Il ricordo

Democrazia Futura. Pensieri interrotti

di Roberto Cresti, ricercatore e docente di storia delle arti del Novecento all’Università di Macerata |

Roberto Cresti porta su Democrazia Futura un ricordo impersonale di Gianni Vattimo.

Roberto Cresti

Roberto Cresti in “Pensieri interrotti” presenta quello che definisce nell’occhiello “Un ricordo impersonale di Gianni Vattimo”  “Vattimo letteralmente dominava la scena. La sua conoscenza di prima mano dei testi della filosofia antica e moderna (della seconda, in particolare, dell’Otto-Novecento), i rapporti diretti con gli esponenti del pensiero europeo (Hans Georg Gadamer in Germania, Gilles Deleuze in Francia) e nordamericano (Richard Rorty), gli davano, in ogni dibattito, ricordo quelli all’Istituto Banfi di Reggio Emilia, una ricchezza di argomentazioni e di riferimenti alle migliori ricerche filosofiche in atto che spiazzava i suoi interlocutori, mettendoli in difficoltà, come di fronte a un Doctor invincibilis (se ne può avere un’idea leggendo la prefazione alla raccolta di lezioni di Martin Heidegger, Che cosa significa pensare?, pubblicata nel 1978). Non era poi da trascurare che, se presiedeva una sessione di lavoro in un convegno, quando prendevano la parola colleghi tedeschi, francesi o inglesi, non indossasse la cuffia per la traduzione simultanea.
La familiarità con la lingua tedesca, in particolare, faceva la differenza e rendeva superfluo nei suoi interventi o comunque ridotto al minimo il ricorso a termini in lingua”.Il saggio prosegue rievocando i contenuti di una conversazione dello stesso Cresti nel 1991 con Gadamer nella quale Vattimo è definito “non un filosofo” bensì “un acrobata”, facendo riferimento al celebre episodio rievocato da Nietzsche in Così parlò Zarathustra  del “funambolo, il quale, in bilico sul filo teso sopra un mercato dalla folla versicolore, sentendosi incalzare, e superare di slancio, con un salto acrobatico, dal pagliaccio che gli è giunto, su quel filo stesso, alle calcagna, precipita al suolo e muore”, prima di concludersi sulle due legislature di Vattimo al Parlamento europeo: ” La prima, fino al 2004, come rappresentante del Partito Democratico, la seconda, dal 2015, con L’Italia dei valori. Diceva di ispirarsi, fin dagli anni Settanta, al cosiddetto ’catto-comunismo’ (il suo primo impegno, come per Eco, era stato nella Azione cattolica) e del resto proprio in quella fusione politica si rivela, prima a caldo poi a freddo, l’essenza nichilista del cattolicesimo italiano, che ha col tempo –  conclude Cresti – dissolto tutti i propri partner politici”.

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Sinistra è l’esistenza e ancor sempre priva di senso:
un pagliaccio può esserle fatale.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Una cara amica, dedita anima e corpo alla montagna, mi ha segnalato una piccola fotografia, del 1956, conservata nell’archivio del Museo Nazionale della Montagna di Torino, nella quale si vede un giovane Gianni Vattimo su una parete della ex cava Bertonasso di Avigliana, a una ventina di chilometri da Torino, mentre ‘assicura’ in parete, con una corda, Walter Bonatti, che lo precede. Il futuro filosofo, recentemente scomparso, è più in basso della sua formidabile guida, ma è, a sua volta, in punto di procedere all’arrampicata, dando prova d’uno spirito di avventura che pervaderà l’intero corso della sua opera.

L’immagine mi ha ricordato, infatti, molte cose relative agli anni in cui ero studente di filosofia alla università di Bologna, ove Vattimo, già svettante nel panorama culturale italiano, era considerato quasi un nemico. Non desidero spiegare questo conflitto, mi preme invece ricordare che i libri di Vattimo, stava per uscire Le avventure della differenza (1980), hanno costituito per me, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, un punto di riferimento essenziale. Ho ben presenti Il concetto di fare in Aristotele (1961), Essere, storia e linguaggio in Heidegger (1963), Poesia e ontologia (1967), Schleiermacher, filosofo dell’interpretazione (1968), Il soggetto e la maschera (1974), Al di là del soggetto (1981), e la celebre collettanea di saggi, curata e introdotta (come un ‘manifesto’) insieme a Pier Aldo Rovatti, Il pensiero debole (1983). Aggiungo la preziosa Garzantina di Filosofia (1981), da lui coordinata, l’antologia Estetica moderna (1982) e la traduzione di Verità e metodo di Hans Georg Gadamer (1983), introdotta da un saggio[1].

Non era solo il contenuto di quei libri a interessarmi bensì la ‘voce’ che, nella scrittura, si ascoltava, una voce nella quale risuonava la miglior tradizione di pensiero italiano del secondo Novecento, così da farmi pensare a Ugo Spirito, Enzo Paci, Guido Calogero, Nicola Abbagnano e, com’era ovvio, al primo maestro di Vattimo, Luigi Pareyson (ai quali aggiungo lo storico della filosofia esistenzialista italiana e studioso di David Hume, Antonio Santucci, che ho avuto, ed è stato un privilegio, come docente nell’ateneo bolognese). Un altro nome che faccio volentieri, per affinità di interessi, è Carlo Ludovico Ragghianti.

Vattimo letteralmente dominava la scena. La sua conoscenza di prima mano dei testi della filosofia antica e moderna (della seconda, in particolare, dell’Otto-Novecento), i rapporti diretti con gli esponenti del pensiero europeo (Hans Georg Gadamer in Germania, Gilles Deleuze in Francia) e nordamericano (Richard Rorty), gli davano, in ogni dibattito, ricordo quelli all’Istituto Banfi di Reggio Emilia, una ricchezza di argomentazioni e di riferimenti alle migliori ricerche filosofiche in atto che spiazzava i suoi interlocutori, mettendoli in difficoltà, come di fronte a un Doctor invincibilis (se ne può avere un’idea leggendo la prefazione alla raccolta di lezioni di Martin Heidegger, Che cosa significa pensare?, pubblicata nel 1978). Non era poi da trascurare che, se presiedeva una sessione di lavoro in un convegno, quando prendevano la parola colleghi tedeschi, francesi o inglesi, non indossasse la cuffia per la traduzione simultanea.

