Anniversari

Democrazia Futura. Cento anni dopo John Reith: quello che resta dei servizi pubblici radiotelevisivi nella società digitale

di Pieraugusto Pozzi, Segretario generale Associazione Infocivica – Gruppo di Amalfi |

Prosegue la riflessione di Democrazia futura in previsione del centenario nel 2024 dell'inizio delle trasmissioni radiofoniche in Italia e del settantesimo anniversario di quelle televisive.

Pieraugusto Pozzi

Pieraugusto Pozzi esamina “Cento anni dopo John Reith: quello che resta dei servizi pubblici radiotelevisivi nella società digitale[1]“. Confrontando i dati negli ultimi ventun’anni il segretario di Infocivica osserva come “in Italia, nel 2000, il mercato pubblicitario ammontava a circa 7 miliardi di euro: Rai e Mediaset si spartivano gran parte della pubblicità televisiva (si parlava perciò di duopolio) che valeva il 60 per cento degli investimenti pubblicitari, la stampa assorbiva più di un terzo del mercato, il resto era ripartito tra la radio (5 per cento) e le altre tipologie di comunicazione. Nel 2021, tale valore è stimato in 8,9 miliardi: la quota della televisione è inferiore al 42 per cento, la radio è al 4 per cento, la stampa è scesa sotto l’8 per cento, mentre la raccolta pubblicitaria su internet, egemonizzata dai Big Tech, oltre il 42 per cento, supera il mezzo televisivo”.

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Cento anni fa, la BBC di John Reith modellò la straordinaria dimensione sociale e culturale della radiodiffusione. Un sistema sincrono di connessione delle menti per informare, educare, intrattenere un pubblico universale che superava i limiti di spazio, tempo, materialità delle tecniche di connessione esistenti: linguaggio, scrittura e stampa. Nel Novecento, nelle società avanzate, il quarto potere dei giornali si è confrontato con il quinto potere dei monopoli nazionali di servizio pubblico e degli oligopoli privati della radiotelevisione. Nel nuovo millennio, la convergenza digitale ha prodotto l’universo di umani e macchine nel quale la mediazione verticale e unidirezionale dei mass-media (dall’alto al basso, dal centro alla periferia) si confronta con il sesto potere della disintermediazione orizzontale e interattiva delle grandi piattaforme Big Tech e dei social-media. È allora lecito chiedersi cosa resti del modello di servizio radiotelevisivo pubblico ideato da John Reith e quali possano esserne i destini nell’informazione e comunicazione locale e globale, profondamente trasformate negli ultimi vent’anni. Accingendomi all’esplorazione, ho fatto ricorso, con sincera curiosità, all’oracolo digitale (meno poeticamente, all’algoritmo) di intelligenza artificiale Chatbot-GPT3 di OpenAI [1]. Il 14 dicembre 2022, gli ho posto un paio di domande. Le risposte, pronte in pochi attimi e riportate di seguito, inquadrano il tema dimostrando le capacità di sintesi (e i limiti) dell’automa. Ma non suggeriscono prospettive “più intelligenti”. Almeno per ora…

Autore: what are the evolutionary perspectives of mass media?

Chatbot: I’m sorry, but I am not able to browse the internet and do not have information on the evolutionary perspectives of mass media. I am a large language model trained by OpenAI, and my knowledge is limited to the text that I have been trained on. I can answer general questions and provide information on a wide range of topics, but I do not have access to the latest information or news. Is there something else I can help you with?

Autore: what do you know about mass media?

Chatbot: Mass media refers to the various means by which information and entertainment are disseminated to the public, such as television, radio, newspapers, and the internet. These forms of media play a significant role in shaping public opinion and informing the public about current events and issues. Mass media can also be a powerful tool for influencing people’s attitudes and behaviors. Some critics argue that the concentration of ownership of mass media in the hands of a few large corporations can limit the diversity of voices and perspectives that are represented in the media.

