de Sade

Democrazia Futura. Dove sono demonio e inferno nel Terzo millennio?

di Venceslav Soroczynski, Pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico |

Venceslav Soroczynski rilegge La filosofia nel boudoir o gli istitutori immorali. Dialoghi destinati all'educazione delle giovani fanciulle, 1795: "Il Marchese de Sade fa alle sue vittime quello che l'uomo fa costantemente, metodicamente, istituzionalmente, all'uomo".

Rileggendo il dialogo drammatico-filosofico del Marchese Donatien-Alphonse-François de Sade, La filosofia nel boudoir o gli istitutori immorali. Dialoghi destinati all’educazione delle giovani fanciulle, 1795, Venceslav Soroczynski si chiede “Dove sono demonio e inferno nel terzo millennio?” Secondo l’autore “Il Marchese de Sade fa alle sue vittime quello che l’uomo fa costantemente, metodicamente, istituzionalmente, all’uomo. L’uomo scrive costituzioni bellissime e pratica decreti nauseabondi. Lo Stato giudica malviventi e delinque. Il ministero della Difesa si prodiga nell’attacco. Lo scrittore francese non ci fa capire più niente. Dove sarà il male, se il male è lui? Come lo distinguiamo, quando diventa formazione? Adesso, non c’è più nemmeno il velo, c’è direttamente l’orrore del mondo, istituzionalizzato e reiterato. Il Marchese de Sade è la realtà senza la gentilezza. Nel terzo millennio, il principio di rovesciamento, di cui parla Gorret commentando La filosofia, è di cartone bagnato. Non sono “capovolti i valori educativi, il Bene in Male, il Dolore in Piacere”: gli insegnamenti alla piccola Eugénie sono già acquisiti con l’anagrafe. Il demonio è nel codice fiscale, prima missiva che giunge a ogni cittadino. L’inferno è nel commercio dei dati, nella finta privacy, nel controllo immersivo, nel comando a distanza, nel drone che uccide l’essere umano senza guardarlo in faccia, nell’informazione falsa, nella censura dei dissidenti. Quindi, il male dilaga e noi, in quel lago, siamo sulla scialuppa con una falla grande così”.

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Con meno coraggio, minor metodo, meno letteratura e, soprattutto, meno giustificazioni, siamo tutti dei piccoli Donatien-Alphonse-François de Sade. Ma gli siamo inferiori, perché non riusciamo ad andare fino in fondo allo slancio morente che è l’essere uomini, alla pulsione della edificazione-distruzione di cui siamo esempio nella storia dell’universo, all’espressione del male con le parole, alla coerenza fra i fatti e i manifesti.

Uno dei suoi primi detrattori, il deputato Puoltier D’Elmotte nel 1799 scrive: “Non è facile dire chi sia più degno d’essere bruciato, se l’opera o l’autore”, vagheggiando per il Marchese la pena che quest’ultimo faceva subire alle sue vittime nel libro. Si dimostra che il giustiziere è sempre più immorale del colpevole, al quale va quantomeno concesso il merito dell’originalità. La reazione è più orribile, si auto-giustifica e poi si auto-assolve e, per chi non legge solo i titoli del tempo, la prova è disponibile in ogni epoca.

Nel caso di Donatien-Alphonse-François de Sade, al coraggio si aggiunge l’esibizione dell’umanità che non è solo la sua, ma è quella della famiglia animale che si chiama uomo. Io somiglio a Dolmancé, a Madame de Saint-Ange, al cavaliere de Mirvel e voi pure. Somigliamo anche a Eugénie in quanto personaggio meno credibile della compagine (è più comprensibile che ella sopporti, e subito dopo gradisca, una sodomia passiva subìta a opera di membri esasperanti, di quanto venga attratta immediatamente dagli insegnamenti dei suoi due istitutori – non perché essi la conducano verso la depravazione, ma perché questa è già in lei: è già deviata con l’essere al mondo, dunque non è deviata. L’insegnamento al male non occorre).

