"Giusto fra le Nazioni"

Democrazia Futura. Giorgio Perlasca, un uomo “politicamente scorretto”

di Sara Carbone, storica |

Pensiero libero, gratitudine, memoria, Sara Carbone rievoca Giorgio Perlasca, un uomo politicamente scorretto, riconosciuto in Israele come un "Giusto fra le Nazioni".

Sara Carbone

Sara Carbone, una giovane storica del Cilento, rievoca con Franco Perlasca la figura del padre Giorgio Perlasca, un uomo politicamente scorretto, riconosciuto in Israele come un “Giusto fra le Nazioni” per aver salvato la vita a numerosi ebrei spacciandosi per console spagnolo a Budapest. Noto per la fiction prodotta dalla Rai nel 2002, Perlasca, un eroe italiano, è stato da taluni impropriamente definito lo “Schindler italiano”. Fascista dannunziano, già volontario in Spagna a fianco di Francisco Franco nel corso della guerra civile, non aveva esitato, durante l’ultima fase del secondo conflitto mondiale, a mettere da parte la sua fede politica e a seguire ciò che gli dettò di fare la sua coscienza.

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Ripensare il concetto di “memoria” in modo più ampio: il valore della riconoscenza e della testimonianza, l’accidentato percorso di chi, nella Storia, difende il “pensiero libero”. A colloquio con Franco Perlasca.

Se l’Olocausto si è imposto agli occhi dei sociologi come «test della modernità»[1] ed evento grazie al quale, oltre un’analisi storica, poteva essere messo in piedi un «laboratorio sociologico»[2] da cui sarebbero scaturite inedite riflessioni sul presente appunto, vicende e biografie, che ruotano attorno a tale evento, inducono a fare altrettanto sia a livello sociologico che storico. È il caso di Giorgio Perlasca, insignito, nel settembre del 1989, del titolo di “Giusto fra le Nazioni”, riconoscimento istituito dallo Yad Vashem di Gerusalemme e riservato a non ebrei che, mettendo a rischio la loro vita e agendo nel totale disinteresse, salvarono gli ebrei durante la Shoah.

Fascista “dannunziano”, Giorgio Perlasca era nato a Como nel 1910 e, nell’autunno del 1944, si trovava a Budapest – una città «immagine inconsapevole della vigilia della catastrofe»[3] -, per conto della Società Anonima Importazioni Bestiame (S. A. I. B.) con sede a Roma, con il compito di coordinare le importazioni di bestiame e conserve alimentari dall’Ungheria in Italia. Solo poche ore dopo dall’annuncio, alla radio, dell’ammiraglio Miklós Horthy – era il 15 ottobre 1944 – che l’Ungheria smetteva di combattere contro l’Armata Rossa, le “Croci frecciate” filonaziste invasero la capitale del Paese e ne occuparono i punti nevralgici; non essendo più al sicuro in quanto italiano, Giorgio Perlasca, vantando un documento rilasciato dal governo spagnolo che gli assicurava “amicizia” per aver partecipato come volontario alla causa di Francisco Franco nel corso della guerra civile, aveva ottenuto dal console spagnolo a Budapest, Angel Sanz Britz, un nuovo passaporto col quale diventava Jorge Perlasca, cittadino dello stato iberico allineato alla Germania. Dopo aver accolto l’invito dello stesso Angel Sanz Britz a rimanere presso gli uffici dell’ambasciata spagnola per aiutare la causa degli ebrei protetti, non esitò a dichiarare, mentendo, che proprio Sanz Britz lo aveva nominato suo sostituto a Budapest quando, il 30 novembre del 1944, aveva lasciato l’Ungheria. Dal 1° dicembre del 1944 al 16 gennaio del 1945, il grossista di bestiame italiano vestì i panni del console spagnolo a Budapest, senza che il governo di Madrid ne sapesse nulla; sottrasse alla morte cinquemila, forse più, ebrei ungheresi producendo una serie di salvacondotti falsi; si adoperò affinché arrivasse cibo agli ebrei nelle case protette e si oppose con successo alla distruzione del ghetto ebraico da parte dei nazisti prima dell’arrivo dei bolscevichi.