Dal broadcasting analogico nazionale allo streaming digitale globale

La radio, intesa come mezzo di comunicazione diretto al pubblico, prima di pochi poi di massa, nacque quando gli apparati di radiocomunicazione (wireless), che Guglielmo Marconi aveva cominciato a sperimentare nel 1895 [2], furono applicati per la diffusione circolare del segnale. Ovvero un sistema di comunicazione, in origine analogico oggi numerico, che usa onde elettromagnetiche e permette ad una stazione trasmittente di inviare segnali (audio o video) su canali unidirezionali a qualsiasi apparato ricevente posizionato nell’area di copertura. La stazione trasmittente non invia dunque messaggi a singoli destinatari o per ambiti specifici (militari, di servizio, di emergenza) ma diffonde in broadcasting contenuti audiovisivi (suoni, voci e immagini dei programmi del palinsesto) ad un pubblico sempre più vasto di ascoltatori che effettivamente, nell’esperienza quotidiana, videro entrare la radio e, nel Secondo dopoguerra, la televisione. Sistemi di comunicazione di massa, protagonisti della modernità analogica ora solo comprimari, come la stampa quotidiana e periodica, dell’ipermodernità della convergenza tecnologica digitale. Come confermano i dati Nielsen sulla raccolta pubblicitaria: in Italia, nel 2000, il mercato pubblicitario ammontava a circa 7 miliardi di euro: Rai e Mediaset si spartivano gran parte della pubblicità televisiva (si parlava perciò di duopolio) che valeva il 60 per cento degli investimenti pubblicitari, la stampa assorbiva più di un terzo del mercato, il resto era ripartito tra la radio (5 per cento) e le altre tipologie di comunicazione. Nel 2021, tale valore è stimato in 8,9 miliardi: la quota della televisione è inferiore al 42 per cento, la radio è al 4 per cento, la stampa è scesa sotto l’8 per cento, mentre la raccolta pubblicitaria su internet, egemonizzata dai Big Tech, oltre il 42 per cento, supera il mezzo televisivo.

Con la convergenza digitale, la trasmissione di contenuti audiovisuali in streaming diventa tecnicamente e commercialmente possibile attraverso le reti fisiche di telecomunicazione a larga banda e si afferma progressivamente in luogo del broadcasting: come noto, lo streaming è la tecnica di distribuzione, nativamente numerica, basata sul flusso informativo che una sorgente (un server digitale) invia attraverso la rete, in tempo reale o differito, su richiesta del destinatario.

Per molti decenni la storia dei servizi di radiodiffusione è stata una collezione di storie nazionali: per i confini territoriali delle emissioni e per la caratterizzazione linguistica e culturale dei contenuti. E per regolamentazione normativa. La radiodiffusione richiedeva infatti, da un lato, l’uso regolato di un bene comune limitato (lo spettro elettromagnetico), dall’altro, ingenti investimenti nelle reti geografiche di trasmissione. Il broadcasting si affermò come monopolio legale in Europa e come oligopolio di operatori privati negli Stati Uniti: servizi pubblici e privati di radiodiffusione si affiancarono alla stampa e all’industria culturale con una capillarità di massa.

In Europa, negli anni Ottanta si avviarono le prime iniziative di internazionalizzazione con i primi operatori e palinsesti multilingue e, negli anni Novanta, anche i mercati dei servizi di radiodiffusione diventarono continentali e globali. Sia perché divennero disponibili servizi di ricezione satellitare diretta, sia perché i servizi di radiodiffusione furono liberalizzati e privatizzati, innescando l’affermazione di operatori privati transnazionali. Oggi, lo scenario digitale della comunicazione ha chiuso la golden age del broadcasting ed ha aperto l’epoca ibrida di convivenza con lo streaming, distribuzione di contenuti via rete e a richiesta che consente all’utente di configurare un proprio personale palinsesto [3]. La convergenza digitale e il cambiamento socio-culturale hanno progressivamente trasformato la mediazione verticale e unidirezionale dei mass-media (dall’alto al basso, dal centro alla periferia) nella (apparente) disintermediazione orizzontale e interattiva dei social-media. Cambia il pubblico, cambiano i mercati e dunque cambiano le strategie degli operatori, come conferma la presidente della Rai Marinella Soldi:

«Il servizio pubblico deve essere capace di parlare a tutte le generazioni, a tutti i cittadini … per questo la Rai deve trasformarsi in media company digitale: all’esterno con linguaggi e prodotti adeguati ai tempi e su tutte le piattaforme; all’interno, con un cambio di cultura mentalità competenze modo di lavorare… la transizione digitale è un’emergenza, non è rinviabile. Non c’è tempo da perdere» (Comunicato stampa Rai, 12 luglio 2022).

Una reinvenzione digital first che porterà, per esempio, la BBC a chiudere e unificare canali tv e radio (BBC News assorbirà BBC World News) e a incrementare l’offerta di canali solo streaming.

La trasformazione digitale trova conferma nei dati. Secondo una rilevazione Nielsen, negli Stati Uniti, a giugno 2022, i servizi in streaming assorbono un terzo del tempo speso dai telespettatori (33,7 per cento), solo un anno prima il dato era 27 per cento. In Italia, secondo l’Osservatorio Digital Content del Politecnico di Milano [4]:

«il 45 per cento degli utenti Internet italiani fruisce di contenuti a pagamento, sia in abbonamento sia tramite acquisti singoli. Il video intrattenimento è il contenuto più fruito a pagamento (42 per cento degli utenti Internet). Il video entertainment – secondo settore, dopo il gaming, per incidenza sul totale della spesa – è il comparto che cresce con il ritmo più elevato: +33 per cento rispetto al 2021, superando gli 1,3 miliardi di euro, cui corrisponde un dato positivo della raccolta pubblicitaria: +22 per cento rispetto al 2021. Il modello ampiamente predominante è quello in abbonamento a piattaforme SVOD (Subscription Video On Demand); mentre il modello TVOD (Transactional Video On Demand), basato su acquisto o noleggio di singoli contenuti genera, oramai, una piccola percentuale della spesa complessiva, mentre , il modello “adv-based” sta riscontrando sempre più attenzione con nuove iniziative AVOD (Advertising Video On Demand) delle principali piattaforme e con lo sviluppo di canali FAST (Fast Ad Supported Tv) per la programmazione lineare».