È in questo che il Marchese de Sade appare ingenuo, arretrato, piccolo. Avrei capito di più un silenzio indagatore, nella ragazza, piuttosto che una reazione così espressa, aperta, immediata. E tutto il libro manca di suspense, anche se forse non voleva dotarsene. Il dialogo continuo è stressante dal punto di vista narrativo. L’azione passa sempre dal discorso diretto. C’è troppo voyeurismo, si è nella scena, si ode, si vede, si viene toccati fisicamente dalle mani di Eugénie, dalle labbra di Madame de Saint-Ange, dal sesso dei protagonisti maschili. Non c’è una proposta, non c’è intervallo temporale, non c’è il piacere dell’attesa. C’è direttamente ordine e atto. Come una macchina per scopare e pervertire.

E anche quella perversione è un edificio di vapore, è quasi finta, è quasi inutile.

Ciò che sarebbe decoroso è la norma luminosa affinché possiamo desiderare, nell’intimo – e noi, da noi, di nostra iniziativa, per nostra reazione – la deviazione e la perversione. Essa deve essere una risposta, una necessità, un urlo di esistenza-indipendenza, una manifestazione dell’essere. Il maestro deve essere all’antica, per farci desiderare la marina (o sega, o bigia, o fruscio, dipende da dove siete cresciuti).

Se il maestro è Satana come si fa a desiderare la turpitudine, il desiderio sordo, la brutalità del corpo? Se avessi un maestro come Il Marchese de Sade, lo lascerei nel boudoir a parlare da solo e a morire di caldo e me ne andrei a sentire ottanta coristi che fanno salire dalla navata al cielo una voce sola e pulsante su un’arca di musica d’organo. E solo allora, nel freddo della chiesa, cercherei gli abissi e i desideri sfrenati e la tortura dei sensi. Anzi, mi cercherebbero loro (se, a voi, i cori sacri fanno vedere gli angeli, fatevi un esame di coscienza e candidatevi alle comunali). Insomma, il Marchese annoia perché ci toglie il desiderio e l’immaginazione, ci sottrae l’intimo mistero del vietato. Ci anticipa nel doveroso e pericolante sforzo di arrivare noi in fondo al male.

Quando leggiamo le parole di Dolmancé, che sta torturando Madame de Mistival: “[la giustizia divina] rimarrà sorda alla tua voce, come lo è a quella di tutti gli uomini; mai la potenza dei cieli si è interessata alla sorte di un culo”, verrebbe da dirgli: “caro Donatien, che c’è di nuovo?” Dovevi finire in carcere per aver scritto questo? Il Marchese de Sade fa alle sue vittime quello che l’uomo fa costantemente, metodicamente, istituzionalmente, all’uomo. L’uomo scrive costituzioni bellissime e pratica decreti nauseabondi. Lo Stato giudica malviventi e delinque. Il ministero della Difesa si prodiga nell’attacco. Lo scrittore francese non ci fa capire più niente. Dove sarà il male, se il male è lui? Come lo distinguiamo, quando diventa formazione?

Eppure, quando trovai, da ragazzo, questo libro sul comodino di mia nonna – lettrice avidissima che consultava testi che vanno dalla storia di padre Pio a, appunto, il Marchese de Sade – me lo procurai con altri mezzi e lo lessi attentamente. Sottolineai i passi più spinti, perché quelli stavano dietro il velo. Adesso, non c’è più nemmeno il velo, c’è direttamente l’orrore del mondo, istituzionalizzato e reiterato. Il Marchese de Sade è la realtà senza la gentilezza. Nel terzo millennio, il principio di rovesciamento, di cui parla Gorret commentando La filosofia, è di cartone bagnato. Non sono “capovolti i valori educativi, il Bene in Male, il Dolore in Piacere”: gli insegnamenti alla piccola Eugénie sono già acquisiti con l’anagrafe. Il demonio è nel codice fiscale, prima missiva che giunge a ogni cittadino. L’inferno è nel commercio dei dati, nella finta privacy, nel controllo immersivo, nel comando a distanza, nel drone che uccide l’essere umano senza guardarlo in faccia, nell’informazione falsa, nella censura dei dissidenti. Quindi, il male dilaga e noi, in quel lago, siamo sulla scialuppa con una falla grande così.

