Scenari

Democrazia Futura. Occidente e guerre, tra disuguaglianze e migrazioni

di Stefano Rolando, insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio |

Implicazioni di uno dei più gravi conflitti nel Mediterraneo e processi da attivare. L'articolo di Stefano Rolando.

Stefano Rolando

A pochi giorni dall’attacco terroristico di Hamas da Gaza contro la popolazione israeliana Stefano Rolando in un articolo “Occidente e guerre. Tra disuguaglianze e migrazioni” analizza “Implicazioni di uno dei più gravi conflitti nel Mediterraneo e processi da attivare”. Dopo aver distinto “Migrazioni e disuguaglianze economiche e disuguaglianze connesse a godimento di diritti basilari” Rolando esamina “Gli effetti dirompenti per l’Occidente della mobilità alimentata dalla disperazione”: “Il punto è che nel terzo millennio – scrive Rolando – lo squilibrio è digitalmente sotto gli occhi del pianeta. Quasi tutto il pianeta ha un telefonino a disposizione.  E la potenzialità di generare intolleranza è diventata mille volte più forte rispetto al buio della non conoscenza che c’era nel recente passato. Una cosa sola non può fare l’Occidente: oscurare i fatti, negarne la prepotente evidenza, non discuterli severamente in ordine a cause e prospettive, speculare sugli allarmi e sulle paure per ricavarne vantaggi politici o affari immediati, creare condizioni interpretative divisive per mantenere un’illusione democratica e lasciare che la trasformazione di questi bubboni finisca – stupida ipotesi senza basi e senza riscontri – per avere  tutte le sue  ricadute in testa ai popoli e ai territori diciamo così diseredati. La mobilità – tecnologica, digitale, fisica – alimentata dalla disperazione ha oggi una dirompenza mai avuta nella storia del mondo. E la sommatoria dalla curva demografica, della curva degli autoritarismi che governano con violenza e crudeltà e della curva dell’evoluzione delle mobilità (quelle pacifiche e quelle guerresche o terroristiche) costituisce l’equazione del terzo millennio rispetto a cui chiamarsi fuori vuol dire perdere in partenza non una battaglia ma la guerra finale”.
 Partendo da questi presupposti Rolando individua  infine “Due processi da attivare: trasferire risorse per ridurre gli squilibri e stabilizzare l’immigrazione”. In conclusione Rolando osserva “La tenaglia delle due guerre in Ucraina e nel Medioriente sull’Europa e sull’Italia”.

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A inizio ottobre in una lettera da Malta esprimevo la mia preoccupazione per la stagnazione politica sulle migrazioni euro-mediterranee. E quindi per una crisi di iniziativa comunicativa che sarebbe invece importante riattivare per fare uscire da una sterile condizione (evidentemente disinformata) il rapporto tra istituzioni e cittadini, tra istituzioni e imprese e tra istituzioni e migranti stessi.

Un laissez-faire che produce clandestinità, illegalità, rabbiosità, rancori, incertezze gestionali, disumanità, assenza di progettazione sociale e migratoria, rinuncia a formulare obiettivi, eccetera.

Da qui il racconto fatto a proposito di una politica europea di partenariato multi-stakeholder (le istituzioni, insomma, da sole non bastano) per portare in campo (di più) la comunicazione di impresa (il mercato del lavoro regolare) e quella sociale (non solo le ONG ma l’insieme del terzo settore e le sue risorse un campo socio-assistenziale).

In questa settimana però è scoppiato uno dei più gravi conflitti dell’età contemporanea nel Medioriente. Cioè, nell’area nevralgica del Mediterraneo, che si ripercuote strutturalmente sui rapporti nord-sud e su quelli est-ovest di questa drammatica geopolitica. Con inquietanti implicazioni.

Migrazioni e disuguaglianze economiche e disuguaglianze connesse a godimento di diritti basilari

Le migrazioni rientrano nello schema del contesto esplosivo, al di là di quelle forzate dalle nuove circostanze di guerra (cioè, le evacuazioni). Sono in verità segnale di una delle tante realtà di vecchi conflitti senza soluzione che riguardano non solo il Medioriente e il nord Africa ma tutta la dinamica nord-sud del pianeta. Ma ci rientrano anche tutti gli altri fattori che non solo spingono ad emigrare. Ma spingono ad alzare la soglia dei conflitti. E a modificare la delega politica dei territori più disagiati fino a creare condizioni permanenti di non dialogo internazionale, di non negoziato, di non diritto, con soluzioni solo nell’uso della violenza.