Tornato in Italia in quello stesso anno, di lui non si seppe più nulla fino al 1987, quando fu scoperto grazie a un gruppo di sopravvissute che si mise sulle sue tracce. Dopo di allora e del riconoscimento del titolo di “Giusto fra le Nazioni”, numerose pubblicazioni e iniziative televisive si occuparono del “Wallenstein italiano”, l’uomo comune che aveva dichiarato che tutti sapevano la destinazione di quei treni della morte; che tutti sapevano che era in atto un “mercato nero” di falsi salvacondotti e una speculazione sui generi alimentari e che aveva denunciato lo scarso rigore ed elasticità di comportamento dell’autentica diplomazia di fronte alle mutate condizioni storiche. Eppure, a partire dagli anni Novanta, da quando questa storia è stata raccontata in Italia, essa è stata presentata come una storia «acciuffata per un pelo […] che sarebbe rimasta sepolta o non creduta»[4] – Giorgio Perlasca è morto il 15 agosto 1992 – se i sopravvissuti non si fossero messi sulle sue tracce.

Eppure Giorgio Perlasca questa incredibile storia aveva provato a raccontarla: aveva scritto un memoriale su quanto accaduto e ne aveva inviato una copia, nell’ottobre del 1945, al Ministro degli Affari Esteri italiano, Alcide De Gasperi; eppure, sebbene la Spagna abbia vantato, per anni, un eroe che aveva salvato migliaia di ebrei a Budapest, esistono documenti attestanti, già a partire dal 1945, che Jorge Perlasca era l’italiano Giorgio Perlasca e che descrivono le azioni di cui si rese protagonista. Eppure, se qualcuno lo aveva cercato per testimoniare a Israele al processo a carico di Adolf Eichmann, nel 1961, questi doveva sapere chi era Giorgio Perlasca e dove viveva. Più che una storia “acciuffata per un pelo”, allora, quella di Giorgio Perlasca è la biografia di un uomo «politicamente scorretto», protagonista di una storia fin troppo nota ma oscurata, forse perché nessuno avrebbe potuto «metterci sopra il cappello», come ha dichiarato suo figlio Franco Perlasca nel corso dell’intervista riportata di seguito.

Sara Carbone. Olocausto. Ben lungi dall’essere mera conseguenza del sentimento antisemita, esso fu – cito Bauman – «il prodotto specifico dell’incontro tra le vecchie tensioni che la modernità aveva ignorato, trascurato o mancato di risolvere, e i potenti strumenti di azione razionale ed efficiente creati dallo sviluppo della modernità stessa»[5]. Figlio di una diaspora, diversa da ogni altro tipo di migrazione sia per il perdurare del concetto di separazione da altri gruppi sia per la totale assenza di una patria, l’“ebreo” era diventato nel tempo «un concetto sovraccarico» di significati che lo rendeva «bersaglio naturale di tutte le forze impegnate a tracciare confini e a mantenerli impermeabili». L’ebreo rendeva semplicemente «visibili le terrificanti conseguenze derivanti dalla violazione dei confini, dal rifiuto di rimanere nel gregge, da ogni condotta non ispirata a una lealtà incondizionata e a una scelta senza ambiguità».
Il Suo pensiero rispetto a questa chiave di lettura che attualizza ed estende il significato del fatto storico oltre i limiti cronologici e geografici entro i quali esso è accaduto.

Franco Perlasca. Ritengo indispensabile premettere che il mio approccio all’argomento non è, né del resto ambisce ad esserlo, quello dello storico, del filosofo o del sociologo… Sono piuttosto una persona che, per volere del caso o del destino, si è trovata catapultata in una “storia enorme” e che, da allora, ha cercato di addentrarsi nei complicati meandri delle vicende della Shoah e dei diversi Paesi coinvolti; un uomo che ha provato a comprendere le ragioni per le quali tutto ciò è avvenuto e i presupposti per cui tanta violenza e tanto orrore si siano originati da una Germania che si affacciava alla prima metà del secolo scorso come una realtà gravida di storia e cultura.

