Diritti

Democrazia Futura. A proposito di femminismo

di Licia Conte, scrittrice, giornalista e autrice radiofonica, e Livio Barnabò, senior strategy consultant and policy designer |

Dialogo tra Licia Conte e Livio Barnabò su utero in affitto, fluidità di genere e dintorni.

Licia Conte

Per la rubrica De nobis fabula narratur, Licia Conte, scrittrice, giornalista e autrice radiofonica e Livio Barnabò,  senior strategy consultant and policy designer, propongono per Democrazia futura una riflessione “A proposito di femminismo” sotto forma – come recita l’occhiello – di “Dialogo tra due amici su utero in affitto, fluidità di genere e dintorni”. “mi convinsi – ricorda Licia Conte – di trovarmi davanti a uno dei più grandi movimenti della nostra storia: le donne in massa avevano deciso non soltanto di prendere in mano il proprio destino, ma anche quello dell’umanità (con gli uomini? non era chiaro).

Livio Barnabò

Le donne insomma non volevano più essere pensate, ma pensare; non volevano più essere raccontate, ma raccontare sé stesse e il mondo; non volevano più essere dirette, ma co-dirigere il mondo” conclude Licia Conte. “…quello che più mi ha colpito (e convinto) – gli risponde Livio Barnabò – è la tua affermazione che la rivoluzione femminile è, sotto il profilo antropologico, il più potente fattore di trasformazione del mondo in cui viviamo. In prospettiva, mi attendo che (anche) grazie ad essa possano generarsi le condizioni per rendere, in un tempo che credo sarà lungo, il nostro oicuméne globalizzato più accogliente. Detto questo, ho però l’impressione di una fase contradditoria del percorso: non c’è forse, nel movimento femminista, una dialettica interna tra visioni diverse del suo percorso e dei suoi obiettivi? Sono più esplicito. Quella che mi sembra la visione più visibile, quella più comunicata, è circoscritta alla dimensione pubblica: lavoro e politica. Qui l’obiettivo sembra ancora essere la conquista di una condizione di parità, effettivamente non raggiunta; si registrano avanzamenti e successi (a esempio, la presenza femminile in posizioni di responsabilità di vertice è molto maggiore di pochi decenni fa), ma non riesco ancora a cogliere qui una differenza femminile nell’esercizio del potere”.

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Licia. Una femminista per ordine del direttore: quella ero io. C’era dileggio nei miei confronti nelle parole delle giovani donne che verso metà/fine anni Settanta popolavano le piazze italiane. Non mi offesi però: io facevo il mio mestiere e dovevo raccontarle, loro dicessero quel che volevano. Ma poi analizzando e studiando in radio le loro parole e i loro gesti, aiutata dalle più importanti ed esperte intellettuali del momento, io mi convinsi di trovarmi davanti a uno dei più grandi movimenti della nostra storia: le donne in massa avevano deciso non soltanto di prendere in mano il proprio destino, ma anche quello dell’umanità (con gli uomini? non era chiaro). Le donne insomma non volevano più essere pensate, ma pensare; non volevano più essere raccontate, ma raccontare sé stesse e il mondo; non volevano più essere dirette, ma co-dirigere il mondo. Mi convinsi.
Mi trovavo a vivere con tutte le altre la più grande e incredibile rivoluzione della storia: metà dell’umanità, fino a pochi decenni prima esclusa dalla polis, chiedeva di entrarvi a pieno titolo e in posizioni certo non marginali o subalterne. Mi convinsi e non solo tradussi in radio per anni la loro cultura attraverso le loro stesse voci, fondai con il tempo anche una rivista: Orsa Minore (Rossana Rossanda, Manuela Fraire, Biancamaria Frabotta, Ida Dominjanni e altre). Diventai cioè una femminista: da allora è l’appartenenza culturale e politica più importante della mia vita, tant’è che dopo tanti anni con alcune (Francesca Izzo, Cristina Comencini, Maria Serena Sapegno, altre) detti vita a un nuovo movimento che si chiamò dapprima DiNuovo e poi con la grandissima manifestazione del 13 febbraio 2011 divenne SeNonOraQuando, che unì tante e tanti di tutte le appartenenze politiche, suore comprese.
E dopo quella manifestazione fondai con Alessandra Mancuso (TG1) un’associazione di giornaliste: GiULiA. Ora GiULiA è accreditata e ha 380 socie, che hanno fatto e tuttora fanno battaglie importanti, come per esempio quella contro la violenza sulle donne e per la femminilizzazione della lingua. Le amo tutte, anche se loro non sanno chi sono e spesso hanno su questioni importanti, e che ci riguardano tutte, opinioni assai diverse dalle mie e da quelle del mio gruppo (Snoq Libere).
Non sono d’accordo con loro, ma sono orgogliosa di loro.
La nostra è la rivoluzione più lunga (parafrasando Juliet Mitchell[1]). So che ci divideremo in mille rivoli, ma so anche che ci rincontreremo nel corso dei decenni. Fatta questa premessa, mi rivolgo a Te, caro Livio: anche se ne abbiamo parlato a lungo e se ti sei mostrato curioso, io non so quel che davvero pensi del femminismo. Che cosa ha suscitato il tuo maggior interesse?

