L'analisi

Democrazia Futura. DVB-T2, editori televisivi in guerra con la balena

di Marco Mele, giornalista e saggista, esperto e analista dell’industria dei media. Fondatore del sito www.Tvmediaweb.tv |

Il 30% dei televisori non è in grado di ricevere il nuovo standard. Secondo Anitec sono circa 25 milioni su 45 gli apparecchi o da sostituire o da integrare con un decoder DVB-T2.

Aspettando il passaggio al DVB-T2 “Editori televisivi in guerra con la balena”. Questo il titolo di un’interessante analisi di Marco Mele.

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Marco Mele
Marco Mele

Una transizione complicata e rallentata, quella del sistema televisivo italiano verso il nuovo standard DVB-T2. Che dovrebbe portare ad offerte in 4k-UHD anche sul digitale terrestre, la piattaforma di “tutti”, qualità riservata per oggi al satellite, che ha banda da vendere, e ai contenuti in streaming, purché rivolti ad utenti tecnologicamente adeguati. Il 20 dicembre 2022, su decisione dei principali editori televisivi, intanto, è stato spento lo standard di codifica Mpeg2, quello con cui è nato e si è sviluppato il digitale terrestre.

Tutti i canali saranno trasmessi con standard di codifica Mpeg4 e in HD, ma ancora in DVB-T nonostante lo spot del Ministero dell’Impresa facesse pensare il contrario[1] . Le famiglie che non erano in grado di ricevere i canali in alta definizione (HD) sono stimati tra 500 mila e il milione da Confindustria Radio Tv, mentre sarebbero stati 1,5-2 milioni gli apparecchi a non ricevere i canali in HD secondo Anitec, l’associazione dei principali produttori di apparecchi (una parte sono secondi o terzi televisori).  

Su 45 milioni di apparecchi televisivi presenti nelle case italiane, 15 milioni sono quelli connessi alla Rete per ricevere le app della televisione in streaming[2]. Non così tanti, colpa anche – oltre al costo degli apparecchi e alla loro perdita di esclusiva nell’offerta di contenuti televisivi – della scarsa qualità delle connessioni, e del WIFI in particolare, offerte dagli operatori telefonici al di fuori delle grandi città.

La tv in streaming, in altre parole, ha ancora grandi margini di crescita.

Quanto al DVBT2, per Confindustria Radio Tv, il 30 per cento dei televisori non è in grado di ricevere il nuovo standard. Secondo Anitec sono circa 25 milioni su 45 gli apparecchi o da sostituire o da integrare con un decoder DVB-T2. Si vendono più o meno cinque milioni di apparecchi tv ogni anno, incentivi compresi (a meno di non avere incentivi all’acquisto più consistenti, ovviamente). Quando si concluderà questa transizione?

La notizia è che per adesso, infatti, NON si passerà al nuovo standard, anche se alcuni decreti ministeriali parlavano di gennaio 2023.

Confindustria Radio Tv, con il suo presidente Franco Siddi, confermato sino al dicembre 2024, lo ha detto chiaro e tondo all’HD Forum di Roma. L’unica transizione, per adesso, sarà quella al Mpeg4. Alcune norme prevedevano un passaggio al DVB-T2 nel gennaio 2023, ma non se ne farà niente.

Ricordiamo che l’attuale Piano di assegnazione delle frequenze 2018, quello definitivo, è un Piano DVB-T2. Per questo, ad esempio, nella Finanziaria di fine 2018 si ridussero da quattro ad uno i multiplex previsti (nel Piano 2017) per le televisioni locali ad un solo multiplex per regione. In modo da poter così aumentare i multiplex delle emittenti nazionali da 10 a 12 e permettere alla Rai di fare il multiplex decomponibile per regioni in banda UHF e non in banda VHF, com’era previsto nel Piano frequenze del 2017.

E adesso le televisioni locali, tutte tecnicamente pronte a trasmettere in DVB-T2, non hanno la banda disponibile per farlo, dopo aver dovuto rottamare le frequenze su cui trasmettevano.