In molte occasioni non ho trovato le risposte che cercavo; molte teorie, magari anche affascinanti, non mi hanno convinto, anzi. Molti riscontri rimanevano sul piano teorico.

Credo che ogni Paese abbia avuto (e abbia) una storia diversa. E questo vale anche per gli atteggiamenti antisemiti del secolo scorso. Non reputo, dunque, possibile generalizzare giudizi e riflessioni a riguardo tanto profonde erano le differenze fra Paese e Paese nell’Europa di allora. In Ungheria e in Italia, per esempio, gli ebrei erano totalmente integrati e costituivano parte attiva della società; in Polonia, invece, non vi era alcun margine di inserimento sociale e gli ebrei preservavano regole, costumi e abitudini “separate” dal resto della nazione.

Le leggi razziali, varate in Italia nel 1938, costituirono per gli ebrei del nostro Paese (quaranta mila su quaranta milioni) una terribile sorpresa in quanto essi erano inseriti appieno nel tessuto sociale nazionale. Avevano partecipato al Risorgimento, alla Grande Guerra (tre medaglie d’oro di origine ebraica sono sepolte ad Asiago, a esempio); avevano contribuito alla nascita del fascismo con personaggi autorevoli: industriali ebrei ne erano stati, infatti, importanti finanziatori. Mio padre ricordava sempre – per andare a fatti ancora più specifici – che il suo comandante di battaglione in Spagna durante il conflitto civile del 1936-39, volontario come lui, era un ebreo romano.

Ogni Paese ha una sua storia e, per comprendere la genesi degli avvenimenti, reputo indispensabile calarsi nelle specifiche realtà.

Sara Carbone. Restiamo su Zygmunt Bauman. Riprendendo il pensiero di Raul Hilberg, il sociologo polacco fa notare come la maggior parte degli artefici di questo progetto di “ingegneria sociale”[6] non arrivarono «a sparare sui bambini ebrei né a introdurre gas nelle apposite camere…»[7]. Era stato attuato, cioè, un piano per cui tra il mandante e la vittima si produceva continuamente una distanza garante dell’«invisibilità morale» rispetto alla stessa atrocità che si ordinava di compiere. Si ricorreva a una vera e propria “mediazione dell’azione” che, per Bauman, è uno degli aspetti contraddistintivi della modernità. Lei è d’accordo? Ritiene che, oggi come allora, l’aumento della distanza fisica e/o psichica tra l’azione e le sue conseguenze non annulli solo l’inibizione morale ma cancelli il significato morale dell’azione stessa e, dunque, permetta di perpetrare certe dinamiche?

Franco Perlasca Siamo, a mio avviso, nella logica della “banalità del male”. Prendiamo Adolf Eichmann, per esempio. Un uomo “normale”, uno che obbediva agli ordini, con diligenza, capacità e spirito d’iniziativa; un bravo burocrate di grado militare medio – un colonnello – il quale, rendendo operative le disposizioni altrui, faceva funzionare alla perfezione “i treni della morte”. Non credo sia mai stato lui il diretto esecutore di qualche uccisione ma è ovvio che indirettamente abbia mietuto molte vittime.

Quando all’inizio degli anni Sessanta venne processato e, poi, impiccato a Israele, gli avvocati difensori cercarono addirittura di dimostrare l’umanità di quest’uomo. Lo testimonia il fatto che essi, all’epoca, avvicinarono mio padre perché testimoniasse al processo (e questo dimostra chiaramente, tra l’altro, – mi lasci sottolineare – che la vera identità/nazionalità di “Jorge Perlasca” e la sua storia erano fin troppo note) raccontando l’episodio occorso alla stazione di Budapest quando il loro assistito era intervenuto per lasciare al “Console spagnolo” due bambini che questi aveva sottratto dalla colonna in marcia verso i treni della morte.