Mi ha provocato meno orrore questo libro che il capolavoro orwelliano, quello sì, bibbia del più oscuro strato dell’inferno. Se volete scandalizzarvi, dunque, leggete 1984 e rimettete La filosofia sugli scaffali. L’obiettivo minimo della filosofia, quella senza corsivo, oggi, è l’insegnare a riconoscere il vero dal falso. O, meglio ancora, la realtà della finzione: come disse Juergen Habermas, “L’unica facoltà che potrebbe oggigiorno caratterizzare l’intellettuale è il fiuto avanguardistico per ciò che è rilevante.”.

E, qui, George Orwell ha appunto tutto da insegnarci.

Appare quasi tenera l’istitutrice sadica che, accarezzando la ragazza, promette alla discinta assemblea: “non tralascerò nulla per pervertirla, per degradarla, per rovesciare in lei tutti i falsi principi morali con cui l’avranno già intontita; in due lezioni, voglio renderla scellerata quanto me… altrettanto empia… altrettanto dissoluta”.

Ebbene, cara Saint-Ange, abbiamo già combinato, come si dice qui a nord-est. Non sei più di alcuna utilità, né scandalo.

L’infondata misoginia di Dolmancé, che sostiene esservi più crudeltà fra le donne che fra i maschi, suona sminuente e sminuita dalla misoginia di chi uccide deliberatamente i figli di quelle madri, di chi li manda in guerra. Nessuno può permettersi di giudicare il Marchese de Sade se, con un ordine, può mandare alla morte qualcun altro per di più restando incolume egli stesso. La gerarchia, il governo, la catena di comando, essi sono il male. Amleto dice “vedo promessi alla morte ventimila soldati correre alla tomba come a un giaciglio, per una fantasia, per una ripicca, sgozzarsi per un’aiuola che non li conterrebbe”.

Tutto il nostro mondo è più empio del Marchese de Sade e di tutti i suoi personaggi. L’adulterio, la bestemmia, la tortura, il matricidio, il parricidio, l’incesto, il contagio doloso, il tradimento degli amici sono tutte cose che facevamo prima del Nostro e che facciamo anche dopo, egli ha solo aperto la finestra per cambiare l’aria attorno alla fine del Settecento.

E i suoi protagonisti sono uomini come noi, ai quali l’autore ha solo sfoderato l’anima come noi sfoderiamo il copridivano e con l’attenuante di non lavare loro la coscienza come noi facciamo con la nostra. Anzi, noi selezioniamo la realtà in modo tale da far finta che non ce la siamo mai sporcata. Siamo molto più orribili del Marchese de Sade. Oggi, non ho alcun dubbio. Se il centro del sadismo può epigrafarsi con le parole di Dolmancé: “Che ci importano i dolori procurati al prossimo? (…) A che titolo dovremmo evitargli un dolore che non ci costerà mai neppure una lacrima, quando è certo che da questo doloro nascerà per noi un grande piacere?”, altre prescrizioni sembrano una evoluzione di Nicolò Machiavelli (peraltro citato espressamente nel Terzo dialogo), applicate giornalmente da Caino in poi: “se agisce sul debole, colpendo soltanto un individuo che cede al forte per legge di natura, [la crudeltà] non presenterà il minimo inconveniente.”

Insomma, il Marchese de Sade non è un sadico, è qualcosa che sta a metà fra uno psicologo senza laurea e uno storico senza cattedra. E la cattedra non dovette avercela perché, nel suo libro, a fianco a tesi correnti e peraltro mai smentite – se Dio esiste ed è buono, perché permette il male? Come può essere contronatura la sodomia, se provoca piacere? – se ne annoverano altre più incomprensibili: l’omicidio non è una distruzione, chi lo commette non fa altro che modificare delle forme; se si possiede la spada della legge, si può servirsene per soddisfare le proprie passioni. E forse anche perché alcune tesi sono vagamente incoerenti con le altre: da un lato si sostiene che “Plasmàti unicamente dal sangue dei nostri padri, non dobbiamo nulla alle nostre madri; esse, d’altronde, si sono solo prestate all’atto, mentre il padre l’ha provocato” e, dall’altro, e poco dopo, che un figlio “quand’anche fosse già al mondo, saremmo sempre padrone di sopprimerlo. Non c’è sulla terra diritto più certo di quello delle madri sui loro figli”.

