuali modifiche[18]. Come nel caso di Tristano Codignola (gruppo parlamentare Autonomista), il 30 aprile 1947:

“Si tratta di garantire allo Stato che il patrimonio artistico del Paese sia sotto la sua tutela, sia cioè vincolato allo Stato. […] Tutti noi sappiamo che questo ordinamento regionale, se esteso a certe materie, tra cui anche quella delle belle arti, può diventare un esperimento molto pericoloso”.

O come nel caso dell’illustre latinista Concetto Marchesi (gruppo parlamentare del PCI), che si espresse in quella stessa giornata in questo senso:

“Io ho proposto quell’articolo [l’attuale articolo 9, originariamente articolo 29], accettato con voto unanime dalla Commissione, nella previsione che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale. È vano che io ricordi ai colleghi che l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”.

Ed infine nel caso del valente architetto Florestano Di Fausto (gruppo parlamentare della DC), che intervenne il 4 giugno 1947 per convincere i colleghi dell’Assemblea a respingere (come poi avvenne) la proposta, originariamente contenuta negli articoli 109 e 111 della Costituzione, di affidare alle regioni una forma pur blanda di potestà legislativa in fatto di patrimonio architettonico e artistico:

“Concludendo, chieggo la soppressione delle voci «urbanistica» dall’articolo 109 e «antichità e belle arti» dall’articolo 111 del Progetto di Costituzione, confermando il senso dell’articolo 29 [poi divenuto l’attuale articolo 9] già approvato: che la tutela del patrimonio artistico resti integralmente nell’ambito dell’ordinamento nazionale”.

Il caso della legge provinciale di Bolzano

Vediamo ora cos’è successo nella provincia autonoma di Bolzano, con poteri autonomi parificati a quelli di una regione a statuto speciale. Il Consiglio provinciale ha approvato il 10 luglio 2018 la legge provinciale n.9, entrata in vigore il 1° luglio 2020 e definita “Territorio e Paesaggio”. La legge è nata apparentemente con un intento molto virtuoso e molto sentito, sia dalla pubblica opinione che dai circoli ambientalisti: porre fine al consumo di suolo. A riprova che le strade per l’inferno sono lastricate di buone intenzioni e che il diavolo si nasconde nei dettagli, si darà conto di qualche dettaglio per mostrare come la legge si sia di fatto occupata (e anche malamente) di questioni che riguardano la tutela del patrimonio artistico, architettonico e del paesaggio (rurale, ma anche urbano), demandata allo Stato in base alla Costituzione.

Tanto per complicare le cose, la legge è composta di 101 articoli suddivisi in numerosi commi a loro volta suddivisi per lettere; una vera e propria selva oscura che permette di trovare tutto e il suo esatto contrario. Seguendo in ogni caso un filo logico, l’articolo 86, comma 1, stabilisce che «Il Comune esercita la vigilanza sull’attività di trasformazione del territorio comunale» e che, comma 2, «Ferma restando la competenza generale del Comune di cui al comma 1, spetta alla Provincia: a) la vigilanza sulle attività di modifica dei beni paesaggistici», dunque non allo Stato e al Ministero della Cultura attraverso i suoi organi territoriali. Il comune vigila attraverso un organo di supporto denominato Commissione comunale per il territorio e il paesaggio, il quale, stando all’articolo 4, comma 1, opera «nella valutazione dei piani e progetti per interventi di trasformazione urbanistica e paesaggistica del territorio comunale», decidendo anche in merito ai progetti di singoli edifici.

Il comma 2 specifica che a far parte della Commissione è chiamato lo stesso sindaco (fenomenale caso di conflitto di interessi, dato che spesso è proprio il sindaco a promuovere tali interventi, dunque è anche il sindaco che contribuisce ad autorizzare sé stesso) assieme a sei esperti (senza specificare quali titoli servano per definirsi esperti) in altrettante materie: cultura edilizia; scienze agrarie o forestali; scienze sociali o economiche; pianificazione urbanistica; paesaggio; pericoli naturali. Si noti: nessun esperto in conservazione dei beni culturali, storia dell’arte o materie affini.  L’articolo 11 determina quali siano i “beni paesaggistici di particolare valore paesaggistico”, indicando tra gli altri (lettera b) «complessi di beni immobili, detti insiemi, che presentano un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri e i nuclei storici». Cosa in sé certamente sensata, se non fosse che stabilire quali siano tali insiemi spetta ai Comuni e a quelle favolose Commissioni comunali di cui si accennava poco sopra, che possono interpretare a piacimento e senza particolari restrizioni la definizione di centro storico contenuta nel successivo articolo 26.

