rituali e cerimonie

Democrazia Futura. Mitologia funeraria: da Elisabetta II a Pelé e Benedetto XVI. La funzione degli old media

di Guido Barlozzetti, conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore |

Tra riti collettivi e cerimonie mediatiche, in poco tempo abbiamo partecipato ai funerali della Queen Elizabeth, di Pelé e, a Capodanno, di Benedetto XVI. La riflessione di Barlozzetti.

Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

Guido Barlozzetti analizza per Democrazia futura la funzione esercitata da vecchi media di massa in occasione della scomparsa di tre personalità così diverse ma con vari punti in comune come Elisabetta, Pelè e Benedetto XVI. Tre numi tutelari assurti a mito. Il loro Funerale diventa al contempo celebrazione dell’apoteosi  e strumento di elaborazione del lutto, mettendo in luce l’ambiguità della partecipazione mediatica e quello che Jacques Lacan definisce come il “manque à  être” ovvero “la mancanza  che riguarda il soggetto che è anche lo spettatore di queste cerimonie”.

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Una così copiosa e clamorosa mitologia funeraria desta qualche sospetto. Che non è poi così ovvia come sembra e forse ci racconta qualcosa dei noi e della funzione di quelli che fino a qualche tempo fa chiamavamo “mezzi di comunicazione di massa”.

In poco tempo abbiamo partecipato ai funerali della Queen Elisabeth, di Pelé e, a Capodanno, di Benedetto XVI. Certamente, c’è al lavoro il caso dell’anagrafe che fa nascere e morire e non sceglie secondo una qualche logica, e però c’è anche un investimento mediatico e collettivo su queste personalità, e in particolare sulla loro dipartita che, invece, non si risolve affatto in una circostanza occasionale.

Tre personalità così diverse ma con vari punti in comune

Cosa hanno in comune la più longeva Regina d’Inghilterra, il più grande calciatore di tutti i tempi (lasciamo da parte la controversia che attorno al primato si è subito accesa con Diego Maradona) e il Papa della (seconda) Grande Rinuncia?

La prima constatazione è che poco abbiano a che fare l’uno con l’altro, così radicalmente diversi, come possono esserlo la Corona, il Pallone e l’Anello piscatorio.  Ma poi ci si accorge che alcune trasversalità ci sono e vanno ben oltre le apparenze.

Tutti e tre sono figure di un potere, quello regale della Regina, l’abilità impareggiabile di un calciatore e l’autorità spirituale di un Pontefice, tutti e tre significativi di un record che li impone all’attenzione globale e li estrae dagli ambiti specifici, di nazionalità, di competenza e di ruolo,  in cui si sono mossi: nel caso di Elisabetta la lunghezza del regno e il carisma regale con cui si è imposta e nel tempo è stata percepita; per Pelé il numero spropositato dei gol la loro qualità tecnica ed estetica; per il Papa la Rinuncia al ministero, un gesto rivoluzionario che ha solo il precedente – diverso – del “gran rifiuto” di Celestino V nel dicembre del 1294.

Dunque, stiamo parlando di personalità che hanno ciascuna un titolo che le solleva rispetto alla “specie” a cui appartengono – i Re e le Regine, i Papi e il Calciatori – perché si presentano con una eccezionalità che li distingue, esattamente come fa il titolo di un giornale o di un Tg, e li impone all’attenzione universale, esattamente come quel pubblico sterminato li elegge, in una psicologica proiezione, a oggetto di ammirazione. Tra l’altro, tutte e tre passate nel discorso sociale con epiteti diversi dal loro nome “originario”. Pelé si chiamava Edson Arantes do Nascimiento e avrebbe preferito quell’Edson che il padre gli aveva messo per ricordare l’inventore americano Thomas Alva Edison. Joseph Ratzinger “scompare” dietro al titolo papale di Benedetto XVI. Quanto alla Regina, resta sì Elisabetta, ma nella linea della monarchia con quel nome diventa la seconda, dopo la Gloriosa Elisabetta.

Volendo, potremmo ulteriormente articolare lo scarto mitizzante con cui si offrono al palcoscenico dei media.

