Privacy senza scampo: il 61% dei siti condivide le informazioni. Ma agli utenti importa davvero?

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Secondo l’Università di Stanford, il 61% dei siti ‘rivende’ le nostre informazioni. Ma tra gli utenti italiani sembra crescere la consapevolezza che i dati sono una moneta di scambio con la quale si ottiene molto di più di quanto si conceda.

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Nel web, come nella vita reale, nessuno fa niente per niente. E la posta in gioco, su internet, sono i nostri dati personali, che vengono raccolti e venduti in cambio di molti servizi che crediamo gratuiti ma che paghiamo, appunto, con i dettagli della nostra navigazione.

 

Tutte le informazioni hanno un valore economico, anche quelle che noi non immaginiamo neanche possano essere di un qualche interesse per qualcuno. Lo rivela un nuovo studio condotto da un ricercatore della Stanford University, che ha scoperto che un sacco frammenti della nostra navigazione web apparentemente anonimi sono raccolti e ricomposti da una dozzina di società, e quindi rivenduti.

Più della metà dei 185 siti esaminati da Jonathan Mayer – il 61%, per l’esattezza – condividono lo username o l’identificativo (ID) dell’utente con altri siti. E fare in modo che questo non succeda non è molto semplice, spiega il ricercatore.

 

“Cliccate su Home Depot (una catena statunitense di prodotti per la casa) e il vostro indirizzo email viene consegnato a una dozzina di compagnie che vi monitoreranno. La vostra navigazione passata, presente e futura è ora associata alla vostra identità. Registratevi al sito della NBC e il vostro indirizzo email finirà nella mani di almeno sette aziende. Seguite l’informazione sportiva di Bleacher Report e il vostro nome completo arriverà a un’altra dozzina di società. E questa non è allarmismo ipotetico in stile Orweliano, ma è quello che sta succedendo ora”, afferma il ricercatore.

 

Tra i siti che scambiano le nostre informazioni, quelli più popolari e utilizzati in tutto il mondo: da Facebook a Google da Comscore a Quantcast.

 

Il presidente della Federal Trade Commission, Jon Leibowitz, ha affermato che i risultati dello studio saranno utili all’agenzia antitrust per proteggere la privacy online dei consumatori e tenere a bada quelli che chiama i ‘cyberazzi’, paragonando la pubblicità comportamentale e i siti che collezionano dati ai ‘paparazzi’, che inseguivano e riprendevano ogni mossa delle celebrità.

A nulla, dunque, servono le opzioni per la tutela della privacy dei vari browser, quelle, cioè, che dovrebbero impedire ai pubblicitari di collezionare informazioni sulla navigazione degli utenti.

Quando siamo su internet siamo, infatti, braccati da “…un esercito di invisibili cyberazzi, cookies e altri cacciatori di dati ci seguono mentre navighiamo e riportano ogni nostro movimento alle società di marketing che a loro volta creano un profilo incredibilmente completo dei nostri comportamenti”, ha affermato Leibowitz, che ha dimostrato apprezzamento nei confronti di Microsoft, Apple e Mozilla per l’aggiunta nei loro browser di funzioni  per limitare il monitoraggio della navigazione.

 

Ma gli utenti sono davvero preoccupati per questo ‘spionaggio’ pervasivo delle loro abitudini di navigazione?

Secondo un’indagine di Diennea MagNews su circa 1.000 navigatori italiani, è cresciuto tra gli utenti del bel Paese il livello di conoscenza riguardo alle possibilità di profilazione offerte dalla rete come cookie, indirizzi IP o Google Dashboard: il 63,3% delle persone, per esempio, è perfettamente consapevole del fatto che il web può essere in grado di rintracciare il link su cui si è cliccato per arrivare su un determinato sito, il 62% sa che la Rete può sapere il paese in cui ci si trova o ancora il 59,7% sa che può essere riconosciuto il modello di browser utilizzato.

Il 42% sostiene che la privacy sia ormai difficilmente difendibile, sul web come nella vita reale. E non è un problema di informazione dovuto all’ignoranza di strumenti come i cookie o altro. Se anche lo sapessero – sostiene il 33% – continuerebbero a comportarsi nello stesso modo.

Per il 39% le informazioni lasciate sul web e utilizzate a fini di marketing rappresentano la normale evoluzione della pubblicità mentre il 25% sostiene sia comodo avere contenuti e comunicazioni pubblicitarie su misura.

 

“La cessione di informazioni riguardanti la persona e le finalità del loro trattamento sono e devono essere una scelta individuale consapevole – ha spiegato Maurizio Fionda, Amministratore Delegato  di Diennea MagNews – Internet ha dato ancora più potere di scambio al consumatore. Se questi non ne è consapevole può finire per essere oggetto di una sorta di prevaricazione a cui le imprese sono naturalmente portate. Ma se diventa consapevole ecco che entra in possesso di una formidabile moneta di scambio con la quale ottenere molto più di ciò che concede”.

“Tutte le informazioni hanno un valore economico e non a caso da qualche anno si inizia a parlare proprio di economia delle informazioni personali o economia della privacy. In questo si esplica l’incredibile forza della digitalizzazione”, ha concluso Fionda.