La familiarità con la lingua tedesca, in particolare, faceva la differenza e rendeva superfluo nei suoi interventi o comunque ridotto al minimo il ricorso a termini in lingua, che altri invece ostentavano con sicumera infantile. Ricordo, fra questi, un allora giovane rampante destinato alle più alte fortune filosofiche (ma soprattutto accademiche), che, dopo un intervento con una messe di termini tedeschi, che reputava ‘intraducibili’ (introduceva il libro di Victor Farias, Heidegger e il nazismo), fu letteralmente fulminato da un signore del pubblico, che gli rivolse una lunga domanda proprio in tedesco, senza riceverne risposta. Calò il gelo nella sala, e il moderatore, che era Ferdinando Adornato, venne in aiuto al tapino dicendo che il prof… non poteva rispondere in tedesco perché pensava in italiano! Ecco, Vattimo era Vattimo perché non fingeva o, meglio, era capace di veicolare una sorta di serietà leggera ma profonda, da filosofo ellenistico, che aveva un riscontro anche nella sua dichiarata appartenenza al mondo gay.

Non so nulla della sua vita privata e non ho mai cercato di saperne. Forse era stato, già agli inizi delle sue fortune, come uno dei protagonisti della Donna della domenica di Fruttero e Lucentini, uno di quei torinesi gozzaniani dalla ‘doppia vita’ condotta senza riprovazioni e, anzi, con il consenso dei salotti buoni. Avevo sentito parlare di una certa familiarità con la corte degli Agnelli, che credo avessero provveduto anche a sostenere economicamente la facoltà di Lettere e Filosofia di Torino quando egli ne era preside.

Aveva sempre un portamento elegante e una ironia dimessa che gli consentiva di modellarsi via via in diverse situazioni indossando più maschere, tutte però davvero nude, cioè vere, e così lo ricordo in una occasione bolognese a Palazzo Montanari, ormai alla fine degli anni Ottanta, dove era chiamato a introdurre la presenza davvero un po’ monumentale del menzionato Gadamer, già suo maestro alla università di Heidelberg, dopo Pareyson a quella di Torino, avendo come compagno Umberto Eco, di lui un po’ più anziano, ch’era stato, sempre a Torino, allievo di Pareyson e gli aveva fatto da tutor nei primi tempi. Con Eco aveva vinto inoltre, nel 1955 (c’era anche Furio Colombo), un concorso per l’assunzione alla sede Rai di Torino – in cui si aggirava, ventenne, Enza Sampò, contesa fra Enzo Tortora e Mike Bongiorno.

La sala della biblioteca era affollatissima e per la prima e unica volta vidi Eco un poco sulla difensiva davanti a qualcuno, era comunque Gadamer, non l’amico Gianni, Gadamer, dalla massiccia figura di gran vecchio con tanto di basco e bastone, al quale un poco maldestramente Eco attribuì il piacere del vino fino a pochi momenti prima a tavola. Ma la scena era occupata più che altro da Vattimo, che disse qualcosa di un evento sfortunato occorsogli in quella stessa giornata, abbassando palesemente il tono del suo intervento, ma entrando in comunicazione con la platea, a cui presentò Gadamer, per così dire ad altezza d’uomo, con un’intellettuale, ma credibile, ‘debolezza’, basata sulle ‘variazioni’ della esistenza e di qualunque ‘identità’, secondo quell’aperta ermeneutica degli ‘effetti’ di cui Gadamer era il primo titolare.

Il pensiero ‘debole’, l’oltrepassamento del soggetto in una dimensione espressiva pan-linguistica, fra ‘differenze’ senza originarie ‘somiglianze’, e un individualismo sfuggente come un’anguilla, con varianti ‘dolci’, anche nelle diverse arti (dai libri di Pier Vittorio Tondelli e di Aldo Busi alla pittura della Transavanguardia, guidata da Achille Bonito Oliva, o a quella degli Anacronisti: ricordo un noto critico d’arte, Italo Mussa, organizzatore di mostre di foto di ‘bacchini nudi’ scattate nella Taormina fin de siècle, che l’indicava come il primo ‘animatore della differenza’) divennero quasi un costume negli anni Ottanta. E Vattimo condusse anche per la Rai, nel 1986, una trasmissione settimanale, La clessidra (dei filosofi), in cui riceveva, in uno studio dove mi pare di ricordare vi fosse una scenografia che riproduceva Il carnevale di Arlecchino di Mirò (eletto a emblema di leggerezza postmoderna, le cui figurine evocavano quelle dei videogiochi, ormai divenuti di massa), colleghi conosciuti come Massimo Cacciari e Emanuele Severino.   

In seguito, ho perso i contatti intellettuali con Vattimo e, ci tengo a farlo presente, non ho mai avuto un rapporto diretto con lui (quindi i miei ricordi non sono quelli veri della vita, ma solo quelli impersonali delle letture). In questo c’è però un vantaggio, che di un autore si percepisce solo il pensiero. E proprio in tal senso mi parve poi che qualcosa avvenisse nella sua ricerca, come se istanze personali si introducessero in essa progressivamente, rescindendo i legami che, in qualche modo, la assicuravano, pur con la massima libertà di movimento, e con spirito individuale di ‘arrampicata’, alla tradizionale base accademica. Andrà forse ricordata, al riguardo, la scomparsa del suo maestro, Pareyson appunto, nel 1991, che forse gli aveva fatto mancare un contrappeso, una corda d’‘assicurazione’ o forse soltanto il freno di quel demone socratico che «spingere non spinge mai», piuttosto, in ogni frangente, chiede: «Sei sicuro?».

Non si trattava però di un fatto privato. Il passaggio fra gli anni Ottanta-Novanta è stato decisivo in Europa e nel mondo intero, non solo per la caduta del muro di Berlino, ma per il venir meno del legame (cui comunque la caduta del muro non può essere reputata estranea) fra filosofia e politica, che fino a quel momento era stata la caratteristica del XX secolo (come già dei due precedenti), a favore di quello fra politica e mondo economico-tecnico-finanziario.