Livio. Se parli di interesse, quello che più mi ha colpito (e convinto) è la tua affermazione che la rivoluzione femminile è, sotto il profilo antropologico, il più potente fattore di trasformazione del mondo in cui viviamo. In prospettiva, mi attendo che (anche) grazie ad essa possano generarsi le condizioni per rendere, in un tempo che credo sarà lungo, il nostro oicuméne globalizzato più accogliente. Detto questo, ho però l’impressione di una fase contradditoria del percorso: non c’è forse, nel movimento femminista, una dialettica interna tra visioni diverse del suo percorso e dei suoi obiettivi?
Sono più esplicito. Quella che mi sembra la visione più visibile, quella più comunicata, è circoscritta alla dimensione pubblica: lavoro e politica. Qui l’obiettivo sembra ancora essere la conquista di una condizione di parità, effettivamente non raggiunta; si registrano avanzamenti e successi (a esempio, la presenza femminile in posizioni di responsabilità di vertice è molto maggiore di pochi decenni fa), ma non riesco ancora a cogliere qui una differenza femminile nell’esercizio del potere.

Licia. La parola scritta è più sorvegliata, induce a riflettere prima di esprimersi. Cerco di essere quindi cauta nel risponderti. Ciononostante, non so darti torto. Anche io non riesco sempre a cogliere nei comportamenti segni evidenti di una vera differenza delle donne, soprattutto quando raggiungono posizioni di potere. Del resto, forse non può che essere così. Le donne fanno una gran fatica a uscire dal ruolo confezionato per loro dal patriarcato e quindi se trovano un modello preordinato, quello maschile, vi si adattano. Anzi, se posso qui esprimere fin in fondo il mio pensiero (ma forse mi sbaglio) le donne hanno una gran capacità mimetica e adottano con disinvoltura, e talvolta con spregiudicatezza, il modello maschile.
Tu, Livio, corri troppo, però: vuoi subito sapere dove ci porterà quella che è stata definita “la rivoluzione più lunga”. Comunque per cominciare a capirne fin d’ora l’esito, occorre riflettere sul concetto di uguaglianza e sul modo in cui lo decliniamo. Noi donne dobbiamo chiederci che tipo di uguaglianza vogliamo. Siamo noi uguali agli uomini? Non solo storia e cultura dicono di no. Lo dice soprattutto la biologia. Se siamo diverse dagli uomini, siamo condannate alla subordinazione vissuta nel passato? Noi diciamo no. E lo sta già dicendo la storia. E allora?
Allora, una parte del femminismo dà una risposta che io trovo del tutto convincente: noi reclamiamo uguaglianza nella differenza. Ossia, noi vogliamo porci accanto all’uomo come un altro soggetto: uguale e differente. Penso non ti sfuggano le implicazioni, persino filosofiche, di questa affermazione.

Livio. Allora, se capisco, la contraddizione che avverto è tra omologazione e differenza. Nel mondo del lavoro e nei ruoli pubblici mi sembra che ora prevalga una tendenza all’omologazione (con qualche eccezione che apre uno spiraglio sul nuovo) e questa tendenza la ritrovo anche nella vita quotidiana, nel linguaggio, nei comportamenti più quotidiani, in forme di aggressività che alludono alla forza come strumento di confronto/scontro. Le ragioni di questo, cui tu fai riferimento ripercorrendo la storia delle donne, sono comprensibili.
Ma “la differenza”, se vuole esprimersi in modo nuovo, contemporaneo, futuro, dove la ritroviamo?
Più direttamente: l’assenso che accompagna il femminismo nella sua versione contemporanea, che nessuno sembra voler contraddire o discutere, si nutre della diversità cui tu alludi, la esprime? Specularmente: la negatività che connota il termine maschilismo non impedisce di domandarsi se si stia sviluppando anche una nuova differenza al maschile?