Con Netflix, arrivata in Italia nel 2015, competono oggi una decina di operatori, che offrono servizi video a pagamento a 18 milioni di utenti. Mentre sono 33 milioni gli utenti di piattaforme “free” come YouTube o TikTok. Infine, secondo il CeRTA dell’Università Cattolica di Milano, che ha curato l’Annuario della televisione 2022, in Italia sono oltre 17 milioni le smart-tv collegate a Internet, più di due milioni di unità rispetto al 2021.

Dopo i servizi pubblici radiotelevisivi, quali nuovi media di servizio pubblico?

Nel Lessico del XXI secolo dell’Enciclopedia Treccani, il servizio pubblico radiotelevisivo è un

«sistema nel quale le emittenti radiofoniche e televisive […] sono dichiarate essere al servizio della collettività e sono finanziate in tutto o in parte con fondi pubblici. Queste emittenti, che storicamente sono quasi ovunque nel mondo le prime a essere nate, sono controllate da fondazioni pubbliche o direttamente dai governi o da società da essi partecipate, o sono talvolta aziende che ricevono finanziamenti in quanto assumono obblighi di servizio pubblico radiotelevisivo nella loro programmazione».

In Italia, la Rai-Radiotelevisione italiana è giuridicamente una società per azioni (99,56 per cento del capitale di proprietà del Ministero dell’Economia, 0,44 per cento della Siae), finanziata dal canone e dalla pubblicità, concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiofonico e televisivo sulla base di un contratto di servizio con il Dipartimento delle Comunicazioni del Ministero dell’Economia. La storia della Rai comincia nel 1924 con il nome di Unione radiofonica italiana, diventata Ente italiano per le audizioni radiofoniche (EIAR) nel 1927, nel 1944 Radio Audizioni Italiane (RAI) e Rai − Radiotelevisione Italiana nel 1954, quando il servizio televisivo affiancò quello radiofonico.

La storia dei servizi pubblici di radiodiffusione comincia nei complicati e ruggenti anni Venti in Gran Bretagna [5]. Dove un manager scozzese che sarebbe diventato Lord, John Charles Walsham Reith, era direttore della società commerciale British Broadcasting Company (BBC). Fondata il 18 ottobre 1922 dal General Post Office britannico e da sei imprese di servizi di radiotelecomunicazioni e di produzione di apparati di trasmissione e ricezione (Marconi Company, Radio Communication Company, Metropolitan-Vickers, General Electric, Western Electric, British Thomson-Houston), BBC era nata per sperimentare servizi radio al pubblico, che furono effettivamente irradiati da Marconi House a partire dal 14 novembre 1922. Ma gli sviluppi tecnico-economici e gli assetti sociali dimostrarono subito la loro interdipendenza. Nel maggio 1926, un grande sciopero generale e violenti scontri fra polizia e manifestanti spinsero Reith a scrivere al Re per sostenere che, in relazione allo stato della società e alle caratteristiche del nuovo mezzo di comunicazione, fosse opportuno pensare ad un servizio radiofonico pubblico, indipendente sia dal governo, sia dagli interessi economici dominanti. La proposta di Reith trovò consenso: la BBC fu trasformata in una società a capitale pubblico (British Broadcasting Corporation) posta sotto la protezione di un nuovo charter (licenza, concessione, permesso). Divenne così, all’inizio del 1927, il primo servizio pubblico indipendente di radiodiffusione al mondo. Un modello ampiamente replicato e adattato, nel secolo di Reith, in molti paesi.

L’idea di servizio pubblico di John Reith era semplice e potentissima: un servizio pubblico finanziato dal canone degli ascoltatori (in ipotesi, tutti i cittadini), indipendente da interessi economici e politici designati, al quale affidare la missione che rimane scolpita nei manuali:

«informare, educare e intrattenere… con l’offerta di quanto di meglio è disponibile in tutti i campi dell’umana conoscenza, dell’impegno e del progresso… evitando qualsiasi contenuto che sia o possa risultare offensivo».