La filosofia, rimossa progressivamente da qualsiasi responsabilità pubblica e insieme civile, proseguiva nel proprio ‘indebolimento’, con una ‘decostruzione’ parallela a quella a cui la politica andava incontro per il contatto col suo nuovo partner, potendosi però giovare, come quella, di un congruo compenso per il suo nuovo status. Infatti, come alla politica, nel vuoto lasciato dalle ideologie, toccava l’autentica fortuna, a destra, del sistema mediatico berlusconiano, e a sinistra, della nouvelle Versailles dell’Unione Europea, restava alla filosofia una rendita (a livello planetario) fra università, fondazioni, club e istituti analoghi con la quale alimentare una scuola della ‘debolezza’, la quale consentiva ogni sorta di gioco interpretativo, di trasformazione e deformazione linguistica.

René Girard, nel 1996, in un serrato confronto avuto proprio con Vattimo, affermava:

«La parola chiave per definire questa scuola potrebbe essere “gioco”. Tutto è ludico, è un gioco linguistico. Diciamo che, da un punto di vista sociologico, se lo possono permettere, poiché la maggior parte degli esponenti di questa scuola viene dall’accademia, convinti che ci sarà sempre un’università a sostenerli, coi finanziamenti costanti da parte del sistema capitalistico, e che nessun problema interferirà dall’esterno. Non guadagneranno gli stipendi degli ingegneri della Silicon Valley, ma la loro vita è agevole e funziona bene»[2].  

Vattimo (come Eco) era uno di quella ‘scuola’. Vi partecipava, contribuendo a formarla, grazie a una esistenza cosmopolita, condotta, nel crepuscolo dell’ultimo benessere occidentale del XX secolo, anche con soggiorni come docente negli Stati Uniti. Inoltre, vi si era preparato col libro La fine della modernità (1986) e poi con La società trasparente (1989), ove il postmoderno diveniva il nuovo humus epocale, fluido e inafferrabile, in cui si scioglievano tutti i valori della civiltà occidentale, e, anzitutto, il loro stesso conflitto. Girard parlava polemicamente della illusione di un nuovo Eden, che era il mito propagandato dal neoliberismo (proprio dopo la caduta del muro di Berlino, ossia dell’antagonismo fra il complesso tecnico-militare euro-americano e quello russo-asiatico) in cui sembra di vedere uno degli effetti dissolutivi della civiltà umana il cui inizio Günther Anders faceva risalire alle bombe di Hiroshima e Nagasaki[3].

Peter Sloterdijk ha scritto un libro inquietante, Cosa è successo nel XX secolo? (2016)[4], nel quale rilegge il Novecento riconoscendo un certo numero di epifenomeni noetici, di doppi fondi delle idee e di autentici traumi «sovraliminali», ossia indicibili, che si accordano con l’idea di dissoluzione post-atomica a lungo raggio di Anders; e che fanno pensare, proprio alla fine del secolo, a esplosioni nucleari divenute silenziose e trasparenti, che producono lo sgretolamento quotidiano di tutte le identità nel sistema della globalizzazione, con l’avvento definitivo di quella che, da autentico veggente, Philip K. Dick, chiamava fin dagli anni Settanta, l’epoca dei «simulacri», e prima di lui, Martin Heidegger aveva definito della «notte del mondo». Quel tempo, cioè, divenuto così ‘mancante’ nella sua pienezza di ogni bene (e si potrebbe giocare sul termine ‘privato’ come sinonimo di ‘mancante’, in opposizione a ‘pubblico’), da non aver più alcuna coscienza della nozione stessa di ‘mancanza’ (o, per proseguire nel gioco, di ‘privazione’). Lo scrittore e saggista Philippe Muray, difficilmente omologabile a un fronte politico, in un libro del 1991, con ironia straordinariamente lucida, scriveva: «Noi siamo affetti da un Bene incurabile»[5].

Ho già ricordato che, dalla fine degli anni Ottanta, avevo perso un po’ il contatto intellettuale con Vattimo; avevo letto però i due libri citati, La fine della modernità e La società trasparente, e, nel secondo, direi quasi dal secondo (oggi mi accorgo che vi era anche nel mezzo L’etica della interpretazione, 1988), mi pareva che la ‘voce’ risultasse molto indebolita e quasi ‘trasparente’, come il mondo dei mass media di cui trattava. Quel mondo, infatti, era il ‘simulacro di tutti i simulacri’, e in esso avevano trovato rifugio, nel nostro Paese, a destra e a sinistra, tutti i provenienti dai vespri della politica post-tangentopoli, oltre a una quantità di ibridi culturali fra le arti visive, la musica, la psicologia, il diritto e la letteratura. La trasparenza in video e dintorni ripagava tutti (preferibilmente i reduci delle ‘sinistre di destra’, delle ‘destre di sinistra’ o dei ‘centri friabili’, precursori del modello transgender) in una sorta di Inferno-Paradiso dantesco, in odore di fisica quantistica, parallelo e intrecciato a un sempre più estinto senso della realtà. James Ensor ne dipinge già il corteo e il traguardo nell’Entrata di Cristo a Bruxelles (1888).

Ma, per Vattimo, a onore del vero, la ‘entrata a Bruxelles’ sarebbe stata graduale. Nella Fine della modernità dichiarava di volersi mantenere ancora nell’ambito della filosofia, prefiggendosi di sviluppare il pensiero dei due grandi filosofi che aveva avuto fin dagli inizi come principali punti di riferimento, ovvero Nietzsche e Heidegger; e di farlo a contatto diretto con la dissoluzione alla quale mi sono poco sopra riferito. Egli assumeva perciò il postmoderno, non come una moda, una definizione effimera corrispondente a un instabile contenuto culturale o solo linguistico, ma come un evento nel quale potevano riconoscersi e interpretarsi la nozione heideggeriana di «fine della metafisica» e quella nietzschiana di «eterno ritorno». I «simulacri» postmoderni potevano essere ricondotti, cioè, a un destino del quale erano l’effetto ultimo e in certo senso previsto, su quello che Heidegger chiama, com’è noto, «il sentiero dell’essere».