La Regina ha finito per coincidere con l’autorevolezza di un potere, per il suo equilibrio, per un’immagine che nessuna ombra ha potuto scalfire (neanche la vicenda drammatica della morte di Lady Diana Spencer che pure mise a dura prova la Royal Family), per una sorta di distaccata superiorità rispetto al tempo degli avvenimenti, più forte delle contingenze, tale da spostarla su un altro piano rispetto alla quotidianità e persino alla storia.  Il tutto completato anche da un sottile filo d’ironia, sia personale, in una corrispondenza tra il modo in cui la sua immagine si è proposta e quello in cui è stata assunta dal discorso dei media: i soprabiti color pastello, i cappelli, la borsetta, gli adorati corgies…

Pelé è assurto a figura di un’onnipotenza calcistica, quintessenza della fantasia del calcio brasiliano, ineguagliabile concentrato di virtù, velocità, dribbling, intelligenza, tiro, al punto da impersonare al più alto livello possibile il protagonista di un gioco che è diventato globale, una di quelle cerimonie che muovono audiences immense e che ormai si svolgono a tempo pieno, con gli hits dei Mondiali. A creare un’ulteriore onda emotiva, la malattia del campione e la sua curva verso l’epilogo. Pelé non ha mai derogato a un profilo d’immagine che potremmo definire “apollineo” (di contro al “dionisiaco” competitor argentino, trasgressivo ribelle) di ambasciatore del gioco del calcio, senza tradire interferenze e ombre – politica, mercato… – che lo spostassero altrove (e che in effetti in alcuni momenti sono intervenute, come quando avallò con il carisma di vincitore del Mondiale del 1970 il governo militare del Brasile).

Quanto a Benedetto XVI fattori diversi hanno concorso alla sua immagine: il ruolo di Prefetto di una Congregazione che rimandava al Sant’Uffizio e dunque di acerrimo difensore della Fede, un esordio papale che arrivava dopo il Papato-spettacolo ipermediatico di Giovanni Paolo II e si proponeva, almeno all’inizio, con marcati tratti della tradizione, esibiti ad esempio nell’abbigliamento – il camauro, le scarpe rosse… –  e poi con un’immagine di mitezza che si accompagna alla sofferenza, fino alla discontinuità che lo mette nella Storia, la Grande Rinuncia. E, dopo. la coabitazione con il successore, Papa Francesco, con lo status di Papa Emerito che, pur restando sullo sfondo, impersona una visione della Chiesa certamente non omologa a quella di Bergoglio (memorabili comunque le immagini degli incontri dei due Papi).

Va detto che un Pontefice come Joseph Ratzinger sembrerebbe smentire la logica dell’immagine e della presenza che ne costituisce il fondamento. Rispetto a un predecessore bulimico di comunicazione ha rarefatto le apparizioni, sottraendosi ai media, per una desuetudine caratteriale all’esibizione, e però anche per un’idea severa della funzione, più prossima al silenzio, e semmai alla densità della parola che deve ispirare il magistero, che al vociare indistinto della chiacchiera. Ciò ha contribuito a non consumare l’immagine e a presentarla all’appuntamento con la morte con sobrietà e con “l’assenza presente” degli ultimi anni, in cui Benedetto – senza la pubblicità di gesti e reazioni – ha fatto sentire il suo peso se non altro per il solo fatto di esserci e di ricordare una Chiesa certamente diversa da quella interpretata dal suo successore.

Tre numi tutelari assurti a mito

Ora, se il Mito si dà per una connotazione che raddoppia di senso rispetto alla normalità della realtà quotidiana in una sorta di sovraccarico di senso che individua una personalità e al tempo stesso ne fa un immediato e riconoscibile riferimento collettivo, i nostri tre protagonisti, come abbiamo visto, hanno con le diversità ricordate le carte in regola.

In effetti, non bisogna necessariamente attendere la morte, perché vengano assunti in questa dimensione, anzi i caratteri predisponenti creano le condizioni perché vi si concentri uno sguardo universale e si realizzi la metamorfosi mitopoietica.

Può essere un atteggiamento e un modo di interpretare un ruolo, insomma uno stile (la Regina Elisabetta), una eccellenza sportiva sostenuta da una destrezza impareggiabile (Pelé) o la “timidezza” e poi un evento straordinario – la decisione di lasciare – che fa rileggere tutto il percorso del protagonista (Benedetto XVI).

Aspetti molto diversi che però centrano le attese del pubblico: una Regina sentita come affidabile e via via diventata una sorta di materna e regale protettrice, più forte dell’età che avanza, forse addirittura capace di sconfiggere la morte; un campione che impersona il desiderio/piacere vitale di giocare e “al posto nostro” compie gesti memorabili come nessuno mai; un Papa – già di per sé in una posizione che lo mette in una distanza oltreumana di mediatore con la divinità –  che rivela una fragilità tutta umana, una debolezza che sembrerebbe incompatibile con il ruolo, e invece assume una decisione sconvolgente e nella modernità inaudita, e la mantiene con sofferente coerenza.

Dunque, Elisabetta regna con noi, Pelé gioca con noi e Ratzinger soffre con noi.