Una trilogia della comunicazione e una tavola valoriale, destinate a rivoluzionare la comunicazione pubblica e sociale del Novecento. In effetti, con differenze significative a seconda dei regimi politici ed economici nei quali i sistemi radiotelevisivi agirono (di mercato negli Stati Uniti, di monopolio nei paesi europei) le migliori stagioni dei sistemi radiotelevisivi pubblici furono quelle caratterizzate dall’equilibrio virtuoso tra questi obiettivi, determinando tre effetti correlati: la crescita di un’opinione pubblica informata e consapevole; l’incremento del livello culturale di società ancora gravate dal basso livello di istruzione scolastica; la produzione di contenuti culturali audiovisivi capaci di orientare l’immaginario civile e sociale di un paese. All’opposto, va ricordato quanto intensamente i regimi totalitari abbiano usato i servizi radiotelevisivi come mezzi di propaganda sui quali basare consenso e obbedienza e quanto la potenza economica e mediatica non regolata dei tycoon, sul modello dell’istrionico Citizen Kane creato da Orson Welles, abbiano alterato i processi democratici in diversi paesi.

Analizzando lo scenario delle piattaforme e dei social media [6], esito eclatante della trasformazione digitale, domina la personalizzazione dei contenuti (e del marketing) che realizzata è funzione dei desideri, degli interessi e dei gusti personali, catturati dalla datificazione (ovvero dalla estrazione, gestione ed archiviazione di tutti i dati rilevabili su attività, comportamenti, orientamenti e interessi del singolo utente). Dati che sono poi elaborati dagli algoritmi delle piattaforme. Un processo che è avvenuto rapidamente, assumendo dimensioni enormi, con dinamiche imprevedibili solo un decennio fa. Secondo AT Kearney, il valore generato da Internet nel mondo è passato da 1,18 trilioni del 2008 a 3,34 nel 2015, a 6,67 trilioni nel 2020, poco meno del 10 per cento del PIL globale. Un’elaborazione di Agcom (Autorità italiana di Garanzia nel settore delle Comunicazioni) [7] su dati di bilancio delle piattaforme Big Tech e delle società di servizi TLC (Telco) nel decennio 2012-2021 racconta bene la trasformazione digitale. Nel 2012, i ricavi aggregati delle Telco erano oltre il doppio rispetto a quelli delle piattaforme (circa 800 miliardi di dollari contro 360 miliardi). Nel 2018-2019 i ricavi dei due settori erano sostanzialmente equivalenti, mentre nel 2021 i ricavi delle piattaforme digitali superavano abbondantemente quelli delle Telco (1.450 miliardi di dollari, contro 960 miliardi circa). Nel 2020, il 73 per cento dei ricavi delle Telco è stato generato da servizi di connettività e solo il 27 per cento da traffico che (in fonia ed SMS) generava ancora il 58 per cento dei ricavi nel 2015. A corredo dei numeri globali, si può aggiungere la fotografia fatta da Anitec-Assinform [8] del mercato digitale italiano e della sua composizione nel 2021. Il valore totale, stimato in 75,3 miliardi di euro, è così ripartito: dispositivi e sistemi hardware (21,1 miliardi di euro), software e soluzioni ICT (8,1 miliardi), servizi ICT (13,7 miliardi), servizi di rete TLC (18,7 miliardi, unico sottosettore in tendenza negativa), contenuti multimediali e pubblicità (13,7 miliardi).     

La rapidissima crescita dell’universo digitale, dei servizi Internet e dei servizi streaming forniti da piattaforme commerciali transnazionali, sembra poter spegnere, in prospettiva, la radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi “lineari” e i relativi servizi pubblici, che hanno caratterizzato così intensamente la storia del Novecento. In particolare, diversi esponenti dei governi conservatori post-Brexit hanno a più riprese contestato in Gran Bretagna la missione di Auntie (il soprannome che gli inglesi hanno dato alla BBC, una cara e vecchia zia), nei decenni indiscutibili e indiscussi. Anche per contrastare questa tendenza, nel 2021, un gruppo di ricercatori europei coordinato dalla Westminster University di Londra ha elaborato il Manifesto su Media e Internet di servizio pubblico [9] (in inglese PSMI – Public Service Media and Internet Manifesto), firmato fra i primi da Jurgen Habermas, Noam Chomsky e da oltre mille esperti di tutto il mondo, già presentato e discusso su Democrazia futura. Gli estensori del Manifesto sono convinti che la sfera pubblica della comunicazione richieda oggi decisioni fondamentali e innovative, come quelle assunte un secolo fa per la radiodiffusione. Se a quel tempo il mezzo, potente e persuasivo, da controllare e gestire, era la radio, oggi occorre controllare e gestire i social media e le piattaforme, ancor più persuasivi e potenti dell’antenato mass-media. Nasce così l’idea di definire regole e principi che riconducano la potente innovazione digitale al servizio del bene comune e della società, riannodando, se possibile, il concetto di servizio pubblico a quello di open internet (Internet aperta) sostenuto dagli ideatori della rete globale contro la tendenza alla frammentazione (splinternet) che la geopolitica digitale degli ultimi anni e i mesi della guerra d’Ucraina hanno amplificato [10].