Era come se un viaggio si lasciasse dietro una lunghissima regione d’ombra (circa 2.500 anni di storia occidentale), divenuta, da ultimo, fittissima (la citata «notte del mondo»), ovvero si giungesse alla «fine (della storia) della metafisica», recante in sé stessa un destino, corrispondente alla osservazione di Albert Einstein che «la costruzione autonoma di un sistema logico – non influenzato da un’esperienza esterna incerta e dipendente dal caso – ha sempre esercitato un fascino irresistibile sulla mente umana»[6], fino al tradursi, appunto, di quel «fascino» (vera culla del suddetto destino) in una «cornice» (Gestell) tecnica capace (da Hiroshima e Nagasaki in poi) di globalizzarsi e di racchiudere progressivamente in sé l’intero esistente.

La ‘guerra fredda’ era stata l’ultimo esito della «metafisica» (che tuttavia aveva garantito ancora una immagine pur smembrata e sfigurata dell’Europa) ed era stata preceduta dal mondo della economia liberale, sorto con la rivoluzione industriale (prima e seconda), e creatore del cosiddetto «spazio tecnico» (Walther Rathenau parlava nel 1912 di una ormai avvenuta «meccanizzazione del mondo»), un evento rivelatosi nella sua irreversibile violenza con la «guerra dei materiali» subentrata alla guerra d’uomini nella Grande Guerra, il cui secondo tempo, dal 1939, era giunto all’apoteosi delle bombe atomiche sul Giappone.

Il neo-liberismo, trionfante del sistema comunista, non apriva però affatto una nuova pagina, ma solo una nuova pagina della «metafisica» con l’ambizione di istituire una invarianza radicale, davvero «un sistema logico – non influenzato da un’esperienza esterna incerta e dipendente dal caso», che Francis Fukuyama ha riassunto nell’idea di «fine della storia», l’enunciato più metafisico che sia stato fatto in tempi recenti.

A questa invarianza radicale (travestita da mutamento incessante) corrisponde la fosforescenza notturna della Rete e dell’universo digitale (la nuova caverna platonica), abitati da ciechi ormai nati come nell’imprecisata isola – che si potrebbe oggi chiamare Adelos, ‘l’Invisibile’ – della nota pièce di Maurice Maeterlinck.

Vattimo, nei saggi che compongono La fine della modernità, conduceva un’analisi serrata della situa-zione, dalla quale, tuttavia, emergeva una sorta di dilemma essenziale, riverberato in vari ambiti culturali (dalla ermeneutica filosofica all’arte, all’antropologia), consistente nell’intendere il post-moderno come una crisi dei saperi tradizionali, ma anche come una sorta di richiamo della profondità ontologica alla superficie della realtà, in un orizzonte post-metafisico infinito di relazioni fra saperi diversi e di rapporti umani.

Nella fluidità apparente del «Villaggio globale» (precisi erano i riferimenti a Marshall McLuhan e a un filosofo della tecnica come Arnold Ghelen) e delle sue strutture linguistiche (i mass media e tutti i media in genere) si poteva riconoscere, questa la tesi del libro, un’estrema manifestazione dissolutiva della «metafisica», come se l’intermittenza originaria della luce dell’essere fosse assimilabile ai ritmi dei telegiornali, delle pubblicità, delle più diverse trasmissioni e, di lì a breve, ‘connessioni’, ma anche alle luci metropolitane dei bar e delle discoteche: tutti nel loro insieme, pur inafferrabile, e forse proprio per questo, «Dono» (Gabe) dell’essere, com’era stato anticipato da Heidegger trattando dell’età della tecnica. Ne recano traccia dipinti come i Falchi della notte (1942) di Edward Hopper, ove ‘tratenebra’ la luce della «notte del mondo» e dell’«abisso» (Abgrund), che Heidegger vedeva lampeggiare dalla tecnica stessa.

Qual era dunque la via da seguire? Nella notte abissale, uno strano rivolgimento trasformava ciò che nel pensiero era stato trascendenza in rescendenza, il verticale nell’orizzontale, il tempo nella sincronia d’un presente-assente senza storia. E la ricerca dell’‘al di là del soggetto’, che Vattimo aveva perseguito fin dagli anni Settanta, comportava una assenza di centro, di qualsiasi centro, a favore di un ‘de-centramento’ continuo, di un dionisismo della quotidianità, persino con piccole ierofanie attese a ‘transmutare’ ogni valore.

Il nichilismo, l’ospite inquietante, senza volto e potenzialmente con tutti i volti (l’eterno «uomo della folla» di Edgar Allan Poe), diveniva la possibilità di tutte le possibilità, ma soprattutto l’unica possibilità ammissibile nell’epoca dei media. Un nichilismo, però, ‘compiuto’, non più, anche interiormente, oppositivo, come era stato quello ‘russo’ del XIX secolo, un nichilismo, invece, ‘americano’, cosciente, come quello dell’Everyman (2006) di Philip Roth, attraverso il quale ogni istante si rivela l’‘eterno ritorno’ di una ‘re-visione’ di memorie personali. Italo Calvino ne dà una sua interpretazione in Palomar (1983).

In questa prospettiva, Vattimo proponeva anche una ‘re-visione’ della esperienza estetica in sé stessa come accettazione del gioco delle apparenze e come ermeneutica che rende ogni evento finito in una infinita circolarità di ‘effetti’, secondo una ‘gaia scienza’ nietzschiana che egli riportava alla aperta ermeneutica elaborata (senza valori trascendenti, primi fra tutti quelli di ‘essere’ e di ‘verità’) da Gadamer. Il che lo portava nella Società trasparente a unirsi ‘debolmente’ (come il menzionato «uomo della folla») a tutto l’esistente e in primo (e imprescindibile) ‘luogo’ all’universo dei media, facendone propria la ‘trasparenza’ ovvero la pura consistenza estetico-linguistica coi suoi infiniti ‘simulacri’ senza fondamento. Una scelta in cui non è detto egli non ‘ri-vedesse’ (ritornandovi, con la memoria, attraverso il presente) le attività svolte per i servizi culturali della Rai, a Torino, nella seconda metà degli anni Cinquanta.