Che cos’è un centro storico in Alto Adige? Risponde l’articolo 26: una «zona mista in cui si trovano agglomerati dal rilevante carattere storico e artistico e di particolare pregio ambientale». Notare gli aggettivi rilevante e particolare. Se non è rilevante o particolare, l’area non ha carattere storico e artistico, al di là della sua vetustà o storicità. Il comma 2 dell’articolo 26 si spinge a sostenere che «nel centro storico si mira alla conservazione e al restauro degli edifici di interesse storico-artistico [solo quelli rilevanti, com’è logico ritenere], al recupero e riuso del patrimonio edilizio esistente, alla tutela e valorizzazione del tessuto urbano storico […]». Cosa potrà mai voler dire «recupero e riuso del patrimonio edilizio esistente», concetto che non è evidentemente uguale «alla conservazione e al restauro»? Tanto più che la legge ribadisce più volte il principio del contenimento dell’uso di suolo. Traducendo dal burocratese, significa sostituzioni edilizie. Anche nei centri storici, se gli edifici non sono ritenuti rilevanti.

A scanso di equivoci l’articolo 59, comma 1, stabilisce le linee guida ai Comuni per attuare il piano di riqualificazione urbanistica (PRU), al fine di (a) «favorire il riuso delle aree già urbanizzate, renderne attrattiva la trasformazione» e (b) «favorire la densificazione delle aree urbane». Ovvero, sempre traducendo dal burocratese, per esempio sostituire un villino degli anni ’10 del secolo scorso con circostante giardino, abitabile da una sola famiglia, con un attraente condominio moderno per 8 famiglie (ecco la “densificazione”), parcheggio sotterraneo incluso. Attenzione poi alle neolingue: l’articolo 62, comma 1, lettera d, stabilisce cosa si intenda per “interventi di ristrutturazione edilizia”, che incredibilmente possono essere in tutto e per tutto paragonabili a vere e proprie nuove costruzioni, addirittura a danno di edifici vincolati:

«gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio per sagoma, superficie, dimensione e tipologia in tutto o in parte diverso dal precedente. […] Nell’ambito di interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria dell’edificio preesistente, fatte salve sole innovazioni necessarie […]. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli storico-artistici, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente».

Appare chiaro che se una simile legge fosse adottata su tutto il territorio nazionale potremmo dire addio in pochi decenni a molti degli ambienti urbani fino ad oggi conservati con cura e rispetto del passato. Cosa ne sarebbe di Siena, di Siracusa, di Verona, di Bologna, della stessa Venezia e della nostra capitale?

Effetti della mal esercitata tutela in Alto Adige

Senza obbligare il lettore a immergersi in ulteriori dettagli a riprova della mediocre redazione della legge, scritta a evidente vantaggio degli interessi della locale industria delle costruzioni, non rimane che osservare sul campo gli effetti di questo vero e proprio far west edilizio in salsa altoatesina, su modello peraltro non molto diverso da quello della confinante Austria. Capita infatti persino nel centro di Vienna di imbattersi in sporadiche demolizioni di edifici di stile guglielmino (il patrimonio architettonico ottocentesco e della prima metà del Novecento è particolarmente preso di mira perché non sempre percepito come patrimonio storico), sostituiti con moderni complessi, ispirati al design più in voga, concepiti per i super ricchi a danno del paesaggio urbano consolidato dal tempo e sopravvissuto ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Si obietterà che l’abusivismo edilizio nelle regioni del centro-sud è ben peggio. È senz’altro un fenomeno di cui andare poco orgogliosi, ma è anche quello più impattante ad un occhio meno attento ai dettagli: l’abusivismo edilizio lo vedono tutti. Mentre la febbre edilizia altoatesina si concretizza in modo estremamente ordinato, scrupolosamente in base alla legge e con obblighi stringenti in merito al completamento dei lavori, l’abbellimento urbano e la cura degli spazi pubblici e privati. È proprio la mancanza di disordine che ad un occhio poco attento può apparire un segno di buona tutela del patrimonio storico, artistico e paesistico. Ma si tratta di un’illusione ottica.   