La parabola degli operatori radiotelevisivi in Italia

I servizi di radiodiffusione (e di telecomunicazioni) hanno connotato un’epoca nella quale regole, industria e mercato erano molto diversi da quelli attuali. Gli assetti monopolistici (di reti e sistemi), la necessità di definire degli standard tecnici per interconnettere sistemi e servizi marcavano nettamente la radiodiffusione e le telecomunicazioni (telegrafia, telefonia, trasmissione dati) rispetto al settore dell’informatica, nativo digitale. Una separazione che, a partire dagli anni Settanta, la convergenza digitale delle tecniche e dei servizi ha annullato, configurando quell’universo digitale di umani e macchine nel quale siamo immersi e del quale il prototipo è Internet. Una rete-mercato [11] sulla quale, progressivamente, sono confluiti computer, telefoni e televisori per lo scambio interattivo di dati, informazioni, suoni, immagini. Con velocità e qualità crescenti perché migliorano le prestazioni degli apparati di rete e di utente (larghezza di banda dei canali trasmissivi delle reti primarie e secondarie, capacità di elaborazione e di memorizzazione dei dispositivi, ecc.). In particolare, è cresciuta l’intelligenza degli apparati connessi alla rete (computer, sistemi informativi, data center, PC, smartphone), insieme all’intelligenza degli apparati di rete di commutazione e di trasmissione-ricezione. Come, per esempio, l’attivazione di sottoreti di instradamento e memorizzazione temporanea delle informazioni dette CDN (Content Delivery Network o Content Distribution Network, sistemi geograficamente distribuiti di server proxy e data center) che hanno l’obiettivo di permettere la fruizione ottimizzata dei servizi streaming, sia in modalità unicast (al singolo utente) sia in modalità multicast (a molti utenti contemporaneamente). Sul piano della sostenibilità, va segnalato che la prevalenza dello streaming sul broadcasting può generare conseguenze rilevanti [12].

I dati di sintesi sulle imprese di broadcasting ed editoriali elaborati dall’Autorità di Garanzia nel settore delle Comunicazioni [13] danno concretezza a queste considerazioni. In Italia, i ricavi complessivi delle imprese televisive nel 2020 sono stati in flessione dell’8,7 per cento rispetto al 2019. La riduzione è risultata sopra media per Mediaset (-9,2 per cento) e Sky Italia (-10 per cento circa), mentre la Rai ha limitato (-5,4 per cento) la diminuzione dei ricavi complessivi, con canone in flessione del 4 per cento e pubblicità del 6,5 per cento. Tra il 2010 ed il 2020 i ricavi complessivi dei tre principali broadcaster (Rai, Mediaset, Sky Italia) sono scesi del 21,9 per cento: una riduzione del fatturato di circa 2 miliardi di euro (da 9,2 a 7,19 miliardi di euro), imputabili per 1,45 miliardi a minori introiti pubblicitari (da 3,73 a 2,28 miliardi di euro) e per circa 530 milioni per minori ricavi nella pay-tv. In tale periodo i ricavi complessivi di Sky Italia sono rimasti relativamente stabili, intorno ai 2,9 miliardi, quelli della Rai sono passati dai 2,96 miliardi del 2010 ai 2,5 miliardi del 2020 mentre gli introiti di Mediaset in Italia si sono ridotti da 3,44 a 1,8 miliardi di euro. I dipendenti delle tre imprese risultano in flessione di oltre mille unità rispetto al 2016 e si attestano a poco più di 21mila unità a fine 2020 (oltre 12.600 in Rai; circa 3.200 in Sky Italia; 3.400 i dipendenti in Italia del gruppo Mediaset). A titolo di confronto, Netflix ha totalizzato nel mondo, nel 2021, ricavi per poco meno di 30 miliardi di dollari, con circa 5 miliardi di profitti. Nell’editoria quotidiana e periodica, i ricavi registrati dalle principali imprese italiane nel 2020 sono stati pari a 3,28 miliardi di euro, in flessione del 14,6 per cento rispetto al 2019. In dettaglio, i ricavi editoriali sono scesi del 10,4 per cento e quelli pubblicitari del 17,3 per cento. Estendendo l’arco temporale di analisi al 2010 (quasi 6,18 miliardi di euro di ricavi) nel 2020 i ricavi si sono più che dimezzati. Infine, negli ultimi cinque anni, gli addetti delle principali imprese editoriali si sono ridotti di oltre duemila unità (-11,4 per cento): da circa 13mila addetti nel 2016 a meno di 11mila nel 2020, dato che segna una flessione di circa 800 unità rispetto al 2019.