Si sono spesi soldi pubblici per cosa? Per le tv nazionali, i cui operatori di rete, RaiWay e EI Towers, hanno vinto la gara per ospitare, a pagamento, anche i fornitori di contenuti locali.

Si dice che si sia superata così l’integrazione verticale tra editori di contenuti e gestori di torri e di multiplex, ma RaiWay è ancora in maggioranza della Rai e su EI Towers bisognerebbe analizzare qual è il “peso” effettivo del socio di minoranza Mediaset e del suo know how rispetto a Cassa Depositi e Prestiti.

Resta aperta la partita per avere il polo unico nazionale delle torri, con ogni probabilità a maggioranza pubblica. Quanto vorrà Mediaset per cedere la sua quota? In ogni caso, la Rai non è più l’unico soggetto pubblico ad operare nell’etere e il ruolo di Cassa Depositi nella Rete unica delle telecomunicazioni apre diversi interrogativi anche per il polo delle torri e il sistema televisivo. La televisione tutta è ogni giorno di più collegata e condizionata da Internet e dalle reti di telecomunicazione.

Certo, come ha voluto l’Europa, si è liberata la banda 700 per la mobilità via Internet, ma il gioco e le sue regole stanno cambiando: diversi settori industriali ambiscono a quelle frequenze, fino ad ora riservate agli operatori di servizi di tlc per la mobilità. Si pensi all’auto e alla robotica o all’Internet delle cose, in attesa del Metaverso.

Questo, mentre gli operatori telefonici non sono in grande salute finanziaria e chiedono l’aiuto del Governo per completare le reti in 5G. In più TIM è imprigionata nella trappola politico-finanziaria della Rete Unica e del suo stesso destino come azienda (quello di Open Fiber è segnato?). Difficile, quindi, che le compagnie telefoniche abbiano voglia e risorse per un’altra gara sulle frequenze rimaste ancora in uso alle televisioni.

A Dubai a novembre 2023, alla Conferenza WARC dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (UIT-ITU), si deciderà cosa fare di quelle frequenze: Italia, Francia, Spagna, Grecia e forse Regno Unito chiederanno di lasciarle in uso alle televisioni sino alla Conferenza Warc del 2030.

Uno dei motivi è quello di non far crollare il valore delle torri e delle reti di trasmissione su quelle frequenze, anche in vista della costituzione del polo nazionale delle torri.

Se questa sarà la decisione finale, si moltiplicheranno le attuali soluzioni ibride tra le tecnologie televisive e quelle della IPTV, per offrire contenuti in 4k a tutte le piattaforme e a tutti gli schermi. O a quasi tutti. Per il 4K sulla piattaforma digitale terrestre sono pronte o in uso diverse tecnologie ibride, tra il broadcast e il broadband, ma occorre fare attenzione ai sistemi operativi di ogni apparecchio televisivo, per poterle ricevere con la piena qualità, com’è accaduto per i Mondiali di Calcio in 4k sul digitale terrestre, non ricevuti da molti televisori.

E, soprattutto, se avanzano le soluzioni ibride per il digitale terrestre, ci sarà ancora bisogno del DVB T2? Non è questione di dettaglio, anche per un altro motivo: con il T2 più che raddoppia la capacità trasmissiva sugli attuali multiplex nazionali. Il nostro sistema televisivo, in questo caso ancora solo “televisivo”, è in grado di offrire, tra produzione e acquisti, contenuti competitivi e d’interesse dei pubblici dovendo, per semplificare, raddoppiare l’attuale offerta? No, non è una questione di dettaglio: il problema della politica e dei regolatori è quello di difendere l’attuale assetto del sistema televisivo, che è il prodotto di una storia mai raccontata fino in fondo, mentre una parte crescente del pubblico ha a disposizione un numero crescente di schermi e di piattaforme che offrono contenuti non realizzati (e spesso non realizzabili) dalle emittenti nazionali. E si vuole preservare tale equilibrio tra Rai e Mediaset – lo stesso numero di reti analogiche, lo stesso numero di multiplex digitali – oltre il 2030…

Un assetto che impedisce la crescita di altri soggetti, se non di nicchia, che ha fatto finire gran parte dei produttori audiovisivi nazionali in mano estera, che non può reggere la capacità trasmissiva in DVB-T2 sulle reti terrestri, che perde ascolti e pubblico con la diffusione delle tv connesse, le uniche in vendita. Si rischia così di restare indietro e di farsi conquistare dalla televisione offerta dalle piattaforme in streaming.