Molti uomini “comuni”, obbedendo agli ordini dei superiori, compiono la propria parte del male e concorrono, come anelli di una catena, ad aumentare la distanza fisica e/o psichica – di cui lei diceva- tra un’azione e le sue conseguenze. E non solo. Gli artifici e la sofisticazione tecnologica della modernità e del futuro contribuiranno a “diluire” il senso di responsabilità personale diretta non solo mediando tra mandante e vittima ma eliminando ogni possibilità di contatto anche tra l’esecutore e la vittima. Se cento anni fa, un conflitto contemplava, spesso, una certa presenza fisica almeno fra l’ultimo e il penultimo anello della catena, oggi, è possibile mietere vittime a distanza per cui non si rende neppure necessaria la “mediazione dell’azione” al fine di cancellare l’inibizione morale.

Sara Carbone. Herbert Kelman ha detto che certe atrocità sono possibili solo quando vengono meno certe inibizioni morali e affinché ciò accada è necessario che la violenza sia autorizzata; che le azioni violente siano routinizzate e che le vittime della violenza vengano disumanizzate[8]. Sulla disumanizzazione delle vittime si è espresso anche Gabriele Nissim che addebita la paternità di tale esercizio ai centri di potere e a molti intellettuali dell’epoca[9]. Sono esistiti ed esistono ancora, a suo modo di vedere, questi “cattivi maestri”?

Franco Perlasca Di “cattivi maestri” le società sono piene. E, naturalmente, oggi, essi dispongono di mezzi diversi rispetto al passato. Anche il pensiero unico, il politicamente corretto che si vuol imporre sempre e comunque costituiscono efficaci strumenti moderni. L’ideologia che diventa materia fondante e fondativa. Basti pensare alla pratica di cancellare o riscrivere la storia, alla cosiddetta “Cancel Culture” nata negli Stati Uniti d’America materializzatasi nell’abbattimento di statue (Thomas Jefferson, Cristoforo Colombo…); alla messa all’indice di autori ritenuti “non conformi” (Omero, Dante, Shakespeare…); alla riscrittura di passi di opere (Roald Dahl, un esempio); alle tendenze linguistiche che declinano al femminile – con risultati che, spesso, bene non suonano- vocaboli fino a ora usati solo al maschile (assessora, ministra…) pensando che sia questo il mezzo per  risolvere il problema della parità di genere. Per arrivare al “comico finale” – mi lasci dire – di alcune piattaforme televisive che, proprio in nome del politicamente corretto, inseriscono in film/sceneggiati di Storia europea, personaggi di colore o altre nazionalità che, allora, non erano presenti sul Continente. Penso alla confusione di un ragazzo che magari a scuola studia, seriamente, la Storia e, poi, si ritrova a vedere in Tv un Lancillotto di colore o arabo. Chi non ricorda del resto gli sceneggiati italiani degli anni Settanta e Ottanta, dedicati alla Grande guerra in cui le bandiere sventolate erano quelle delle Repubblica, senza lo stemma sabaudo?

Credo che i “cattivi maestri”, oggi, siano coloro i quali formulano giudizi sulle vicende passate per mezzo di categorie culturali del presente – chi, per esempio, vuole far passare la tesi che l’Occidente sia stato caratterizzato da una cultura sessista, discriminante, coloniale, omofoba, razzista, violenta, senza opportunamente contestualizzare ricorrendo ai parametri di allora. Se il metro attraverso cui si guarda il passato appartiene al presente, il risultato sarà, inevitabilmente, una falsificazione e, dunque, una cancellazione di ciò che è stato veramente.

Sara Carbone. Veniamo a Suo padre, Giorgio Perlasca. Sembra quasi la storia di un uomo che “ha vissuto più vite”: un convinto fascista, versione dannunziana, e un volontario nel conflitto spagnolo e nell’avventura abissina prima del secondo conflitto mondiale; un grossista di bestiame, libero cittadino a Budapest fino al colpo di stato del partito filo nazista delle Croci frecciate alla fine del 1944, poi deportato e poi “falso console spagnolo” negli ultimi mesi del conflitto; un “uomo comune” negli anni del silenzio, dal 1945 al 1987 quando viene “scoperto” a Padova; un “giusto fra le nazioni” fino alla sua scomparsa nel 1992. Se Lei dovesse restituire in poche battute un ritratto di quest’uomo, cosa direbbe di Suo padre? Chi era Giorgio Perlasca?