Da ‘nichilista compiuto’ (atteggiamento nel quale era surclassato dal suo antico sodale Umberto Eco, che aveva esteso in parallelo a lui le proprie fortune a livello planetario con una forma di narrativa ‘al di là dello stile’ e perciò facilmente traducibile-riproducibile in tutte le lingue umane), Vattimo conduceva il ‘pensiero debole’ oltre un limite di non ritorno, di letterale ‘con-fusione’ con l’esistente, che lo tra-volgeva a partire dalle sue stesse premesse. Ridotto al piano orizzontale il pensare ‘al di là del soggetto’ diveniva letteratura sociologica, ‘reportismo’, confessione ipodermica e adeguamento al pubblico già, in questo, preparato dai media. Lo si può cogliere dall’opera di un suo allievo quale è stato Alessandro Baricco, ma credo che tutti gli scrittori nostrani delle ultime generazioni, con poche eccezioni, gli debbano qualcosa. Non ebbe più un’influenza palese sulla cultura italiana e internazionale come quella che aveva avuto nel decennio Ottanta, perché era stato da essa assimilato, ma l’insieme delle sue attività, fino ai primi anni Novanta e oltre, mi sono state comunque rievocate dalla fotografia che lo ritrae come alpinista, anche perché un caso, che dir fortuito è poco, mi fece incontrare e frequentare, per quattro giorni, insieme ad altri amici e conoscenti (tra cui il giornalista della Rai Alberico Giostra), proprio Hans Georg Gadamer.

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Portando a spasso mezzo secolo di pensiero europeo. Passeggiare in spiaggia con Gadamer

Era il 1991 e, alla fine di marzo, a Fermo, nelle Marche, Emanuele Severino organizzava il secondo grande convegno di filosofia, finanziato dal Comune e da alcuni industriali calzaturieri del luogo. Il tema era Il tempo e l’eterno e, ospite principale, in un lotto qualitativamente elevato di relatori, era appunto Gadamer. Capitò così (l’amico Giostra, ch’era addetto stampa dell’evento, mi aveva invitato a raggiungere la cittadina marchigiana ove possiedo una piccola casa) di potermi unire a un manipolo di teste filosofiche e in genere pensanti di prim’ordine, da Sergio Quinzio a Vittorio Strada, a Marco Vannini e altri.

Nella sala principale del Comune fermano le relazioni si succedevano dal tardo pomeriggio, e così vi erano a disposizione due terzi della giornata e la sera per stare, a pranzo e a cena, coi due personaggi stanziali dell’evento (gli altri andavano e venivano in una giornata, al massimo due), ovvero Gadamer e Severino. Chi, interessato alla filosofia, avrebbe potuto chiedere di più? Era un piacere, stando a tavola, tacere e ascoltare i due che spesso davano luogo ad autentiche tenzoni teoretiche, anche con una certa aggressività reciproca da dialogo platonico (Gadamer chiamava Severino ‘professore’, l’altro non lo chiamava), con l’unico ostacolo che il tedesco si ostinava a parlare in un italiano ‘tutto suo’ cui non rinunciava.

Facevano da cornice, alla sera, in una osteria di Grottammare Alta o di Sant’Elpidio, deliziosi cortili, dai tratti preraffaelliti, con piccoli porticati di mattoni chiari, sotto i quali sedevamo come in una estemporanea confraternita e l’aria ormai primaverile e marina muoveva i gerani nei vasi e le edere lungo le grondaie.

In un caso in particolare sorse una disputa giusto platonica, ma poco ‘platonica’, se cioè nel filosofo di Atene vi fosse una compiuta espressione della ‘verità’, addirittura un sistema di pensiero, una logica veritativa, che Severino asseriva esservi senza dubbio, e Gadamer invece negava, dicendo più o meno, con aria da schermidore che affondi il fioretto nel petto d’un bruto che l’abbia aggredito con una clava:

‘Professore, per fare distinzione fra filosofo e sofista, Platone deve dare a filosofo qualcosa di irrazionale’.

Ch’era un modo di dare a Severino del sofista, come risultava evidente in primo luogo all’interessato, il quale si alzava come per pagare il conto e tornava poi solo un po’ rabbonito dietro gli occhiali griffati.

Gadamer, inoltre, di mattina registrava, all’Hotel Milano Excelsior di Porto S. Giorgio, dove soggiornava, delle lezioni su Heidegger per il Dipartimento Scuola Educazione della Rai, e capitò un paio di volte che, appena dopo pranzo, mi chiedesse di dargli il braccio in una passeggiata lungo la spiaggia deserta. Aveva l’immancabile basco e il non meno immancabile bastone (che ho già citati) oltre ai non meno immancabili sandali dei tedeschi, col ‘carrarmato’ invincibile, da Afrika Korps, indossati su grigi calzerotti.

Portavo così a spasso mezzo secolo di pensiero europeo (e non mi pareva vero), che non si dimostrava per nulla reticente nei racconti.

Parlando di poesia, anzitutto di Rainer Maria Rilke, Gadamer ricordava di averlo letto molto nella grande depressione che l’aveva colto ad Heidelberg durante la Seconda guerra mondiale, e, quando gli feci presente la mia devozione verso Thomas Stearns Eliot, mi disse che ne aveva conosciuta e frequentata, negli Stati Uniti (non era ovviamente una cosa recente), la seconda moglie. Di Heidegger sosteneva che tutti quelli che lo conoscevano avevano l’impressione di parlare, in qualunque occasione, con una personalità eccezionale, inarrivabile, come se si trovassero alla presenza di Aristotele. Era accaduto anche quando al suo primo incarico universitario si era presentato in aula vestito da sci.

Venne perciò il discorso sul suo testo capitale Verità e metodo, che era orgoglioso Heidegger avesse letto e annotato, e quando feci il nome del suo traduttore in italiano, ch’era stato Vattimo, suo allievo specializzando (condiviso con Karl Löwitt), a Heidelberg, mi disse:

«Ah, Gianni non è filosofo, è acrobata!».