Per non trovarmi in una percezione disagevole dico subito che è Hamas che ha attuato lo scellerato attacco a Israele in modo unilaterale e in forma terroristica, con marcata disumanità.  Quindi nella fattispecie – in linea con varie vicende del passato – l’istinto di solidarietà va verso Israele. Ma lo sforzo di riflessione di tutti noi – anzi di tutto l’Occidente, ferma restando la necessità di ridiscutere ab imis il senso di questa parola – deve andare alla radice degli eventi e, al di là delle filiere di scontro abituale (filo-arabe, filo-palestinesi, filo-israeliane, eccetera), dovrebbe riportarci alla logica di un conflitto strutturale in cui nessuna catastrofe – da decenni a questa parte – diventa mai lezione storica. Tutto sempre da capo.

Con la variante ora che la mappa globale dei conflitti disegna una “tenaglia” in particolare per l’Europa che sollecita un ripensamento rapido e radicale per entrare finalmente con qualche idea strategica in una trama ad alto rischio, rispetto a cui finora – per divisioni interne e per prevalere di crisi (anche socio-economiche) interne a molti paesi – l’Europa ha brillato per assenza[1].

Non scelgo la via filo-palestinese (pur conoscendo quei territori, pur avendo svolto in alcune occasioni anche forme di consulenza volontaria attorno a temi di sviluppo economico con soggetti produttivi del territorio palestinese, una volta anche chiamato dall’associazione degli imprenditori locali per studiare insieme il tema della brandizzazione della produzione tessile e ceramica).

Ma non posso non tenere in considerazione le due grandi voragini delle intollerabilità di territori e popoli del nostro tempo a fronte delle visibili, dichiarate, digitalmente propagandate, condizioni di benessere, salute e libertà di una parte consistente del mondo.

Una è la condizione di disuguaglianza economico-alimentare e sanitaria.

L’altra è la condizione di disuguaglianza connessa a libertà e godimento di diritti umanitari basilari.

Accetto anche una parte dell’argomentazione secondo cui quel benessere e quella libertà non sono un furto perpetrato in permanenza (anche se furti dei nord nella storia ce ne sono stati parecchi). Ma sono anche il risultato di prezzi pagati con evoluzioni, guerre interiori, sofferenze, risalite, lotte, acculturazioni, conquiste culturali e civili, eccetera.

Gli effetti dirompenti per l’Occidente della mobilità alimentata dalla disperazione

 Il punto è che nel terzo millennio lo squilibrio è digitalmente sotto gli occhi del pianeta. Quasi tutto il pianeta ha un telefonino a disposizione.  E la potenzialità di generare intolleranza è diventata mille volte più forte rispetto al buio della non conoscenza che c’era nel recente passato.

Una cosa sola non può fare l’Occidente: oscurare i fatti, negarne la prepotente evidenza, non discuterli severamente in ordine a cause e prospettive, speculare sugli allarmi e sulle paure per ricavarne vantaggi politici o affari immediati, creare condizioni interpretative divisive per mantenere un’illusione democratica e lasciare che la trasformazione di questi bubboni finisca – stupida ipotesi senza basi e senza riscontri – per avere  tutte le sue  ricadute in testa ai popoli e ai territori diciamo così diseredati.

La mobilità – tecnologica, digitale, fisica – alimentata dalla disperazione ha oggi una dirompenza mai avuta nella storia del mondo. E la sommatoria dalla curva demografica, della curva degli autoritarismi che governano con violenza e crudeltà e della curva dell’evoluzione delle mobilità (quelle pacifiche e quelle guerresche o terroristiche) costituisce l’equazione del terzo millennio rispetto a cui chiamarsi fuori vuol dire perdere in partenza non una battaglia ma la guerra finale.