Questo articolo a questo punto dovrebbe concludersi con una rassegna di fotografie che documentino lo scempio in Alto Adige e non è possibile farlo per una questione di spazio. Ma si badi ad osservare, per chi dovesse recarsi per lavoro o per diletto in quella provincia, qual è il paesaggio urbano dominante nei centri minori e nelle aree ad essi adiacenti e lo si paragoni con quanto si può osservare nella relativamente più virtuosa provincia di Trento. Si osservi il numero particolarmente elevato di cantieri edilizi, le anomale presenze di edifici moderni, talvolta molto ingombranti, e il numero degli edifici in demolizione. I centri storici al momento sono abbastanza ben preservati, pur con la spada di Damocle pendente su di loro, come si è visto, ma così non si può dire per le zone residenziali limitrofe, aree urbanizzate negli anni terminali della Belle Époque o nei decenni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.

Il caso dell’hotel Post di Dobbiaco, risalente proprio a quel periodo storico, è l’ultimo assurto agli onori della cronaca persino sulla stampa nazionale, ma tra gli edifici demoliti è finito persino un maso del XVII secolo, lo Josl am Pichl, nel comune di Terènto/Terenten[19]. Ad ogni modo, stando ai casi denunciati, per l’Alto Adige si tratta di una tendenza che viene da lontano, già da prima del varo della legge descritta (sorge spontaneo peraltro interrogarsi su quale sia il significato del tanto sbandierato orgoglio tirolese dei nativi, se poi costoro sono in prima fila a favorire la distruzione di parti del loro stesso patrimonio storico-architettonico per meschini interessi economici: che l’autonomismo per molti sia stato soltanto una copertura per portare avanti i propri affari indisturbati?), e si tratta giustappunto di un esempio clamoroso di cosa significhi delegare in tutto o in parte ai territori (siano essi province autonome, regioni a statuto speciale o le future regioni ad autonomia differenziata) la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Un esempio che conferma le tesi sostenute a suo tempo da Concetto Marchesi e Florestano Di Fausto in difesa della statalizzazione della tutela del patrimonio storico, artistico, architettonico e del paesaggio. Proprio per sottrarlo a logiche speculative in atto nei territori.

Salvare la bellezza italiana andando contro l’autonomismo differenziato

E dovremmo quindi mettere a repentaglio tutto ciò che abbiamo fatto fino ad oggi per preservare il più possibile dall’invadenza della moderna industria delle costruzioni l’immagine di un Paese dove la storia ha incessantemente plasmato il paesaggio urbano, rurale e naturale da quasi tremila anni, soltanto per dare soddisfazione a una minoranza ben organizzata di italiani (invero poco degni di esserlo) prevalentemente del nord, che fino all’altro ieri inneggiavano alla secessione della Padania e che oggi si atteggiano opportunisticamente a difensori della sovranità nazionale per raggiungere gradualmente i loro mai deposti obiettivi? Se dobbiamo lasciarglielo fare in omaggio alla coesione nazionale, che non si sacrifichino almeno i beni più preziosi che sono rimasti alla nostra amata Italia, beni riassumibili nell’arte fattasi essa stessa paesaggio, con le migliaia di borghi pittoreschi, le centinaia di centri urbani dal volto antico ed elegante, le multiformi campagne marcate da colture secolari e disegnate nel tempo dall’intervento dell’uomo, campagne punteggiate di vetuste dimore patrizie e altrettanto vetuste architetture spontanee e vernacolari. Tutto questo l’autonomia differenziata rischia di sfregiare irreversibilmente in pochi decenni, per vili interessi economici, privando l’arte e i monumenti dello stratificato contesto paesistico, urbano e rurale, che li contiene.

La politica si adoperi pertanto per non consegnare alle regioni la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio, sebbene la Costituzione novellata con dabbenaggine nel 2001 lo consenta. In nome della nostra identità più vera e autentica e della nostra storia ci si fermi prima che sia troppo tardi. Se i timori espressi in questo scritto si rivelassero fondati sarebbe il massimo fallimento delle istituzioni repubblicane, incapaci di tramandare alle generazioni future (con l’eccezione di un colossale e inestinguibile debito pubblico) la quasi integra bellezza, volto amato della Patria[20], presa in consegna dalle generazioni passate. Sarebbe un imperdonabile sacrilegio, giova ripeterlo: imperdonabile. Con l’aggravante di essere stato compiuto per soddisfare le contingenti ambizioni di un modesto partito politico di dissimulate idee separatiste, totalmente privo di un autentico e sincero legame con il Paese che pur pretende di rappresentare.