In quel momento mi parve solo una conferma della stoccata di fioretto inferta, la sera prima, a Severino, ma, a distanza di più di trent’anni, quella affermazione costituisce invece un punto di riferimento che assume un carattere drammatico e aggiungerei indeterminato nella sua effettiva significa-zione proprio in rapporto a quel ‘secondo’ Vattimo, la cui voce, un tempo a me chiara, non riuscivo più a ascoltare. Ma che oggi mi appare dalla fotografia nei panni di scalatore coi caratteri di un fato dal duplice ‘verso’.

Chi parla di acrobata, ma anche di rocciatore o scalatore, in filosofia ha sempre presente lo Zarathustra di Nietzsche nell’episodio del funambolo, il quale, in bilico sul filo teso sopra un mercato dalla folla versicolore, sentendosi incalzare, e superare di slancio, con un salto acrobatico, dal pagliaccio che gli è giunto, su quel filo stesso, alle calcagna, precipita al suolo e muore. Si tratta d’un episodio che ha avuto infinite interpretazioni, anche perché Zarathustra raccoglie le ultime parole del povero funambolo, il quale dice di essere stato ammaestrato «come una bestia» al mestiere che infine l’ha portato a morire. Zarathustra, perciò, gli dice:

«Ecco che il tuo mestiere ti costa la vita; per questo voglio seppellirti con le mie mani»[7].

Forse il pagliaccio volteggiante sul filo era il demonio, forse il funambolo era già morto prima di cadere o almeno lo era la sua anima, mortificata dal lungo esercizio imposto per coercizione al corpo: questo gli dice anche Zarathustra, che se lo prende in spalla per dargli sepoltura (e sarà, alla fine, nel cavo di un albero). Non senza però aver prima pensato:

«Sinistra è l’esistenza e ancor sempre priva di senso: un pagliaccio può esserle fatale».

Ed aver ascoltato già, all’improvviso, la voce del pagliaccio stesso sussurrargli nella notte all’orecchio, mentre in un labirinto di vicoli bui è gravato ancora della salma che trasporta:

«Va’ via da questa città, Zarathustra […] troppi qui ti odiano. Ti odiano i buoni, i giusti […]. La tua fortuna è stata di metterti in compagnia di questo cane morto; nell’umiliarti così, ti sei salvato, per oggi. Ma vattene da questa città – o domani salterò al di sopra di te, io vivo, al di sopra di un morto»[8].

Le voci del funambolo, di Zarathustra e del pagliaccio si contraddicono, si confondono, sovvertono i valori: il bene, il male, l’alto, il basso, il funambolo, il pagliaccio, il demonio, Zarathustra stesso. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? si chiedeva Heidegger. E la stessa domanda si era posto Carl Gustav Jung in un seminario degli anni Trenta. Heidegger rispondeva: «Quello redento dal vendicarsi». Jung: «Colui che si individua». Nietzsche aveva già risposto per sé (ecce homo!) scrivendo, il 4 gennaio 1889, cioè il giorno del suo definitivo tracollo mentale, in un biglietto da Torino all’amico George Brandes:

«Dopo che tu mi hai scoperto, non era un pezzo di bravura trovarmi; il difficile è adesso perdermi». Heidegger diceva, commentando quelle frasi, che «il difficile è adesso perdermi» era rivolto a noi, ai lettori a venire, e che persino nel farneticare estremo di Nietzsche c’era «qualcosa a cui il pensiero deve sempre fare ritorno»[9].

Nell’opera di Nietzsche (come prima di lui di Friedrich Hölderlin, del quale Cosima Wagner riteneva Nietzsche la reincarnazione e che Heidegger pone come precursore di Nietzsche sul «sentiero dell’essere») ‘esistere’ e ‘pensare’ si confondono fino alla demenza (che, è noto, fu comune a Nietzsche e a Hölderlin stessi), si trovano per perdersi e non potersi più trovare né perdere. La vita brucia e dilegua di continuo senza ‘vendette’ e con infinite ‘individuazioni’: Zarathustra vi si perde e si ritrova, davvero fino alla fine, nella danza delle apparenze:

«che cosa è per me apparenza, apparenza è ciò stesso che realizza e vive»[10].

Ma, di quella danza, faceva parte anche ciò che Nietzsche-Zarathustra era stato ‘prima’ («non era un pezzo di bravura trovarmi»), e che davvero è la nostra prima e ultima debolezza, il filo teso su cui procediamo come dei funamboli. A un certo punto, sul filo, ci incalza il ‘pagliaccio’ di un incarico o di una nomina prestigiosa, che magari esige un cambio di casacca, un’abiura, il tradimento di un amico, l’ossequio a un infame, o l’obbligo di votar per «Rubi nipote di Mubarak» o di prestare braccio e fede al «Bene incurabile». Segue l’inevitabile ‘caduta’ e il domandarsi se non si fosse già ‘morti’ prima di raggiungere il suolo. È quel che è accaduto a tutti i funamboli della Seonda Repubblica fino alla pandemia e oltre: superati da tecnici-pagliacci delle tv, della medicina e della finanza: facce ruotanti della stessa medaglia ‘trasparente’.

Vattimo acrobata, scalatore, funambolo è stato incalzato, sul suo filo, dal pagliaccio della politica, ed è caduto. Ma, anche in questo caso, trent’anni fa, si era preparato il campo, insistendo sul nesso fra ermeneutica e nichilismo, e insieme superando-cadendo il e dal reticolo globale dei media verso il basso, verso la realtà.

L’aveva fatto in un ciclo di lezioni tenute a Bologna nel 1994, pubblicate col titolo Oltre l’interpretazione, battezzando la città come ‘non luogo’ o margine globale (vi aveva già concorso Eco, non da solo, da alcuni decenni). Gli effetti sono oggi sotto gli occhi di tutti: lo stesso istituto di filosofia, ove ho studiato, è stato chiuso. Eppure, non riesco a pensare che nella sua attività, persino di politico, si fosse del tutto smarrita l’essenza che, come Heidegger dice di Nietzsche pur ormai demente, «non si può perdere».

Ovunque, anche se non lo si crede, c’è un destino. «Ah, Gianni non è filosofo, è acrobata!». Chi parla? Di chi parla? Eraclito, ricevendo in cucina i propri imbarazzati ospiti, diceva loro:

«Ovunque sono dei e regnano».