Queste argomentazioni sono scritte da molti meglio di quanto io le stia qui riducendo ad un breve assioma di buon senso. Ma di solito sono saggi ponderosi, tabelle con infinite derivate, complessi laboratori di centri-studi. Insomma, sono inquietudini scientifiche che la politica pensa di dominare come materia controllabile da chi ha comunque le redini dei finanziamenti e delle nomine. In realtà la povera gente è investita dalla ricaduta dell’equazione nelle sue ormai quotidiane forme di eruzione in modo assai meno autorizzato di quanto la politica pensi. Non solo la poverissima gente del terzo mondo. Ma anche la nostra gente.  Gente che si becca in testa mille missili in un giorno che piovono dai territori del vicino. Che si ritrova un Bataclan a Parigi con i ragazzi massacrati a bazooka ovvero una metropolitana a Bruxelles che diventa una tomba in un minuto. O ancora un rave party che trasforma famiglie in polvere e scuole che contano bambini sgozzati.

Che cosa sia il terrorismo contemporaneo lo sappiamo nei dettagli e sappiamo che quell’impasto di follia ideologica, di sado-masochismo teologico e di annientamento delle convenzioni polemologiche, è all’ordine del giorno. Supponiamo dunque che questo argomento sia acquisito.

Quello che non appare acquisito è l’atteggiamento analitico dell’Occidente attorno alle cause scatenanti.

Provo a dirla rozzamente, perché questo è solo un’opinione non un trattato.

Due processi da attivare: trasferire risorse per ridurre gli squilibri e stabilizzare l’immigrazione

Il cross drammatico di quelle curve prima accennate comporta che due processi siano pensabili come un avvio di soluzioni globali, da attivare con piani internazionali di emergenza, ma non solo a breve termine.

Uno è quello del trasferimento eccezionale di risorse, metodi e condizioni per ridurre visibilmente i fattori di squilibro descritti (fame, libertà, lavoro, divario tecnologico, eccetera) con risultati già di medio periodo.

L’altro è quello di entrare in una logica di controllo fermo, normato, regolamentativo dei processi migratori su scala globale, con poderose risorse per tutte le fasi di gestione dell’integrazione, avendo poi le stabilizzazioni che l’immigrazione gestita produce nel medio e nel lungo periodo.

Per dirla in soldoni nella prima ipotesi passa la teoria di “aiutarli a casa loro”. Nella seconda gestisci l’emigrazione e poi la integri nelle tue regole. 

Ma non per far finta.

Si tratta di disporre di un “Piano Marshall” occidentale ventennale che taglia il 10 per cento delle risorse pubbliche e private dell’Occidente, con una gestione – ora straparlo – controllata dall’Europa per il continente africano, dagli Stati Uniti d’America per il continente americano e da un patto asiatico (non so quale, lascio agli esperti la questione) per il continente asiatico. Per parlare dell’Europa una quota di investimenti straordinari viene orientata alla gestione del bilancio unico, come concepito da Mario Draghi, per finanziare il decollo e l’avviamento di un grande processo di integrazione.

Fare finta di aiutare “un pochino” (sono stato in Africa a vedere questo aspetto e salvo qualche cosetta seria della Germania non c’è più niente di serio che viene dall’Europa, con Cina e Russia che maramaldeggiano e con intrecci continui tra corruzioni, mercati d’armi e impoverimenti di massa) è dire un chiaro no alla prima ipotesi, per impossibilità di attuazione, per non pagare una polizza che assicurerebbe una parte del grande rischio.

Sull’altro fronte, continuare a fare solo securizzazione alle frontiere, fare finta di ricacciare in mare qualche disperato, riempire campi di concentramento per mantenere in realtà flussi elettorali governati dalle paure collettive alimentate da propaganda, è dire bello chiaro no alla seconda ipotesi.

Registro che negli ultimi venti anni abbiamo detto no – parlo dell’Europa – su entrambi i fronti.

Ovvero ci siamo inventati etichette propagandistiche (tipo questa nostra ultima del Piano Mattei) per avere alibi ma abbiamo accettato che lo scontro interno prevalesse sull’accordo strategico. Il pessimismo del ragionamento viene da questa storia evidente a tutti di declino decisionale.

Lo stesso declino decisionale succede tra i due fronti dei falchi di Palestina e di Israele che ormai hanno la meglio rispetto ai due fronti delle rispettive colombe. Queste ultime sono in minoranza perché la gente – impaurita per la fame o impaurita per le violenze altrui – sceglie la delega a chi propugna violenza.