Licia. L’alone di positività che connota il femminismo: Livio, come fai a non capire la bellezza di un mondo di donne, che, in rappresentanza delle metà dell’umanità, rompe con le regole del patriarcato e scende nelle piazze per reclamare riconoscimento e nuovi diritti. E come puoi non capire che la risposta maschile a tutto ciò è stata, ed è, spesso terribile: quante donne muoiono ogni anno per mano maschile? Si sta sviluppando una nuova differenza al maschile? Non lo so. Ma è una domanda davvero prematura.
Per altro verso, corri troppo quando mi chiedi come si esprime la nuova differenza delle donne. Non si esprime ancora se non per piccoli indizi. Il mondo delle donne è davanti a un bivio: deve scegliere se accontentarsi di un processo di omologazione agli uomini o se rivendicare il potere di ‘codirigere’ il mondo in qualità di soggetto autonomo e ‘differente’, che non vuole disconoscere o sostituire il soggetto maschile. Vuole semmai limitarne il potere, indurlo a compiere insieme al nuovo soggetto una forma di rivoluzione straordinaria: passare da formule ‘io sono’, ‘io decido’, ad altre: ‘noi siamo’, ‘noi decidiamo’.
Considera, Livio, che se questo accadesse cambierebbe tutto: la cultura, la politica, il potere. Se questo accadesse, le donne potrebbero rivendicare e portare nello spazio pubblico la loro plurimillenaria esperienza della cura e delle relazioni umane, potrebbero portare al centro della vita pubblica la maternità. Pensa: la riproduzione della vita in posizione più centrale e prima della produzione di beni e servizi. Sì, cambierebbe tutto. Forse anche il governo del mondo. Ma forse ora sono io a correre troppo.

Livio. Un passo indietro. Per commentare la mia espressione “l’alone di positività” ritorni alla storia del movimento femminista, che, credo, nessuno possa contestare. Ma il femminismo dell’omologazione, come tu lo chiami, è l’evoluzione auspicata di quante hanno dato inizio a questa rivoluzione? Tu auspichi che il passo avanti lo possa fare il femminismo della differenza, che però riconosci come una realtà allo stato nascente. Ancora, se non ci si pone la domanda sulla nuova differenza maschile il codirigere il mondo (espressione che potemmo modificare in essere corresponsabili del destino del mondo) non sappiamo se ci sarà e quale sarà il partner maschile del femminismo della differenza. Anche il nuovo definirsi non può essere che il frutto di un confronto. Ma, anche se escludiamo per il momento questo aspetto, potremmo essere ad una empasse.

Licia. Ah, Livio, la storia delle donne è così: lunghi periodi di silenzio che sembra acquiescente e poi esplode di nuovo luminosa. Pensa alle donne iraniane! Per quanto riguarda noi, donne occidentali, procede inarrestabile il cammino dell’emancipazione. Tratti importanti di questo processo hanno i connotati della omologazione. Ma, attenzione! Si sono aperte delle crepe, che talvolta appaiono marginali. Ma non lo sono. Ti faccio un esempio all’apparenza sottile: la femminilizzazione della lingua. Una battaglia condotta spesso da donne che non si interpretano certo come ‘femministe della differenza’ e che, anzi, apparentemente perseguono obiettivi di emancipazione dura e pura. Ma mi chiedo: quando interpellano se stesse o altre come ‘magistrata’, ‘sindaca’, ‘avvocata’ potranno non interrogarsi su che cosa c’è dietro quelle vecchie nuove parole? Se il soggetto è il medesimo perché declinare in modo diverso le parole che lo connotano? Ma le crepe più grandi si chiamano: utero in affitto e gender fluid’.

Livio. L’esempio della lingua mi convince solo parzialmente: non in sé, ma nell’uso che se ne fa. Può essere uno strumento a supporto tanto dell’omologazione, che della differenza. Ma, su questo non mi concentrerei ora. Più centrali mi sembrano quelle che tu definisci “le crepe più grandi”. Vorrei che tu le definissi in modo più esplicito.