Franco Perlasca Mio padre Giorgio Perlasca era un uomo che ha pensato sempre con la sua testa; uno che, per dirla con le parole di Indro Montanelli, non ha mai portato il cervello “all’ammasso”. Molto probabilmente, mi sento di dire, proprio il suo pensiero “libero” è stato il motivo per cui la sua straordinaria vicenda, in Italia, anche se molti la conoscevano, non è mai stata inserita nel “mainstream” della Storia fino al 1987, quando i coniugi Pal ed Eva Lang, in rappresentanza di un gruppo di donne ebree ungheresi, andarono a bussare alla sua porta. Su quella storia nessuno poteva metterci un cappello, nessuno poteva “intestarsela” e, quindi, a nessuno interessava. Era una storia “politicamente scorretta” e, anche quando venne alla luce, l’Italia ufficiale la tenne sottotraccia, la “subì” in sostanza. Quando Giorgio Perlasca venne definitivamente scoperto, del resto, l’Italia arrivò a riconoscerlo per ultima e solo perché non poteva più farne a meno. In questo Giorgio Perlasca ha pagato la sua indipendenza, il suo libero pensiero. Ma ciò, io ritengo, rende questa sua vicenda ancora più bella e piena di significato.

Sara Carbone. Sua madre ha dichiarato: «Da quando è stato scoperto […] Giorgio è ringiovanito». Lui stesso, del resto, ebbe a dire che, sebbene la visita dei coniugi Lang gli avesse scombussolato la vita, era felice. Eva Lang e tutti coloro che decisero via via di testimoniare per portare alla luce la vicenda dell’“impostore” Jorge Perlasca si facevano porta-voci del nobile sentimento della gratitudine che, per quanto non necessiti di alcuna ostentazione o mitizzazione, rende appagati e felici. Tuttavia, alcuni dei testimoni interpellati dalla Lang – penso al “ragazzo saltatore” che «sopravvisse alla guerra. Divenne un adulto e poi un vecchio»[10], scrive Deaglio nel suo libro dedicato al Wallenstein italiano – si rifiutarono di testimoniare. Lei pensa sia solo un problema di “ingratitudine”[11] o piuttosto un rifiuto di ricordare vicende troppo dolorose? O la causa del rifiuto è ancora più profonda e cioè non esporsi ulteriormente all’insopportabile idea per cui bisogna riconoscere a un altro la garanzia del proprio diritto alla sopravvivenza?

Franco Perlasca Immagino che, se qualcuno non abbia voluto testimoniare, sia stato probabilmente per non dover ricordare, per non volgere lo sguardo indietro, alle vicende tragiche di oltre quarantacinque anni prima. Una scelta in linea con tante altre di cui gli ebrei ungheresi, per esempio, dopo la fine del conflitto, si resero protagonisti, ancora per paura o per semplice quieto vivere: essi cercarono di mimetizzarsi nella società, magari cambiando il cognome e abbandonando la propria confessione religiosa. Tra coloro i quali, seguendo una scelta familiare, optarono per soluzioni del genere, mi è capitato di conoscere, nel 2010, un professore di Storia dell’Università di Pecs, ormai in pensione. Nato nel 1930 e sottrattosi alla furia tedesca a Budapest grazie a un salvacondotto messogli a disposizione dal “console spagnolo” Giorgio Perlasca, che gli assicurava un ricovero in una casa protetta spagnola, aveva deciso, alla fine della guerra, di mutare il suo cognome originario che da “Hirsch” era diventato “Harsany”.