[1] M.R., Stil Novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter, Milano, Rizzoli, 2012, 192 p.

[2] Tratto dal blog “Articolo 9”, sul sito internet del quotidiano La Repubblica, a cura di Tomaso Montanari: https://articolo9.blogautore.repubblica.it/2016/11/19/maria-elena-boschi-aboliamo-le-soprintendenze/.

[3] Con architettura vernacolare o anche spontanea ci si riferisce alla definizione (Non-pedigreed Architecture) data dallo storico dell’architettura e a sua volta architetto, moravo di origine ebraica naturalizzato statunitense, Bernard Rudofsky (1905-1988). Sua opera più significativa e nota in materia è Architecture without Architects (1964), tradotto in italiano nel 1977 da Editoriale scientifica (Napoli). Per voler fare alcuni noti e non esaustivi esempi limitati all’Italia, architetture vernacolari sono i trulli della valle d’Itria (Puglia) e le pinnedde sarde, i masi della Venezia Tridentina, le torbe (granai su pilastri fungiformi) della val Sesia, dell’Ossola e della val Maggia, le cascine e le masserie fortificate distribuite tra la pianura Padano-veneta, il Mezzogiorno e la Sicilia, gli edifici a schiera porticati nei centri urbani dell’Emilia, le tipiche case campidanesi della Sardegna, i dammusi dell’isola di Pantelleria, eccetera.

[4] Si veda in particolare, sebbene di carattere non esaustivo, “L’organizzazione della tutela sul territorio: note storiche”, Notiziario (a cura dell’Ufficio Studi del Ministero per i Beni e le Attività culturali), XVII, 68-70 (2002), pp.27-28.

[5] Voce mancante dell’autore, “Giovanni Battista Cavalcaselle”, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979.

[6] Donata Levi, “Il viaggio di Cavalcaselle e Morelli nelle Marche e nell’Umbria”, in Atti del convegno ‘Giovanni Morelli e la cultura del conoscitori’, Bergamo, Lubrina, 1993, pp.133-148.

Per comprendere con un esempio concreto la delicatezza dell’incarico affidato al Cavalcaselle, si consideri la Natività di Piero della Francesca (c.1470-1475), celebre opera che si ammira alla National Gallery di Londra, oggetto nel dicembre 2022 di un acceso dibattito legato ad un restauro a detta di alcuni critici fin troppo incisivo [Jonathan Jones, “‘Almost as botched as Monkey Christ!’ Has the National Gallery ruined a Nativity masterpiece? The Guardian, 17 dicembre 2022]. Ebbene quest’opera giunse a Londra da Sansepolcro (in provincia di Arezzo, solo pochi chilometri all’esterno del territorio affidato all’inviato speciale Cavalcaselle), dove era malamente custodita, proprio per essere stata acquistata nel 1861 dal collezionista britannico Alexander Barker, che la rivendette diversi anni dopo (1874) alla National Gallery, realizzando peraltro un ottimo guadagno. 

[7] “L’organizzazione della tutela sul territorio…”, Notiziario, loc. cit. alla nota 4, p. 27.

[8] Eodem loco.

[9] Barbara Bologna, “La Riforma Franceschini. I punti salienti, schematicamente”, Artribune, 22 luglio 2014 (https://www.artribune.com/attualita/2014/07/la-riforma-franceschini-i-punti-salienti-schematicamente/).

[10] Tomaso Montanari, Costituzione italiana: articolo 9, Roma, Carocci, 2018, 143 p. [il passo citato è a p. 50].

[11] Tomaso Montanari, Costituzione italiana: articolo 9, op. cit. alla nota precedente.

[12] Ibidem, pp. 51-53.

[13] Ibidem, p. 55.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem, p. 56.

[16] Detto anche “Codice Urbani” (dal nome dell’ex ministro per i Beni culturali e ambientali Giuliano Urbani) e varato con d.lgs. n.42 del 2004.

[17] Tomaso Montanari, Costituzione italiana…, op.cit. alla nota 10, p. 57.

[18] Ibidem, pp. 16-24.

[19] Aldo De Pellegrin, “La Pusteria e i progetti contestati. Dal maso di Terento ai cubi: demolizioni e proteste. Italia Nostra: Post, danno enorme, Corriere dell’Alto Adige, 22 novembre 2020 Cf. https://www.pressreader.com/italy/corriere-dellalto-adige/20201122/281539408504601.

[20]L’espressione originaria attribuita a John Ruskin è Beloved face of the homeland.