Gli dei sono, dunque, in alto come in basso, e le guide che guidano sono già in quel momento guidate. Era Gadamer che parlava dell’allievo. Ma l’allievo seguiva il maestro, forse lo superava. Riguardo, allora, la fotografia, guardo meglio, i volti sono piccoli, sfuocati: chi è davvero Vattimo e chi è Bonatti? In ogni caso, l’ascesa è incerta, una lunga corda unisce e separa le due figure: chissà se c’è stato davvero un seguito? L’uno o l’altro hanno forse piantato il chiodo per far procedere il compagno: ma verso l’alto o il basso? Vattimo forse venne superato dal pagliaccio della politica perché nella «notte del mondo» anche la politica, come la filosofia, aveva subito una rivoluzione rescendente dei propri valori e il nichilismo si era compiuto, a destra, a sinistra o al centro in fronti politici apparenti, intercambiabili, senza fondamento, attraversati, in tutti i sensi, da uomini e donne ‘deboli’ e non meno senza fondamento.

Era una tragedia o una rivelazione ‘post-metafisica’, un effetto ‘post-atomico’, l’inizio di un’ascesa a rovescio?

«La tua fortuna è stata di metterti in compagnia di questo cane morto; nell’umiliarti così, ti sei salvato, per oggi. Ma vattene da questa città – o domani salterò al di sopra di te, io vivo, al di sopra di un morto».

Quante cose non sappiamo ancora del nostro tempo e di quello che l’ha immediatamente preceduto! Eppoi, a questo riguardo, c’è un passaggio decisivo in Heidegger, laddove egli afferma che proprio il «pastore dell’essere» è il luogotenente del nulla»[11] – ed è forse una ulteriore variante del funambolo.

Vattimo fece, dal 1999, due legislature da eurodeputato. La prima, fino al 2004, come rappresentante del Partito Democratico, la seconda, dal 2015, con L’Italia dei valori. Diceva di ispirarsi, fin dagli anni Settanta, al cosiddetto ’catto-comunismo’ (il suo primo impegno, come per Eco, era stato nella Azione cattolica) e del resto proprio in quella fusione politica si rivela, prima a caldo poi a freddo, l’essenza nichilista del cattolicesimo italiano, che ha col tempo dissolto tutti i propri partner politici. Il primo è stato il fascismo, poi è toccato alle forze laiche associate da De Gasperi ai propri governi, poi al Partito socialista col centro-sinistra, quindi al Partito comunista berlingueriano infine (ab ovo) al Partito democratico.

La Chiesa stessa pare oggi colpita dall’‘ospite ignoto’, che assume il volto quasi ‘trasparente’ del suo pontefice. E non è sua volontà, bensì un destino sul quale bisognerebbe riflettere con un atteggiamento impolitico. Si tratta di un effetto tardivo della caduta del muro di Berlino (si credeva che fosse la Chiesa a sostenere il sistema democristiano e invece si è scoperto il contrario) e della dissoluzione atomica. Sarebbe tuttavia interessante se la sua lenta scomparsa ci rendesse, alla fine, simile a un Giona, il cristianesimo.

Vattimo lo pensava e la sua ‘ri-conversione’ cattolica post-politica nel nuovo millennio, ha avuto questo segno e al tempo stesso quello di un riavvicinamento al comunismo delle origini. Nel 2015 decise di dare la propria adesione al rifondato Partito comunista italiano. La cosa ormai interessava a pochi, ma, tenendosi sul piano teoretico, egli vedeva sui due fronti, il cattolico e il comunista, una facoltà dissolutiva comune, la quale riconduceva ogni cosa alla realtà intesa nel modo più elementare e immediato, compresi i sentimenti, senza quasi parole. Si trattava forse della nausea provata per essere stato a lungo a Bruxelles, nella nouvelle Versailles, che la post-sinistra o, meglio, il ‘simulacro’ della sinistra, ha fatto propria al fine di garantirsi una permanenza tecnocratica al potere di là dai responsi elettorali nazionali.

Il funambolo caduto scoprì allora di poter cadere ancora più in basso, forse perché, non senza spirito di vendetta, avendo avuto tutto, ora desiderava il nulla. E lo chiamava, alla fine, cristianesimo ‘ateo’ o comunismo ‘debole’. Non si perdonava d’esser stato, malgrado le apparenze e attraverso le apparenze, là in alto sul suo filo teso sopra il mercato (dove l’avevo visto anch’io la prima volta), il pensiero forte accademico. Non era questa la forza, che gli aveva consentito la ‘debolezza’? Iniziava una scalata in orizzontale, la fotografia con Bonatti va posta sulla superficie di un tavolo senza un verso dal quale osservarla.

Forse voleva punirsi o punire gli altri che avevano apprezzato un esercizio, in realtà, per lui, troppo faticoso? Oppure aveva capito, già alla fine del secolo scorso, in che mondo viviamo, e il suo pensiero (che era indiscutibilmente forte) aveva ‘visto’ che nessuna filosofia vi avrebbe più avuto spazio, così che non restava che ballare il walzer sul ponte inclinato del Titanic, dichiarandolo ‘il migliore dei ponti possibili’?

Comunque ha rinunciato a pensare il suo pensiero (che era indiscutibilmente forte), lasciandosi ‘cadere’ dalla «post-metafisica» al catto-comunismo politico, con una ‘debolezza’ dissolutrice di tutto, votandosi, infine (con un rovesciamento del pensiero di Friedrich Schleiermacher), a un Dio-figlio senza religione, posto più in alto di tutte le religioni e di nessuna, senza «verità», semplicemente come «carità» esercitata nei confronti di un prossimo illimitato:

«La tua fortuna è stata di metterti in compagnia di questo cane morto; nell’umiliarti così, ti sei salvato».

È la mentalità delle ONG e affini, i cui alfieri chiedono al sistema economico-politico attuale di sopravvivere, che farebbero altrimenti? Il ‘nichilismo compiuto’ dei soccorritori d’oggi è quello stesso che fu un tempo dei terroristi. Indifferente agli esiti, cioè agli effetti che produce.