Sono questi profili che ce li portano in casa e li fanno diventare compagni della nostra quotidianità, venendo a comporre una squadra di numi tutelari che hanno una funzione che solo pochi possono ricoprire, perché a loro, alla loro immagine, si delega il compito di riempire i buchi dell’esistenza – la ricerca e la testimonianza di un Senso,  il desiderio della Bellezza che si sublima in un gesto, la discontinuità drammatica e inesplicabile tra la vita e la morte… – e di andare al cuore di un inconscio smarrito e timoroso. Ancor più in questo tempo di crisi – guerre, pandemie, povertà, climate change…. – che accentua il bisogno di “pilastri” a cui ancorarsi.

Queste personalità-mito costituiscono l’Olimpo di una modernità tutta mondana che evidentemente ha bisogno di uscire dalla contingenza secolare e per questo si alimenta delle figure di un’umanità… sovrumana che vive nello spazio separato e contiguo dei media, in particolare della televisione.

Sono i media, infatti, e la tv in particolare che ci consentono di entrare a Buckingham Palace, sul campo di calcio del Santos (l’unica squadra in cui Pelé abbia giocato a parte il capitolo conclusivo dei Cosmos di New York) o delle partite dei Mondiali (tre) vinti o di accedere alle remote stanze vaticane, o di assistere alle manifestazioni papali.

Questi miti mantengono la distanza che li fonda nella prossimità della televisione – un aspetto decisivo, irraggiungibilità e vicinanza insieme – e il fatto di vederli nel salotto di casa fa sì appunto che possiamo avvicinarli, sentirli nostri e appagarci delle loro virtù, non per questo sottoponendoli a una contaminazione, alla diminutio che comporta l’ambiente domestico.

Appaiono nella televisione-tabernacolo e ci permettono una condivisione che non pregiudica la separatezza necessaria su cui nasce l’aureola del mito.

Il funerale come celebrazione dell’apoteosi e strumento di elaborazione del lutto

Il culmine di questo rapporto si raggiunge con la cerimonia del Funerale.

Non è certo una novità che si palesa con i Protagonisti di cui stiamo parlando, i Funerali, nell’epoca della Televisione, compaiono tra le grandi cerimonie-evento ospitate e officiate dal medium. Insieme ai Matrimoni, alle Inaugurazioni, alle grandi Ricorrenze…

Ne abbiamo visti, anzi abbiamo già largamente partecipato: le esequie precedute da una lunga e irreversibile malattia, pubblicamente esibita, di Giovanni Paolo II, con il fiume interminabile di fedeli che andarono a salutarlo; quelle dell’ecumenico segretario del PCI Enrico Berlinguer e l’addio a Lady Diana Spencer – morti diverse ma improvvise e inattese, tali da suscitare un sentimento di unanime partecipazione – o quelle di divi, magari più local che global, della nostra televisione, come nel caso di Raffaella Carrà.

È il momento del rito rammemorante in cui si ripercorre una vita, l’occasione per tributare la Riconoscenza e per sancire il passaggio definitivo.

I miti della modernità, come questi di cui stiamo parlando, muoiono e la morte mentre ne conclude l’esistenza, la proietta nella dimensione assoluta della memoria che sottrae all’oblìo e accoglie definitivamente nell’album dei talismani che soprintendono alla nostra vita e vegliano su di essa.

Sono morti, siamo quasi stupiti che sia potuto accadere e tuttavia non li dimenticheremo mai, saranno sempre con noi. La morte, proprio nel momento in cui viene a sottrarceli ce li avvicina e cementa il rapporto per sempre. In qualunque momento potremo farli risorgere, ormai fissati nelle immagini che di sé ci lasciano e che possiamo recuperare e rivivere grazie alla tecnologia che tutto registra e conserva.

Il Funerale, in questo senso, è una cerimonia collettiva che viene celebrata nella cattedrale della televisione e consente di elaborare il lutto e dare l’ultimo saluto a chi ci ha accompagnato nelle vicissitudini della vita.

Perché assolva al meglio a questa funzione psico-antropologica viene costruito secondo un’attenta scansione dei tempi e delle fasi.

Nei giorni immediatamente successivi, i palinsesti vengono “occupati” da rievocazioni e commenti agiografici, viene allestita un’esposizione: la bara chiusa della Regina, quella aperta per Pelé e, nel caso del Papa, il corpo con i paramenti. I fedeli passano per l’ultimo saluto alle spoglie, estrema certificazione analogica di chi è morto, e chiudono il cerchio del rapporto che li ha legati in vita.