Nell’economia delle piattaforme dominano i contenuti

Sul mercato globale resistono, convergono e concorrono diversi soggetti, che cercano di conquistare terreni e mercati diversi da quelli nei quali sono nati o che cercano di difendere antiche fortezze. Nuovi giganti sono certamente i Big Tech o Over-The-Top (OTT), i grandi operatori nativi digitali (Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft) che, forti di ricavi e capitalizzazioni, sembrano non avere ostacoli nella loro strategia di trasformazione digitale anche nell’audiovisivo (Amazon PrimeVideo, Apple+, YouTube, eccetera). Accanto ai Big Tech, sono nate e cresciute piattaforme digitali specializzate nello streaming (a pagamento, in abbonamento) di serie, film, documentari, sport (Netflix, Dazn, Rakuten, Disney+, TimVision, Hulu, Paramount+, HBO, Discovery, eccetera): altri OTT che investono anche nella produzione, globale e locale, di contenuti. Attività nella quale sono ancora rilevanti i content producer and provider, originariamente e storicamente vocati alla produzione e distribuzione audiovisiva, come gli eredi delle major di Hollywood (Disney, Warner, Paramount, Viacom, LuxVide, Cattleya, eccetera).

Accanto ad essi, nella mondializzazione televisiva, sono nati produttori di format televisivi (quiz, reality, intrattenimento, eccetera) che vendono programmi e produzioni ai broadcaster (Endemol-Banijay, Ballandi, Freemantle, eccetera).

Restano in campo i media di servizio pubblico (BBC, RAI, France Télévisions, ARD/ZDF, RTVE, eccetera) e i loro concorrenti privati locali, continentali e globali (Sky, Channel4, Mediaset-MfE, ecetera.): broadcaster che stanno cercando di trasformarsi in imprese dell’offerta digitale, lasciando ormai in secondo piano l’offerta lineare tradizionale, definita da canali e palinsesti. Come hanno confermato, in occasione della presentazione dei rispettivi palinsesti 2022-23, l’Amministratore Delegato RAI Carlo Fuortes: «un percorso di innovazione, l’inizio di un profondo cambiamento che dovrà portare nei prossimi anni la Rai dal ruolo attuale di broadcaster a quello, assolutamente necessario per il futuro del nostro Paese, di moderna media company», 28 giugno 2022.

E dell’Amministratore Delegato di Mediaset Pier Silvio Berlusconi: «la televisione ha una centralità che non è in discussione, anche nel nuovo mondo digitale…l’unica strada è crescere, costruendo una piattaforma tecnologica e commerciale che distribuisca contenuto e raccolga pubblicità con una potenza tale da potersi sedere al tavolo con Google&C», 30 giugno 2022.

Non vanno dimenticati gli operatori di rete TLC (Telco come ATT, TIM, Fastweb, eccetera) che cercano nuovi margini di profitto nell’offerta a pacchetto di contenuti alla clientela che già connettono, alleandosi tatticamente e strategicamente con operatori dell’offerta di contenuti (ATT con Viacom, TIM con Dazn, Sky con Fastweb, eccetera).

Questo assetto frastagliato può cambiare, anche drasticamente. La datificazione di scelte e abitudini degli utenti digitali e la potenza tecnologico-finanziaria della quale i Big Tech dispongono, sta consentendo loro, per esempio, un ingresso in forze sul mercato dei diritti di diffusione dei grandi eventi sportivi. Un mercato fino a qualche decennio fa riservato ai broadcaster pubblici per i grandissimi eventi (Olimpiadi, Mondiali, motorismo), progressivamente rimpiazzati dai broadcaster commerciali (internazionali) che hanno alzato le offerte per i diritti a livelli impossibili da sostenere per i media pubblici, finanziati dal canone e limitati nella raccolta pubblicitaria. Costi elevatissimi remunerabili (e spesso l’operazione è fallita) solo gestendo diritti di diffusione su diversi paesi e pianificando nuovi ricavi da abbonamenti. Sempre di più, i Big Tech si propongono nelle aste delle leghe sportive: come Amazon, entrato poderosamente in Europa come acquirente di diritti sportivi mentre Apple+ sta acquisendo diritti sportivi delle leghe statunitensi. Nell’intrattenimento, i Big Tech sono diventati grandi produttori di contenuti (film, serie, documentari), non solo di impronta culturale globale, ma anche locale-nazionale, con volumi di investimenti straordinari destinati al consolidamento e alla conquista degli abbonati digitali [14], con numeri certamente inarrivabili per i broadcaster tradizionali. Secondo il Financial Times, nel primo semestre del 2022, per rivaleggiare con Netflix (che alla fine del primo trimestre 2022 ha debiti a lungo termine per 14,5 miliardi di dollari) i grandi gruppi hanno stanziato oltre 100 miliardi di dollari nella produzione di contenuti. Ma la storia dei media ammaestra e non finisce mai: per contenere i costi degli abbonamenti ed evitare le disdette, inevitabilmente le piattaforme si aprono alla pubblicità. E per conquistare più pubblico e più abbonati saranno più generaliste e meno innovative, assomigliando paradossalmente alle offerte televisive tradizionali, dalle quali volevano radicalmente distinguersi.