Per comprendere appieno le scelte comportamentali degli ebrei ungheresi dopo la Seconda guerra mondiale è necessario tener conto cosa accadde loro anche durante e oltre l’immediato periodo postbellico. Passati dall’essere novecentomila a trecentomila nell’arco di pochi mesi – dall’aprile 1944 al gennaio del 1945 – essi si ritrovarono ben presto vittima di un regime che aveva iniziato a coltivare un atteggiamento antisemita già all’indomani della Grande Guerra ossia del regime comunista.

Non c’è da meravigliarsi se essi furono protagonisti di una diaspora che li vide dirigersi verso Stati Uniti, Canada, Israele e Germania stessa. Fu proprio grazie a un gruppo di ebree ungheresi trasferitesi a Berlino, del resto, che Perlasca fu “scoperto”. Nei primi anni Ottanta, queste donne avevano l’abitudine di riunirsi, ogni quindici giorni, in una sorta di salotto letterario per discutere gli argomenti più vari, dalla lettura di un libro, alla visione di un film, al racconto di un fatto particolare. Durante uno di questi convegni, esse ritornarono con la mente alle loro esperienze in Ungheria e a un “console spagnolo” che aveva salvato loro la vita. Fu questo l’evento embrionale di un lavoro di ricerca che coinvolse altre donne residenti in Ungheria e che aveva come obiettivo quello di ritrovare Giorgio Perlasca.

Erano gli ultimi anni del “comunismo reale” in Europa, il muro di Berlino scricchiolava sotto il fallimento economico/ideologico dell’ideologia comunista e l’Ungheria era diventata la nazione più liberale del blocco sovietico, con libertà e possibilità di cui altri Paesi ancora non godevano. Se qualcuno non ha voluto testimoniare per non ricordare, decine anzi centinaia di persone si sono fatte avanti, contente d’aver ritrovato chi, a rischio della propria, gli ha salvato la vita, così come moltissimi salvati avevano ringraziato ufficialmente Perlasca con delle lettere al momento della partenza da Budapest nell’aprile 1945.

Sara Carbone. Di fronte alla costatazione per cui, pur avendo avuto dagli esponenti della resistenza polacca tutte le informazioni circa l’ubicazione dei campi di concentramento e delle vie ferroviarie di trasporto verso Birkenau, gli Alleati, nei loro piani bellici, non tennero conto della «variabile dello sterminio in atto»[12], Deaglio conclude: «Quei milioni, che per i nazisti erano dei vivi da uccidere, per gli Alleati erano già morti»[13]. Nel suo memorandum Giorgio Perlasca ha scritto che aveva trascorso la notte tra il 29 e il 30 novembre del 1944 «del tutto insonne»[14]: il console spagnolo Ángel Sanz Briz gli aveva comunicato, il giorno prima, che si sarebbe rifugiato in Svizzera e lo aveva invitato a tagliare la corda il prima possibile. Giorgio Perlasca, invece, decise di non essere tra i «testimoni compiacenti», per dirla ancora con le parole di Zygmunt Bauman[15]e restò a Budapest. La Storia gli aveva offerto l’occasione e lui l’aveva colta, ebbe a dire. Ciò che era sfuggito, almeno come tentativo, ai grandi strateghi, era stato intercettato da un “uomo comune”, un improbabile candidato al titolo di “eroe” eppure un “giusto”. Chi è un giusto? Ci sono ancora occasioni per i giusti oggi?

Franco Perlasca Per me il giusto è un “eroe a tempo”; uno che sfrutta il tempo strettamente necessario per fare quello che deve fare. Qualche giorno, qualche settimana, qualche mese. Finito quel periodo, torna alla vita quotidiana, quasi scordando quello che ha fatto, non raccontando o vantandosi del suo operato. A differenza dell’eroe tradizionalmente inteso che, invece, racconta le sue imprese, magari se ne vanta e ottiene qualcosa in cambio. Mutuato dalla cultura ebraica, dal racconto della tradizione ebraica dei 36 Giusti, ripreso da Yad Vashem e dal suo tribunale del bene che concede il titolo di Giusto tra le Nazioni, il “Giusto” ha assunto dignità legale e giuridica grazie allo stato di Israele ma, per fortuna, egli non sono una prerogativa esclusiva del mondo ebraico. È sempre esistito; esiste oggi; esisterà domani. Per me, egli rappresenta, la speranza in un mondo migliore. Negli ultimi anni, si è assistito alla nascita in tante città dei “giardini dei Giusti” realizzati con la piantumazione di alberi dedicati a persone reputate degne di tale titolo. Si tratta, naturalmente, di una nobile e importante iniziativa ma, per evitare una banalizzazione del significato di “giusto”, essa andrebbe gestita con giudizio, attenzione, criterio.

