L'opinione

Piano Ultrabroadband, non si può regolamentare la rete come un condominio bizzoso

di Michele Mezza, mediasenzamediatori.org - docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli |

Il Piano del governo continua a considerare la connettività un fine e non un mezzo, chiedendo alle imprese quello che da nessuna parte al mondo è stato fatto da un’impresa: una strategia nazionale per un servizio universale.

E’ davvero strana la rete. Negli USA ci si accapiglia in furenti conflitti politici fra destra e sinistra, in Italia si continua a filosofare di standard e megabyte.

La coincidenza fra il provvedimento del Governo Italiano sul piano di connettività e il dibattito sulla net neutralità negli USA mostra spietatamente il cultural divide che oggi davvero separa la politica italiana, soprattutto nelle sue componenti più sociali, dalla riflessione globale sul digitale.

Paradossalmente, proprio i paesi dove più pragmatico appare l’approccio all’innovazione oggi si interrogano sulle relazioni di potere e i valori di autonomia e sovranità mentre nei paesi dove tutto sembra volgersi in politica e dove le divisioni ideologiche destra/sinistra ancora segnano le istituzioni, si coglie un tono subalterno e dimesso rispetto ai nuovi potentati on line.

Il Piano del governo, pur con alcuni fremiti innovatori, come l’omologazione dei servizi di rete ai servizio universale telefonico, continua a considerare la connettività un fine e non un mezzo, chiedendo alle imprese quello che da nessuna parte al mondo è stato fatto da un impresa: una strategia nazionale per un servizio universale.

Così come appare del tutto angusto, su un altro versante, il documento della cosiddetta Commissione Rodotà sulla governance della rete, promossa dalla Camera dei deputati.

In entrambi i casi ci hanno messo le mani i migliori esperti del paese.

Le teste più lucide e tecnologicamente preparate.

Ma forse proprio per questo preponderante peso di “esperti” i due documenti- il disegno legislativo del governo sulla banda larga e il Bill Of The Right di Rodotà- rimangono esercitazioni tecnocratiche a cui manca l’anima di una strategica che può venire solo dalla politica.

Esattamente come sta accadendo negli Usa, dove a poche ore dal pronunciamento sulla net neutralità da parte della FCC, grazie a una forte pressione della Casa Bianca, il Wall Street Journal ha dato la stura alla battaglia politica, chiamando tutta la destra liberista ad una mobilitazione contro il soviet della rete.

Anticipo qui la mia tesi di fondo: la connettività, così come la gestione della rete, è un sistema di relazione fra poteri da mediare o sconfiggere e non una tavola di diritti da regolare o incentivare, e di conseguenza la politica deve trovare forme e linguaggi per imporre una vision complessiva degli interessi del paese.

Per fortuna, proprio in questi giorni, il tema dell’usabilità della rete si sta ponendo finalmente non più dal versante della incentivazione delle modalità e delle opportunità di accesso, ma da quello del controllo e della limitazione dei poteri di suggestione e interferenza cognitiva dei giganti dell’algoritmo.

In Particolare il Parlamento Europeo ha, bene o male, battuto un colpo, aprendo un’istruttoria sul dominio di Google sul mercato, e più ancora nelle sfere cognitive dell’intero continente. Un colpo che ha subito messo in agitazione le lobbies anglosassoni che presidiano il primato digitale in inglese. L’Economist ha pubblicato vari articoli per instaurare un parallelismo fra Google e i casi più eclatanti di antitrust, dalla sentenza contro la Esso del 1911, a quella contro AT&T del 1984, alla delibera dell’Unione Europea contro Microsoft a cura dell’allora commissario alla concorrenza Monti.

Si annida qui un tema che riguarda proprio, da una parte, la responsabilità del governo nel tutelare l’autonomia e sovranità del paese, dall’altro la riflessione che attraversa la Carta dei diritti proposta dalla Commissione Rodotà, ossia l’idea che un dominio digitale, indotto dallo strapotere di un solo algoritmo sia o meno omologabile ad un monopolio commerciale tradizionale, quale erano quelli dei brand citati prima.

Io credo di no.

Come giustamente ricordava Zygmunt Bauman “il digital divide è la conseguenza non del mancato uso di meccanismi digitali o dell’accesso alla banda ultra veloce, quanto dell’impossibilità di concorrere alla produzione di senso comune”. Il dominio di un solo algoritmo limita questa opportunità.

Questa riflessione non traspare né nella politica del governo Renzi, né nel documento Rodotà in discussione. In entrambe le riflessioni vedo un approccio che si limita a predicare un accesso alla rete purchessia.

Ma è davvero l’accesso alla rete, oggi nel passaggio da Internet 2.0 a 3.0, in uno scenario dove il software, come si dice, si sta mangiando il mondo, un valore a sé, a prescindere? Davvero oggi il problema è diffondere e regolamentare la rete come fosse un condominio bizzoso?