Insomma, il nostro piccolo uomo francese si confonde, ma non ci confonde.

Quindi, come dice Saint-Ange, “mettiamo un po’ di ordine in queste orge; ne occorre anche nel delirio e nell’infamia” e andiamo alla conclusione. Il sesso nel Marchese de Sade è una falsa pista. Le copertine col pube femminile sono un errore iconografico. Il sottotitolo “la bibbia dell’erotismo” è un errore lessicale. Tutto ciò è, nel nostro secolo edonista-pubblicitario-esibizionista, solo il fondale del palcoscenico. Nel boudoir si scopa per parlare d’altro fra un orgasmo e l’altro. La descrizione degli amplessi – quasi sempre in prima persona e in forma di ordini – letta oggi, è quasi tenera. L’invito alla giovane ragazza: “Fotti, insomma, fotti: è per questo che sei al mondo; nessun limite ai tuoi piaceri se non quello delle tue forze o delle tue volontà; nessuna eccezione di luogo, di tempo e di persona: tutte le ore, tutti i posti, tutti gli uomini devono servire la tua voluttà. (…) il tuo corpo appartiene a te, a te soltanto; tu sola hai diritto di goderne e di farne godere chi ti piace”, superato il nodo della maggiore età, appare pre-rivoluzionario e nulla più. Gli editori e i lettori che si concentrano sul sesso possono rinunciare solo a questo, poiché, evidentemente, tutte le altre nefandezze sono territorio già conquistato. Quindi chi è senza peccato sfogli la prima pagina.

Ma lo stesso Autore, sa cosa ha scritto e ne ravvisa anche i rischi puramente letterari. Dopo che la Saint-Ange ha urlato: “Ah, cazzo, cazzo! Venite quando volete… io, per me, non resisto più! Cristo d’un Dio, di te me ne frego!… Dio finocchio, sborro!… Inondatemi, amici miei… inondate la vostra puttana… lanciate i fiotti del vostro sperma schiumoso fino in fondo alla sua anima ardente: vive solo per riceverli in sé!… Ahi! cazzo!… cazzo!… che piacere incredibile!… sto morendo!… Eugénie, lascia che ti baci, che ti mangi, che divori il tuo sperma, mentre sto perdendo il mio…”, l’Autore annota un corsivo tra parentesi: “il timore di essere monotoni ci trattiene dal riportare espressioni che, in quei momenti, si somigliano tutte”.

Insomma, tutto considerato, il Marchese de Sade è un realista lucido e ben al di qua dello scandalo.

Ma sarò certo io a rattristarvi il fine settimana lungo. Quindi vi saluto con una curiosità e un passo lungimirante. La prima è questa: nel “Quinto dialogo”, dopo che una scena di sodomia si è conclusa con l’orgasmo di tutti, uno dei protagonisti invita le signore: “Al bidè, signore, al bidè!” e una di esse risponde: “No, in verità, a me piace così, mi piace sentire lo sperma nel culo: non lo restituisco mai quando ce l’ho”.

Ecco un contributo al decrescente destino del nominato sanitario.

Il secondo sono le parole di Dolmancé il quale, in una lunga dissertazione sulla distruzione, stende tutta la sua saggezza sui due secoli a venire: “Che le importa [alla natura] che la razza degli uomini di spenga o si annienti sulla terra? Essa ride del nostro orgoglio per cui tutto finirebbe se questa sciagura avvenisse! In realtà lei non se ne accorgerebbe neppure! (…) L’intera specie umana potrebbe essere annientata e non per questo l’aria sarebbe meno pura”.