Sara Carbone. L’incredibile vicenda di Suo padre sposta l’attenzione su territori e realtà su cui l’occhio dell’uomo occidentale non cade di frequente, salvo che la Storia non lo costringa a farlo. Un racconto dell’impresa di Giorgio Perlasca risulterebbe monco senza riferimenti e conoscenze geopolitiche dell’Ungheria e dell’Est europeo, almeno a partire dalla fine della Grande Guerra. Senza riferirmi ad alcuna questione nello specifico, quanto, secondo Lei, il campo visivo di noi “occidentali” resta limitato dalla linea del nostro orizzonte e quanto questo incide su ciò che accade non lontano da qui?

Franco Perlasca Ogni Paese ha la sua storia, la sua unicità, anche per quanto riguarda la Shoah. Senza fare i conti con tali “unicità”, si rischia di perdere di vista le reali dinamiche dei fatti e di emettere giudizi che poco hanno a che fare con la verità storica. Specie per Paesi dell’Est europeo. Così come non regge la pretesa, troppo diffusa, cui accennavo precedentemente, di giudicare con chiavi interpretative della contemporaneità quanto avvenuto ottanta/cento anni fa.

Il caso dell’Ungheria, pur alleata dei tedeschi, è sintomatico. Sino alla primavera 1944, per gli ebrei, il Paese aveva rappresentato un luogo di salvezza: esso ne aveva accolto decine di migliaia da altri Paesi dell’Est dove la persecuzione era già in atto. Miklós Horty, reggente della Corona ungherese ed ex comandante in capo della Marina austroungarica durante la Grande Guerra, prese, per quanto possibile, le loro difese – erano cittadini ungheresi – e ne pretese il rispetto. Naturalmente furono introdotte anche in Ungheria le leggi razziali, votate da un Parlamento quasi liberamente eletto (considerando i canoni democratici di quegli anni …) ma non si parlava di campi di sterminio. Tutto cambiò quando Hitler, con l’Operazione Margarethe, nella primavera del 1944, impose con la forza la nomina al governo di vari esponenti filo nazisti ed iniziarono le deportazioni in massa. Negli ultimi anni, in Ungheria, la figura di Horty è stata profondamente rivalutata e nel centro della Capitale è stata inaugurata anche una statua in suo onore. Questo ha scatenato non poche polemiche all’estero così come in Italia; polemiche caratterizzate tutte, del resto, da uno stesso fattor comune: la mancanza di una riflessione storica profonda e la presenza di un forte condizionamento ideologico. In Italia, non è mai stata riscritta e rivista una storia che sottolineasse come, a partire dall’8 settembre, si fosse passati da pratiche discriminatorie a pratiche persecutorie che videro protagonisti anche tanti connazionali. Con l’Amnistia voluta da Palmiro Togliatti, poi, calò un silenzio definitivo sui crimini di una parte così come dell’altra. Gli approfondimenti che furono condotti erano circoscritti a singoli episodi e riconoscevano responsabilità esclusivamente a carico dei tedeschi i quali – sono convinto – poco avrebbero fatto senza un reale contributo di collaboratori sparsi qua e là nei vari Paesi. Senza il contributo di milizie e collaborazionisti ucraini, a esempio, i grandi massacri avvenuti a Est non ci sarebbero stati o comunque non in quella misura. Non credo che la Storia sia quel “luogo” dove valga la regola: uno più uno fa sempre due. La Storia – mi pare invece – la materia che rifugge, o meglio, dovrebbe rifuggire l’ovvio.