Davvero il rischio principale è che vengano violati diritti e guarentigie di individui e comunità per l’obliquo esercizio del potere di comunicare?

O piuttosto, in questa fase della storia delle relazioni digitali quello che rischia di incrinarsi è l’autonomia cognitiva e relazionale di intere comunità che vengono ormai acquisite, come appalti pubblici, dalle potenze digitali che stanno monopolizzando i servizi sul web? Insomma è un problema di diritti formali o di poteri conflittuali?

E’ un nodo storico della politica.

Contratto o conflitto? Legge o forza? Rawls o Schmitt?

Di solito quando la politica si riconosce debole si ripara dietro alla formalizzazione di diritti teorici: la libertà di pensiero, di movimento, di organizzazione. Quando invece la politica è forte allora si prende di petto il nodo vitale: chi decide cosa.

Non a caso sono più di venti anni che i governi che si sono alternati alla guida del paese continuano a ripetere la stessa politica fallimentare per il cablaggio: sollecitare, quasi pietire, una mobilitazione finanziaria di aziende private che dovrebbero, non si sa perché e per chi, surrogare lo stato allestendo uno dei servizi universali più complesso e sofisticato nella sua architettura sociale.

Dopo D’Alema, Berlusconi, Prodi, e Monti, ora ci risiamo con Renzi: co finanziamento e perfino minacce legislative, per convincere Telecom, Fastweb, A2A, a diventare stato. E per 20 anni le aziende ripetono lo stesso banale e difficilmente contestabile ritornello; investiamo dove c’è ritorno, altro che servizio universale.

E il risultato è sempre quello: Milano cablato da 18 aziende e Matera o anche Napoli del tutto sguarnita.

Questo mentre in Germania, Francia, ma negli stessi USA è la comunità a governare il piano regolatore della connettività, con le amministrazioni locali in prima fila.

Un piano di cablaggio è una rete tramviaria, da disegnare localmente, non una rete ferroviaria da pianificare nazionalmente.

Mas oltre ad una vision di governance c’è ormai qualcosa d’altro. In questi ultimi anni la rete è diventata un grafo sociale, ossia un sistema matematico che organizza e orienta i comportamenti degli individui. Per questo va rinnovato il patto fra governanti e governati proprio sulla base della potenza di calcolo.

  1. Oggi siamo su uno strano crinale: la politica, o meglio la cosa pubblica, è fortemente ridimensionata nel senso comune, mentre la rete che è ormai lo spazio pubblico per definizione tende ad espandere la sua area d’azione distinguendosi e distanziandosi dalla sfera politica. E’ un bene, si dice, perché lo stato, o ancora di più, i partiti, meno hanno a che fare con la rete e più quest’ultima rimane libera. Ma la rete nasce come gemmazione dello stato. Nasce attorno alle prime riflessioni di Giordano Bruno che nelle sue Opere Magiche scrive “nell’infinito spazio possiamo definire centro nessun punto, o tutti i punti: per questo lo definiamo sfera, il cui centro è ovunque”. E poi diventa arte di governo con Machiavelli che parla di potere “bifocale” dove principe e popolo, reciprocamente, devono riconoscersi relazionandosi quotidianamente. E procede con il pensiero razionalistico di Galileo e Spinoza.Arrivando al protagonismo dello stato americano che con Vannuvar Bush nel 45 teorizza l’avvio di una nuova economia del sapere veloce, e poi con le commesse pubbliche che, parallelamente alle università americane della costa occidentale, danno sostanza e sfondo alla suggestione della mobilità dei pensieri e dei comandi. La rete è statualità concentrata. Così come Lenin diceva che il socialismo era soviet più elettrificazione, oggi potremmo dire che la democrazia è connettività più decisione. Come spiega Castells “i media digitali non sono il quarto potere, essi sono lo spazio dove si costruisce tutto il potere”. Ma tutta questa gigantesca macchina di nuova protesta civile da chi viene condotta? Già Calvino nelle sue Lezioni Americane intuì la risposta “dal software”. Tutti i nostri pensieri sono oggi filtrati, mediati, formattati e trasmessi da algoritmi, a cui tutti i giorni noi affidiamo le nostre funzioni cognitive più pregiate.

Ma a quali algoritmi?

A quelli dei nuovi potentati oligopolistici della rete: Google, Facebook, Apple, Twitter. Sono loro che oggi capitalizzano e riconfigurano i nostri pensieri.

E non è questa la vera partita democratica che va giocata?

L’Europa, e con essa gli stati nazionali non devono oggi assicurare, nel ripensare il patto fra governanti e governati sulla rete, ai propri cittadini autonomia e sovranità nelle mille azioni discrezionali che necessariamente si trovano a dover delegare ai samurai digitali?