Conclusione: l’informazione civica e lo spazio normativo europeo

L’interdipendenza tra informazione, comunicazione e democrazia, nelle migliori stagioni, si può descrivere così: la libertà e l’indipendenza dell’informazione è l’ossigeno della democrazia, che può esprimersi, a propria volta, attraverso le libertà di espressione e di associazione. Chi ha vissuto epoche dominate da dogmatismi e rigide appartenenze non può averne nostalgia, ma altrettanto difficilmente può accettare il carattere web-populistico, nichilista e ribellista dominante nella comunicazione frammentata dei nostri giorni, che indebolisce l’informazione professionale, equilibrata, completa, in una parola civica, che è connessa a quel diritto all’informazione, trasmessa e ricevuta, scandito dall’Art. 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948:

«Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».

Una dichiarazione condivisa di principi, elaborata più o meno a metà del «secolo lungo dello sviluppo tecnico-economico contemporaneo» [15].

Un secolo lungo connotato, dal 1990 ad oggi, dalla convergenza digitale delle tecniche e dei sistemi di comunicazione e di trattamento dell’informazione. I mondi dell’infocomunicazione (informatica, telecomunicazioni, radiotelevisione, editoria, fotografia, musica, pubblicità, cinema, grafica) fino ad allora nettamente separati per tecniche, mercati e regole, collassano nell’universo digitale, che consente all’utente di fruire di tutti i contenuti audiovisivi e ipertestuali raggiungibili attraverso reti. Una pratica di consumo che consente all’utente una personalizzazione definitiva nell’uso dei media e nella scelta dei contenuti. In effetti, uno dei segni più evidenti che la società digitale delle piattaforme risponde al modello del tecnopolio descritto da Neil Postman [16]. Ovvero una società egemonizzata nella sua struttura costitutiva e relazionale dalle tecnologie (digitali) che sono impiegate in tutte le attività economiche, politiche e culturali. Poiché la tecnologia non è neutra, nella trasformazione digitale ci sono vincitori e vinti: per ora vincono le piattaforme, mentre perdono professionisti, lavoratori e imprese dell’editoria, dei media e delle telecomunicazioni. Non solo per la costante contrazione delle risorse della quale già si è detto, ma anche perché le loro attività sono attentamente regolate dalle Autorità Nazionali di Regolamentazione, di settore e Antitrust e dalla Commissione europea. Mentre, almeno fino ad ora, i Big Tech si sono largamente sottratti ad obblighi realmente cogenti di controllo, responsabilità e antitrust e anche all’imposizione fiscale. Un’anomia dell’universo digitale che l’Europa sta cercando di superare con i regolamenti sui servizi e sui mercati digitali che formano il digital package. Che, in senso stretto, è costituito da DSA (Digital Services Act) e DMA (Digital Markets Act). In senso ampio, il pacchetto normativo europeo sul digitale comprende anche i regolamenti sull’uso e la condivisione dei dati pubblici (Data Act e Data Governance Act) e Artificial Intelligence Act. Con le nuove norme coesistono regole riservate al settore audiovisivo e media. Come la Direttiva 2018/1808 “relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi, in considerazione dell’evoluzione delle realtà del mercato”, recepita in Italia nel 2021 con un discusso provvedimento che ha revisionato il TUSMA (Testo unico dei Servizi dei Media Audiovisivi, [17]). E come il regolamento EMFA dedicato alla tutela del pluralismo nei media, ancora nel suo iter di definizione e discussione.

Democrazia futura tornerà presto su questi temi di normazione dello spazio digitale. Per ora, politicamente, ci si domanda se società, istituzioni, cittadini, imprese europee saranno in grado, nella difficilissima congiuntura che ha riportato la guerra nel nostro continente e che fa emergere impreviste e pesanti questioni reputazionali [18], di consolidare questi principi di costituzionalismo digitale in sovranità culturale e tecnologica.

Note e bibliografia

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/GPT-3; interfaccia web dell’automa: https://chatbot.openai.com

[2] Si vedano i tre contributi di Gian Carlo Corazza, “Marconi e l’invenzione della radio”; Gabriele Falciasecca, “Lo spirito della radio cento anni dopo”; Peppino Ortoleva, “Orologio dell’aria, spettacolo elettrico: Considerazioni sull’avvento della radio”, raccolti nel volume, a cura di Giovanni. Paoloni, Franco Monteleone, Maria Grazia Ianniello, Cent’anni di radio. Da Marconi al futuro delle telecomunicazioni. Catalogo per la mostra ‘cento anni di radio’ Roma, Vittoriano 21 ottobre 1995 11 febbraio 1996, Venezia, Marsilio, 1995, XIII-137 p.; https://www.fgm.it/it/marconi/articoli-e-saggi.html.