Gadamer in quelle passeggiate sulla spiaggia diceva

«Etica non possibile, forse… fra cento, centocinquanta anni».

Più che una affermazione era una pratica, già una arrampicata in orizzontale, o solo la speranza paradossale di un ultranovantenne. O un delirio. Quando lessi il grosso titolo di giornale: «Vattimo: “Mi sono innamorato di un cubista”», per un attimo, mi chiesi chi fosse il pittore, capii poi il vero senso delle parole. Non c’era niente di nuovo, la voce però mi sembrava ancora più ’bassa’, e certo si trattava di un giornale, ma l’uomo, che vidi, in televisione, raccontare una sua dolorosa vicenda privata, sembrava appesantito, non solo dagli anni e intimamente invecchiato senza però diventare vecchio. Mi giunsero anche notizie di ‘uscite’, nel corso di eventi culturali, a cui non avevo partecipato, ove, mi dicevano, adottava un lessico quasi provocatorio in materia sessuale con una specie di candore avvelenato.

Ripensandoci oggi la faccenda del «cubista» mi fa venire in mente Nietzsche in quel suo ultimo giorno di coscienza, quello del biglietto scritto a Brandes, nel quale, in centro a Torino, aveva abbracciato il cavallo di una carrozza chiamandolo «Wagner». Chissà, forse anche nel «cubista» c’era «qualcosa a cui il pensiero deve sempre fare ritorno». Forse vale ancora per noi il principio eracliteo: «ovunque sono dei e regnano».

Questo credo sia il suo lascito, ma anche, mi pare, il suo limite: l’interrompersi del pensiero, la revoca dell’esercizio, nell’attesa che, dalla rinuncia a tutto, possa giungere, in qualche modo, la salvezza. Non a caso ricordava di Ernst Bloch, nello Spirito dell’utopia (1919), la similitudine fra Cristo e il pagliaccio, non in senso blasfemo, ma per mettere in luce la facoltà di Cristo di dissolvere tutti i valori, compreso il male (quindi, anche il pagliaccio di Zarathustra). Per fare questo bisognava tuttavia non essere più sé stessi, passare al di là del soggetto presente, passato e futuro, dissolversi magari anche (per tenere stretti legami coi propri simili) in tristi casi di cronaca quotidiana, fatti di raggiri privati, come effettivamente gli accadde.

Il suo percorso porta a una radura heideggeriana, a un’interruzione che va pensata e non ridotta a cronaca.

«Va’ via da questa città, Zarathustra […] troppi qui ti odiano. Ti odiano i buoni, i giusti […]. La tua fortuna è stata di metterti in compagnia di questo cane morto; nell’umiliarti così, ti sei salvato, per oggi. Ma vattene da questa città – o domani salterò al di sopra di te, io vivo, al di sopra di un morto».

Quando è mancato, mi è parso di cogliere un certo imbarazzo nei necrologi degli ex colleghi, spesso improvvisati ‘pagliacci’, come si trattasse di liberarsi di un peso che proprio i fatti privati degli ultimi tempi avevano aumentato, in qualche modo riflessi dal procedere stesso di quella perdita del pensiero che l’aveva progressivamente colpito, e che una ultima apparizione televisiva aveva reso tristemente palese.

Eppure, pur con voce molto mutata, la raccolta degli ultimi saggi, Essere e dintorni (2022), non manca di sorprendere, anche se, nella seconda parte, si tratta di qualcosa di assimilabile agli schizzi oppure ai disegni di un pittore che non porta più a compimento il dipinto. Sono delle indicazioni che meritano però di essere meditate come un estremo zibaldone di ‘arrampicate’ in cui risuona la filosofia del Novecento e che si lasciano alle spalle tutto quello che non c’entra. Cerchiamo sempre di perdonare la nostra giovinezza (e la mancanza di maestri), ma

«il tuo mestiere ti è costato la vita: voglio seppellirti con le mie mani».


[1] Tutte le opere citate qui e successivamente sono pubblicate in Gianni Vattimo, Scritti filosofici e politici, a cura di Antonio Gnoli, presentazione di Gaetano Chiaruzzi, La nave di Teseo, Milano 2021, pp. 2637 p. Ad esse si aggiungono, Enciclopedia Garzanti di Filosofia, con la consulenza generale di Gianni Vattimo, Garzanti, Milano 1981, 1003 p.; Estetica moderna, a cura di Gianni Vattimo, il Mulino, Bologna 1977, 385 p.; Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 1983, 582 p. Inoltre, Gianni Vattimo, Essere e dintorni (ultimi scritti editi e inediti), a cura di Giuseppe Iannantuono, Alberto Martinengo, Santiago Zabala, La nave di Teseo, Milano 2018, 425 p..

[2] René Girard, Gianni Vattimo, Verità o fede debole? a cura di Pierpaolo Antonello, Feltrinelli, Milano 2015, pp. 41-42 (prima edizione: Transeuropa, Massa 2006).

[3] Günter Anders, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, a cura di L. Pizzighella, Mimesis, Milano 2008.

[4] Peter Sloterdijk, Cosa è successo nel XX secolo?, Bollati Boringhieri, Torino 2017, 281 p.

[5] Philippe Muray, L’impero del bene, Mimesis, Roma 2017.

[6] «[…] das selbstständige Aufbauen eines logischen System – unbeeinflußt von der unsicheren, vom Zufall abhängigen äußeren Erfahrung – hatte stets einen unwiderstehlichen Reiz für den menschlichen Geist»:

Albert Einstein, “Die Nichteuklidische Geometrie und Physik, Die Neue Rundschau, XXXVI (1), 1925, [S. Fischer Verlag, Berlin], p. 16 [tr. it. dell’A.].

[7] Friedrich Nietzsche, Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Versione di Mazzino Montinari. edizione italiana delle Opere di Friedrich Nietzsche, condotta sul testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, 522 p. [vol. 1, p. 14].

[8] Ivi, p. 15.

[9] Martin Heidegger, Che cosa significa pensare?, 2 voll., a cura di Gianni Vattimo, SugarCo, Milano, 1978, vol. 1, p. 66.

[10] Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1979, p. 75.

[11] Martin Heidegger, Sentieri interrotti, a cura di Petro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 325.