Forse più che continuare a predicare la diffusione di un sistema di trasporto, come è la rete, limitandosi a regolare parcheggi e traffico, e magari anche la riservatezza con cui vengono negoziati i biglietti dei pedaggi, sarebbe il caso di definire modalità con cui ogni automobilista possa andare realmente dove vuole lui e non dove lo conduce la strada.

“Google ha una quota nel mercato delle ricerche sul web più alta in Europa che non negli Stati Uniti: 90% rispetto al 68%”. Da questa banale considerazione è partito il ministro della giustizia tedesco Heiko Haas, per chiedere a Google di rendere pubblico il suo algoritmo. Spiega Haas «il suo straordinario potere sui consumatori e gli operatori del mercato deve essere negoziato e contenuto per evitare che si abusi di questo potere».

  1. E’ esattamente la lezione che ci consegna il secolo scorso, il secolo della fabbrica fordista. Si negoziano prima i poteri e le potenze e poi si formalizzano i diritti e le norme. Soprattutto si individuano i soggetti negoziali, e i luoghi del confronto per dare concretezza e materialità al negoziato. Sarebbe davvero singolare montare una grande enfasi sui diritti della rete e non acquisire la consapevolezza di chi siano i soggetti poi in grado di farli valere: Davvero gli stati nazionali oggi hanno potere negoziale rispetto agli imperi del software? E perché non lo fanno valere sul terreno fiscale che a loro sta particolarmente a cuore? Perché non riescono a mordere, perché la transnazionalità del mercato digitale gli sottrarre l’interlocutore. Allora potrebbe essere l’Unione Europea il castigamatti, il grande vendicatore del dominio dell’algoritmo.
  1. Ma davvero pensiamo che un soggetto composito dove interi stati sono ormai ostaggio delle offerte di Google e Amazon, pensiamo ai Balcani o anche ai paesi baltici, possa entrare nel merito del conflitto di potere che si gioca sulla natura e la mission dei sistemi digitali?

Sono quesiti che non si ritrovano nel lavoro della commissione Rodotà. Così come non si vedono gli spazzi per dare corso all’unico vero negoziato che al momento mostra di poter realmente costringere i grandi imperi tecnologici ad una vera relazione paritaria con il mercato: penso al ruolo che possano avere le comunità territoriali, le grandi città, i circuiti delle smart city nell’abilitare o nel non riconoscere soluzioni digitali che arrivano in busta chiusa dalla California. Forse in quella direzione dovrebbe essere pensato uno statuto che assegna a territori e comunità metropolitane i poteri che reclama il ministro tedesco Haas: aprire gli algoritmi e guardarci dentro.

  1. Da qui l’idea di indicare esplicitamente quale algoritmo si utilizza per convogliare il sistema cognitivo di un cittadino. E soprattutto per rendere evidente che soggetti quali la P.A: o aziende pubbliche dei linguaggi come la Rai non devono e non possono limitarsi a importare algoritmi per la loro transizione al digitale.
  1. Le proposte:

Due le conseguenze concrete di queste considerazioni, da una parte la necessità che il governo si doti di nuovi strumenti per garantire la massima autonomia cognitiva alla sua comunità. Ad esempio che si premi la scelta di investire su nuovi e originali algoritmi piuttosto che importare codici altrui. Oppure che si imponga ai comuni e al sistema delle commodities municipali di elaborare ogni anno un Piano regolatore della comunicazione e dei servizi digitali che vincoli le scelte e le negoziazioni con i provider di supporto. Secondo che la pubblica amministrazione introduca con la grandi corporation della rete un criterio di reciprocità. Se Google nel territorio italiano può usare patrimoni e database altrui per moltiplicare i suoi servizi, nello stesso territorio deve concedere che individui e comunità possano usare le sue potenze tecnologiche per generare nuovi servizi, senza essere vincolati a modelli pay.

Se tu prendi devi dare.

Infine sarebbe utile che la Commissione Rodotà elaborasse un modello di trasparenza nell’adozione dell’algoritmo per cui ogni fornitore di servizi deve denunciare chiaramente di quale codice si sta servendo per assicurarmi quel servizio che mi propone.

  1. Motore di questo processo non è solo una tecnocrazia burocratica, come l’apparato fiscale o quello tecnologico ma deve essere anche una nuova figura sociale, come ad esempio il cosiddetto Consumatore, ossia quella funzione che tutti noi esercitiamo di alimentare e nutrire server e data base esteri con dati e contenuti legati alla nostra profilazione. Questo scambio ineguale per cui Google o Amazon usa il suo utente, legandolo ad un servizio ancora più telepaticamente capace di intuire i suoi bisogni, per aumentarne dipendenza e costi deve essere ricondotto ad una relazione peer-to-peer.

Il consumatore consapevole e connesso oggi è il motore di una negoziazione sociale dello scambio algoritmico.

  1. Se non c’è almeno questo, allora stiamo lavorando ancora per il nuovo Re di Prussia.