Sara Carbone. Un’ultima domanda. Ad ascoltare tutta la storia di Suo padre, si ha l’impressione che la Storia e quest’uomo abbiano proceduto ognuno per conto proprio, in direzioni quasi opposte, salvo incontrarsi per brevi istanti – quelli che suo padre ha definito “occasioni”. Suo padre ha dichiarato che tutti sapevano dove finissero gli Ebrei; che tutti sapevano che si era diffuso un commercio di salvacondotti falsi; che i diplomatici erano stati incapaci di rimodulare il loro modo di operare fra la fine del ’44 e i primi mesi del ’45 e che erano incapaci di essere operativi prima delle undici di mattina. La testimonianza di Giorgio Perlasca è una continua “denuncia” della Storia in cui paradossalmente, tutti sanno ma non si spingono oltre. Suo padre, potrebbe essere considerato, in tal senso, un propugnatore del pensiero libero contro il pensiero unico?

Franco Perlasca Mio padre non era “politicamente corretto” semplicemente perché pretendeva di pensare con la sua testa. Il pensiero unico, di cui l’Italia è maestra, non era il suo. Le notizie voleva capirle, non le prendeva per oro colato.

Tutti sapevano quanto avveniva nei confronti degli ebrei in quegli anni; nessuno fece nulla per cercare di impedirlo, purtroppo. Era un ulteriore problema. Un semplice bombardamento delle linee ferroviarie verso Auschwitz, solo per dirne una, sollecitato varie volte dalla Resistenza polacca, avrebbe salvato dalla morte decine di migliaia di persone. Ma mai venne fatto.

Penso che il caso di Giorgio Perlasca (così come tanti altri) ci ponga di fronte a uno scomodo interrogativo: se un “signor nessuno” riesce a salvare oltre 5000 persone, cosa avrebbe potuto fare chi il potere lo aveva veramente?!


[1] Zygmunt Bauman, Modernity and the Holocaust, Cambridge, Polity Press, 1989, 280 p. Tr. it.:  Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 1992, 280 p. [si veda p. 23].

[2]Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, op. cit. alla nota 1, p. 30.

[3]Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Milano, Feltrinelli, 1991, 135 p. [vedi dall’edizione 2021, p. 38]

[4] Enrico Deaglio, La banalità del bene, op. cit. alla nota 3, p. 134.

[5] Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, op. cit. alla nota 1, p. 9.

[6] Espressione “ingegneria sociale” tratta da Henry. L. Feingold, “How Unique is the Holocaust?”, in Alex Grobman, Daniel Landes (a cura di), Genocide: Critical Issues of the Holocaust, Los Angeles, The Simon Wiesenthal Centre, 1983, 501 p. [l’espressione si trova a p. 400].

[7] Raul Hilberg, The Decostruction of the European Jews, Holmes & Meier, New York 1983, vol. III, p. 994. Trad. it. La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995, XXIII-940 p. e 942-1385 p.  (2 voll.).

[8] Herbert C. Kelman, “Violence without Moral Restraint”, Journal of Social Issues, XXIX (4), autunno 1973, pp. 29 – 61. Cf. https://scholar.harvard.edu/files/hckelman/files/Violence_1973.pdf.

[9] Gabriele, Nissim, Il bene possibile. Essere giusti nel proprio tempo, Torino, Utet, 2018,178 p. [vedi p. 21].

[10] Enrico Deaglio, La banalità del bene, op. cit. alla nota 3, p. 31.

[11] Gabriele, Nissim, Il bene possibile …, op. cit. alla nota 9, p. 44.

[12] Enrico Deaglio, La banalità del bene, op. cit. alla nota 3, p. 49.

[13] Ibidem.

[14] Giorgio Perlasca, L’impostore. Le memorie dello Schindler italiano, il Mulino, Bologna 1997, p. 89.

[15] Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, op. cit. alla nota 1, p. 35.