Anni fa la televisione pubblica francese propose una Netflix europea ma la cosa non riuscì a decollare. Oggi Salto, il programma della piattaforma streaming di tutte le emittenti televisive francesi, deve chiudere

Da qui la guerra della prominence lanciata dagli editori televisivi rispetto agli accordi tra produttori di tv, Samsung in testa, e i colossi dello streaming, Netflix in testa rispetto a sistemi operativi e telecomandi che offrono l’accesso immediato a determinati servizi a pagamento (e presto, a pagamento ridotto ma con la pubblicità, in competizione diretta con gli editori televisivi). E che in alcuni casi non hanno i numeri da 1 a 9 sul telecomando per trovare i canali digitali terrestri. Una battaglia legittima e doverosa, ma di pura sopravvivenza.

Gli editori televisivi hanno (avuto) il merito di finanziare la produzione audiovisiva nazionale, a parte il giudizio su programmi e contenuti della tv generalista.  In Italia, e in Europa, non si può certo importare il modello coreano dell’hardware che finanzia il software audiovisivo: non abbiamo più un’industria dell’elettronica di consumo, grazie alla scelta politica di ritardare l’introduzione della tv a colori. Non abbiamo una Samsung che concorre a finanziare film e fiction coreani, poi mette il tasto Netflix sui propri telecomandi e su Netflix ci sono molte serie coreane. Così come non abbiamo reti via cavo grazie alla norma della riforma Rai del 1975 che legittimava solo il cavo “monocanale”, per salvare il monopolio di Sip e Rai. Da lì è iniziata la storia mai raccontata del sistema televisivo italiano, tanto concentrato in risorse, diritti e frequenze quanto “povero” nello sviluppo dell’industria dei contenuti e nelle risorse raccolte. Sistema che ora rischia di finire, come Pinocchio e Geppetto, in bocca alla Moby Dick di Internet e dello streaming.

Perché i pubblici non sono più tali, sono composti da individui che reagiscono a quanto ricevono, non solo cambiando canale: le Balene li guardano e prendono dati su di loro, poi usano i loro algoritmi per costruire l’offerta su misura di ciascun individuo.

E’ la tv che ci guarda. I dati su ogni singolo telespettatore sono la vera sfida per l’immediato futuro del sistema televisivo, se così può ancora chiamarsi. Oltre al fatto di un’intelligenza artificiale come ChatGPT in grado di realizzare un programma della Rai, quello di Alessandro Cattelan.    

Non sono più solo i giornalisti a poter essere sostituiti dalle macchine nel lavoro intellettuale, ma anche autori e sceneggiatori. Le implicazioni future sono tutte da scrivere (non da ChatGPT, possibilmente), dato che una delle principali motivazioni del canone e del servizio pubblico è il sostegno all’industria audiovisiva nazionale e ai soggetti che ne fanno parte. E chissà i dipendenti Rai cosa ne pensano.

P.S. Scusate se cito il mio intervento all’HD Forum ma resta aperto un problema che pochi hanno presente: quando l’immagine sarà in 4k, e poi, in 8k, qualsiasi genere televisivo dovrà essere pensato, scritto, realizzato e ripreso in modo diverso da come avviene oggi. Meno primi piani, più campi medi e lunghi. Un ritorno al vecchio caro cinema. Il linguaggio dell’informazione televisiva dovrà tener conto della visione di dettagli finora descritti a parole. Le aziende televisive si stanno riorganizzando per tener conto dei nuovi formati delle immagini e degli schermi riceventi?


[1] Vedi Marco Mele, “Regalo di Natale” su www.Tvmediaweb.it

[2] fonte: Anitec all’ultimo HD Forum di Roma) tenutosi il 25 novembre 2022.