Licia. I romani conoscevano un istituto curioso: la schiavitù a tempo determinato. Un cittadino romano per ragioni varie (in genere per rifondere debiti) poteva darsi in schiavitù per un determinato periodo di tempo. Noi occidentali siamo fieri di aver abolito la schiavitù: una lunga battaglia che ci fa onore. Siamo sicuri però che con l’utero in affitto la modernità non ci stia proponendo una forma di schiavitù a tempo? E inoltre: vogliamo manomettere la vita fino al punto di rendere una creatura merce, prodotto di una lunga catena di montaggio? Siamo sicuri di voler consegnare la vita al mercato?
Te lo chiedo, Livio. E non lo chiedo solo a te. Vogliamo parlarne sul serio? E, per piacere, non nascondiamoci dietro la formula ‘surrogata solidale’. Conosciamo le agenzie che commerciano la vita umana. E i listini dei prezzi che variano: alti, se vuoi occhi azzurri e capelli biondi, più moderati se ti accontenti. Il gender fluid. Io leggo il gender fluid come una proposta che non tiene conto della biologia. E non solo: non tiene conto della storia, della cultura, della psicologia. Una donna, Livio, è un intreccio inestricabile di tutti questi fattori. Altrettanto può dirsi per gli uomini.
Pensi davvero che si possa cambiare dall’esser uomo all’esser donna, e viceversa, così come si indossa ora un abito, ora un altro; ora una maschera, ora un’altra? Osservo infine: le donne lottano da tempo per affermare la loro differenza come segno e fattore di trasformazione di sé stesse e del mondo. Secondo la teoria del gender fluid un nuovo soggetto femminile non esiste.
Per questa via si raggiungerebbe una forma di uguaglianza, che di sicuro a molti (e molte) sta più che bene. È quello che vogliamo? È quello che le donne vogliono? È di sicuro la via della omologazione, quella che tu in qualche modo deprechi. Non è la mia strada. Anche in natura sappiamo che le differenze rendono più ricche le specie.
Non è la mia strada. Non è la strada del ‘femminismo della differenza’. Che dice: il soggetto umano non è uno, i soggetti sono due e insieme hanno la responsabilità del creato. Il che vuol dire che ogni vera decisione va assunta attraverso il dialogo e il confronto. Il che vuol dire che si passerebbe dalla ‘cultura dell’io’ a ‘quella del noi’. Ti sono chiare le implicazioni sociali e politiche, nonché filosofiche, di questo passaggio? Miro (miriamo) troppo in alto? E perché no?

Livio. La sostanza di quanto dici dal punto di vista del percorso del femminismo mi trova partecipe; vorrei però una maggiore profondità nella sua comprensione. Il gender fluid. Che possa essere una forma di omologazione è chiaro, ma dipende da chi si impadronisce di questo tema e ne fa uso. La politica in questo agisce oggi come un’azienda in cerca del proprio mercato; il mercato è quello dei desideri travestiti da diritti e anche questo modo di definirsi, che mi sembra più diffuso nelle persone più giovani, viene letto come una moda cui dare risposta con prodotti (politici) che la assecondino. Questo atteggiamento della politica non legge il fenomeno nella sua profondità, non lo interpreta: si riduce a uno scambio di interessi a breve. Si ripete il gravissimo errore che la politica ha più volte fatto nel rifiutare o nel volgarizzare il dialogo con le nuove espressioni culturali del mondo più giovane.
La differenza. L’omologazione tra maschile e femminile (che nulla c’entra con il tema della parità) è uno strumento coerente con le logiche di un mercato che tende a sacrificare le differenze che ostacolano gli obiettivi di breve-medio periodo. L’effetto del mercato sulla riduzione della biodiversità è un punto di attenzione oramai fortissimo nella transizione verso la green economy. E la biodiversità tra donna e uomo? Il suo annullamento massimizza obiettivi di breve, ma accelera l’entropia del sistema mondo, fino all’indebolimento ci ciò che trasmette la vita stessa: la maternità.
Non deve sfuggirci ciò che accade nei luoghi della vita: da ambienti di lavoro che mantenevano tratti del modello di accoglienza della casa siamo passati a case organizzate come luoghi di lavoro, funzionali più che accoglienti; i nuovi quartieri hanno abolito il ruolo della piazza, dove ci si incontra per incontrarsi, e lo hanno sostituito con i centri commerciali, dove si va per non essere soli, rimanendo soli.
Il paradigma dello scambio ha scalzato il ruolo, i luoghi, i modi del dono (o del gratuito). Quando questo meccanismo giunge a colonizzare l’esperienza della maternità siamo forse a un estremo pericoloso. Ora proviamo a guardare avanti. Come può il femminismo della nuova diversità crescere e acquisire consenso?

Licia. Se non capisco male, Livio, tu dici che il gender fluid potrebbe essere una forma di omologazione, ma che dipende dall’uso che se ne fa. Io ti rispondo: il gender fluid nega la biologia e la storia umana e abolisce la differenza uomo/donna. Che le giovani generazioni siano spesso sedotte da queste teorie è vero e bisognerebbe cogliere e interpretare con più attenzione le loro ragioni. Che la politica le assecondi è sotto i nostri occhi. Perché? Potrei azzardare risposte. Preferisco lanciare un dibattito. Scriviamo per una rivista che ci ospita, perché non chiedere ai nostri eventuali lettori di aiutarci a capire questi nuovi fenomeni?
Tu chiedi inoltre a me come può il femminismo della differenza ‘crescere e acquisire consenso’. Ti rispondo: vorrei tanto saperlo anch’io. Mai nella mia vita mi è apparso così importante dedicare tutto il mio impegno per l’affermazione di un’idea politica luminosa e avvincente come questa.


[1] Juliet Mitchell, La rivoluzione più lunga: saggi sulla condizione della donna nelle società a capitalismo avanzato, Roma, La Nuova Sinistra Samonà e Savelli, 1972, 121 p.