Infine, il Rito vero e proprio del Funerale in luoghi necessariamente simbolici: nell’Abbazia di Westminster, nello stadio del Santos, nella Basilica di San Pietro. Poi la Sepoltura, ma a quel punto lo sguardo pubblico è interdetto, c’è ancora un limite di privatezza che non può essere oltrepassato.

L’ambiguità della partecipazione mediatica alle cerimonie e le manque à être, del telespettatore

Le cerimonie vengono riprese e trasmesse dalla televisione, e diventano accessibili in tempo reale sui siti e s’impongono al flusso delle news.

Questa evidenza però deve fare i conti con un’ambiguità: tanto il momento della scomparsa del mito – a conferma di una sua umanità legata alla temporalità del calendario e dunque diversa dalla natura atemporale dei miti della classicità – è totalizzante, tanto viene preso, immediatamente dopo, nel fluire delle news, fino a consumarsi rapidamente e, semmai, ad essere “sostituito” da un altro. Insomma, assistiamo a un’oscillazione tra un’intensità simultanea che si intreccia con una diluizione nella diacronia in un diagramma che si alza, si abbassa e torna a rialzarsi. Così come la partecipazione emotiva che investe via via sulle cerimonie che si susseguono.

Ora, non è detto che chi si commuove per la Regina Elisabetta sia colpito anche da Pelé o da Benedetto. È plausibile che ci siano delle simpatie e delle devozioni preferenziali, però è altrettanto plausibile che ci sia un sentimento legato alla partecipazione in quanto tale.

Viene, cioè, da pensare alla pressione di un “voglio esserci” che dipende dal clamore mediatico della scomparsa e dalla vetrina che i mezzi di comunicazione allestiscono – compreso, ormai, l’accompagnamento social che consente a chiunque di intervenire e commentare – trasversale alle individualità delle personalità scomparse.

E in questa partecipazione pare di cogliere l’ambiguità di un bisogno e di un disagio.

Da un lato, il senso di vuoto che personalità così potenti lasciano, e dunque lo smarrimento che ne consegue, connesso anche a un’eccezionalità di per sé rassicurante, tanto più nella deriva dei punti di riferimento e nel passaggio/crisi che stiamo attraversando.

Dall’altro, la necessità di elaborare e colmare simbolicamente la mancanza e dunque la coazione a partecipare, in un continuo rilancio metonimico. Dico della mancanza, l’ex-sistere di cui parla Jacques Lacan [1], il manque à être, dunque, che riguarda il soggetto che è anche lo spettatore di queste cerimonie.

E l’amore, in questo quadro, è la domanda che viene rivolta all’altro che da parte sua non può dare risposta.

Da questo punto di vista la perfezione (transeunte) del mito potrebbe essere letta come un tentativo di colmare quel vuoto che a un certo punto deve confrontarsi con la scomparsa, la morte dell’oggetto mitico.

Insomma, in questa parabola dei miti si allestisce una scena in cui si va a svolgere, sia detto con una sintesi che va a toccare il punto profondo di contatto con il soggetto, il gioco della vita mancante e della morte, dell’esteriorità assoluta a sé stessi.

Il funerale lo mette in scena e nella sua codificata configurazione rituale consente di accoglierne tutte le compresenti ambiguità.

Il mito che affonda le radici nell’economia dell’inconscio e dei sostituti rassicuranti che cerca e costruisce, nel Grande Funerale si esalta proprio nel momento in cui viene meno.  Il soggetto partecipa a un rituale che elabora un lutto che non riguarda tanto e solo l’oggetto mitico ma il suo darsi come proiezione risolutiva del manque: partecipando a quel Funerale si saluta e si ringrazia l’oggetto e al tempo stesso si piange per il venir meno di quella funzione.

Il rito mette in scena e consente di padroneggiare la deriva del soggetto.  E lo riapre a una nuova ragione di vita, mentre l’insuperabile mancanza continua il suo lavoro.

Un interrogativo in conclusione

Nell’omelia letta durante il Funerale di Benedetto XVI, il Papa Francesco esordisce citando il Vangelo di Luca: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”. Dio – e non è il caso di fare la psicoanalisi o una traduzione filosofica al discorso del Papa – colma ogni mancanza e lo spirito viene accolto e si riconcilia con Lui.

E conclude:

“È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito”. Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!”.

Che la Fede, la filosofia dell’Essere e il vuoto nel discorso dell’Io sul lettino dell’analista o davanti a un televisore non dicano della stessa Cosa?


[1] Jacques Lacan, Le Séminaire, Livre II, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de l’analyse, Paris, Seuil, 1980, Tome 2, p. 267: “Le désir est la relation d’être au manque. Le manque est le manque à être à proprement parler. Ce n’est pas le manque de ceci ou de cela mais le manque à être par lequel l’être existe”.