I falchi compattano ogni volta fronti disuniti. I falchi palestinesi ricompattano i poteri arabi ormai fratricidi. I falchi israeliani ricompattano forze politiche che, come tutte le democrazie occidentali non trovano più maggioranze organizzate per fare crescita e equità insieme.

Chiamo così il vecchio programma socialdemocratico europeo che garantendo il Welfare pensava di avere trovato un passaporto per noi e un salvacondotto per il mondo.

La crisi del ceto medio occidentale ha indebolito duramente quel modello. Abbiamo perso quella battaglia. Ora siamo di fronte ad avvisaglie che ci dicono che stiamo anche per perdere la guerra.

La visione resta a breve, lo scontro è interno a ogni paese e all’Europa, la percezione del patto è minoritaria. Intanto i fatti sono in marcia contro ogni logica di governo dei conflitti.

La tenaglia delle due guerre in Ucraina e nel Medioriente sull’Europa e sull’Italia

In questo quadro va aggiunto tutto ciò che va capito – e ancora non è a tutti chiaro – cosa determina quello che Giovanni Cominelli ha chiamato “la tenaglia delle due guerre sull’Europa e naturalmente sull’Italia”.

Le due guerre ovviamente sono l’Ucraina e il Medioriente che muovono attori locali e attori globali, rispetto a cui l’Italia è perfettamente baricentrica.

Mi pare adesso più centrale e grave tutta questa argomentazione che discutere del declino del Mossad iper-tecnologizzato che non ha capito per tempo l’efficacia del piano d’attacco pre-digitale preparato da Hamas, anche se questo è un argomento vero ma di dettaglio rispetto alla dinamica storica complessiva.

Ma quel che stupisce (forse fino a un certo punto) è che, mentre ormai si è stabilizzata la maggioranza di disinteresse degli italiani per l’andamento della guerra russo-ucraina, spunta dai sondaggi la maggioranza che non sa che pesci pigliare, anche per dare un giudizio sommario, sulla guerra violentissima esplosa tra Hamas e Israele. Cosa che ci ricorda – lo dico spesso – che, quando giudichiamo l’offerta politica, dobbiamo sempre tenere in considerazione anche la domanda sociale di politica, di un Paese – ricordiamoci anche di questo – la cui astensione elettorale è arrivata fino al 60 per cento. E ciò avviene in un quadro di “spiegazione pubblica” del tutto insufficiente e distorta sempre dalla “organizzazione stupefacente” (cioè, per far tenere gli occhi al televisore più che per far capire) che è ormai la regola dei talk-show. Sia chiaro: nella difficoltà di capire e scegliere non c’è solo la soggettiva disaffezione dei cittadini. C’è la complessità dei problemi del nostro tempo che richiede un enorme impegno pubblico, critico e pedagogico.

Riconosco infine che anche il mio ragionamento sullo scenario della divaricazione planetaria è un po’ estremizzato per essere compreso nella sua tendenzialità. Ciò per tentare di capire io stesso quanto siamo distanti da ciò che servirebbe per allontanare il mondo e quindi anche noi stessi dal baratro evidente.

Ma è l’unico estremismo che mi concedo, essendo refrattario a questa parola.  Ho un debito storico con il più formativo spettacolo visto da giovane al Piccolo Teatro a Milano, che fu il Galileo di Bertolt Brecht. Il cuore narrativo era “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Cioè, un altro rispetto a noi. E io ho anche sempre pensato “Sventurato il popolo che si affida ai suoi estremisti”. Cioè, ancora un altro rispetto a noi.


[1] Mattia Ferraresi sul quotidiano Domani ricorda in un breve articolo (“I tre pezzi della guerra mondiale contro l’Occidente”, 13 ottobre 2023) l’accenno di Papa Francesco alla “terza guerra mondiale a pezzi“, con la Russia impegnata sul fronte ucraino, l’Iran impegnata sul fronte palestinese e la Cina – in chiave antiamericana – che non molla la presa su Taiwan. E conclude: “Finché la guerra mondiale è a pezzi, la superpotenza americana può affrontare e gestire le varie crisi. Se i pezzi si saldano fra loro, le cose si complicano”.