[3] Andrea Melodia, “Tv e video. In rete e via antenne: per capire e decidere”, Democrazia futura, I (2), aprile-giugno 2021, pp. 375-378; https://tinyurl.com/yj2zh8ef.

[4] Ilaria Ravarino, “Così la Babele dello streaming ridisegna la tv”, Il Messaggero, 15 dicembre 2022; Rapporto 2022 dell’Osservatorio Digital contents del Politecnico di Milano, 13 dicembre 2022, https://tinyurl.com/4tytn3ac

[5] Matthew Hibberd, Il grande viaggio della BBC. Storia del servizio pubblico britannico dagli anni Venti all’era digitale, prefazione di Ettore Bernabei, Roma, Rai-ERI, 2005, XV-409 p.; Bino Olivi, Bruno Somalvico, La Fine della Comunicazione di Massa. Dal Villaggio Globale alla Nuova Babele Elettronica, Bologna, Il Mulino, 1996, 446 p. Bino Olivi, Bruno Somalvico, La nuova Babele elettronica. La Tv dalla globalizzazione delle comunicazioni alla società dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 2003, 337 p.

[6] Pieraugusto Pozzi, “Gli effetti della grande trasformazione digitale”, in «Etica e tecnologia», Rivista AEIT, CVII (11-12) novembre-dicembre 2021, pp. 28-39.

[7] Agcom, Focus piattaforme digitali e Telco. Dinamiche a confronto tra il 2012 ed il 2021, Roma, Agcom, 7 luglio 2022, https://tinyurl.com/3pza9wdf

[8] Presentazione del Rapporto Anitec-Assinform, Milano, 5 luglio 2022, www.anitec-assinform.it

[9] Manifesto su Media e Internet di servizio pubblico (http://bit.ly/psmmanifesto; versione italiana: https://archive.org/details/it_psmi); Giacomo Mazzone, “Da John Reith a Juergen Habermas e Noam Chomsky. Le ragioni di un appello”, nel Focus di approfondimento “Manifesto per i media di servizio pubblico e per l’Internet di Servizio pubblico, Democrazia futura, I (5B), gennaio-marzo 2022, pp.  253-274; https://tinyurl.com/36m8yy37.

[10] Giacomo Mazzone, “Guterres e il nuovo ordine mondiale di Internet, Democrazia futura, II (6.7), aprile – settembre 2022, Tomo secondo, pp. 837-842; https://tinyurl.com/5n6epw6p.

[11] Giuseppe Richeri, Condizioni e prospettive di crescita dell’industria dei contenuti in Italia, in Forum per la Tecnologia dell’Informazione, La tecnologia dell’informazione e della comunicazione in Italia. Rapporto 1996 (con il patrocinio del CNEL), Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 214-226.

[12] Giacomo Mazzone, “Il mondo della post-televisione ovvero la sindrome del maniscalco”, Democrazia futura, II (6-7) aprile – settembre 2022, Tomo secondo, pp. 847-854; https://tinyurl.com/5n6epw6p.

[13] Agcom, Focus. Bilanci delle imprese operanti nel settore dell’editoria quotidiana e periodica, televisivo eccetera, Roma, Agcom, 4 febbraio 2022; https://tinyurl.com/3cpt2mdj.

[14] Gigio Rancilio, “La gara tra Netflix e Prime e i costi record delle serie tv”, Avvenire, 8 luglio 2022

[15] James Bredford DeLong, Slouching Towards Utopia? An Economic History of the Long Twentieth Century 1870-2016, London, BasicBooks UK, 2022, 624 p.

[16] Neil Postman, Technopoly. The Surrender of Culture to Technology, New York, Alfred Knopf, 1992, 235 p. Traduzione italiana di Maddalena Lombardi: Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, 1993, 191 p.

[17] Dal Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (Tusmar) al Testo Unico dei servizi di media digitali (Tusma): un’occasione mancata (a cura di Giacomo Mazzone, Erik Lambert con testi dei curatori e di Francesco Posteraro, Michaela Gavrila, Rosario Donato, Marco Bassini e Giovanni De Gregorio, Luciano Flussi), Democrazia futura, I (4) ottobre-dicembre 2021, pp. 889-932; https://tinyurl.com/yc2nf2up.

[18] Stefano Rolando, “Qatargate. Italia ed Europa, brand delicati nella tempesta”, L’Indro, 14 dicembre 2022 https://lindro.it/qatargate-italia-ed-europa-brand-delicati-nella-tempesta/.


[1] Questo testo rielabora alcuni temi trattati dall’autore ne “I servizi radiotelevisivi nella grande trasformazione digitale”, Rivista AEIT, CVIII (9-10), settembre-ottobre 2022 (in corso di pubblicazione).