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Democrazia Futura. Cento anni di radiofonia e settant’anni di TV in Italia (III)

di Bruno Somalvico, Direttore editoriale di Democrazia futura |

Verso la celebrazione dell’inizio delle trasmissioni radiofoniche in Italia, Bruno Somalvico ci racconta la nascita di radio e televisione in Italia. Parte terza.

Bruno Somalvico

Si conclude la ricostruzione della stagione del monopolio radiofonico e televisivo della Rai (1954-1975). Nel terzo pezzo Bruno Somalvico ripercorre gli ultimi sei anni del regime di monopolio, dalla Stagione dei congressi iniziata nel 1969, all’approvazione della legge di riforma della Rai nell’aprile 1975

Parte seconda La stagione del monopolio radiofonico e televisivo della RAI

Dallo sbarco sulla Luna alla contestazione del monopolio e richiesta di riforma e partecipazione

Parte seconda 3. Stagione dei congressi e riforma della Rai (1969-1975)

La stagione dei congressi e il dibattito sulla libertà d’antenna aperto dai socialisti nel 1969 e che animerà i primi anni Settanta, inaugura un nuovo clima che favorirà la concertazione con le forze sociali e un ruolo attivo assegnato alle Regioni per la riforma del servizio pubblico, ma anche l’inizio di una stagione di nuovi scontri interni alla classe politica di maggioranza e di opposizione di fronte alla crisi economica e alla paralisi dei governi nei processi di innovazione tecnologica: il rinvio dell’introduzione della televisione a colori e il freno allo sviluppo delle reti via cavo, dal decreto Gioia di smantellamento di Tele Biella all’ordinanza Togni di disattivazione degli impianti di ripetizione dei segnali delle emittenti estere, segnerà la prima crisi politica su questioni televisive.

Occorreranno le due sentenze della Corte Costituzionale del 1974, con la liberalizzazione delle comunicazioni radiotelevisive in ambito locale, e una terza sentenza del 1976 per superare definitivamente il regime di monopolio, nonostante le forti resistenze interne ai grandi partiti italiani che impediranno ancora per quindici anni di approdare ad una legge di sistema peraltro non al passo con i tempi come la Legge Mammì.

Dal rinnovo nel 1973 della vecchia Convenzione del 1952 al successivo Patto della Camilluccia fra le forze politiche del centro-sinistra (ma con l’assenso indiretto del PCI), la gestazione della Legge di Riforma del servizio pubblico radiotelevisivo sarà molto lunga ma segnerà comunque la grande rottura e discontinuità rispetto al passato, spostando dal Governo al Parlamento l’indirizzo sull’attività radiotelevisiva, la nomina insieme alle Regioni dei rappresentanti del Consiglio di Amministrazione, contribuendo decisamente alla crescita del pluralismo politico e culturale dell’azienda. In una società molto più complessa di quella uscita dalla Resistenza alcuni riformatori di quella stagione dei congressi sognavano come Arturo Carlo Jemolo una Rai “aperta alle voci delle varie parti, lasciando all’ascoltatore la critica delle parti[1].
Allora sottovalutavano ancora l’importanza di aprire il sistema radiotelevisivo alla concorrenza. Ma assegnavano ai partiti e al Parlamento una funzione strategica di indirizzo alla Rai. 

L’avvicendamento al vertice dell’aprile 1969 e l’esperimento garantista tentato con la presidenza Sandulli

Il 1969 è segnato dapprima dall’ennesima scissione in casa socialista dove larga parte della componente socialdemocratica dà vita al Partito Socialista Unitario che nel febbraio 1971 riassumerà il nome di Partito Socialista Democratico Italiano, mentre in casa democristiana ci si avvia verso un’alleanza tra i dorotei di Flaminio Piccoli e Mariano Rumor e la corrente di Amintore Fanfani, destinata in qualche modo a modificare gli equilibri interni emarginando quella di Aldo Moro. Quanto al Partito Comunista Italiano, per la prima volta nella storia del partito un gruppo di iscritti al PCI manifesta all’inizio di dicembre sotto la sede della federazione romana per protestare contro i provvedimenti di espulsione di sei militanti romani aderenti al gruppo de Il manifesto, tra i quali Luciana Castellina e Valentino Parlato, e di scioglimento della sezione comunista di Montesacro.

Poi il 1969 è ricordato come l’anno dall’autunno caldo e delle grandi lotte sindacali che inaugurano un decennio di grande conflittualità che porterà all’esaurimento della formula del centro-sinistra e, dopo le elezioni del 1976, ai governi di unità nazionale, dapprima con la non sfiducia e poi con il successivo sostegno esterno del Partito Comunista Italiano, dopo il rapimento dello stesso Moro a partire dal marzo 1978. Infine, la strage prodotta da una bomba alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, inaugurerà alla fine dell’anno la cosiddetta strategia della tensione sfociando nei famigerati ‘anni di piombo’, segnati da attentati terroristici e omicidi.

Nel marzo 1969 con le dimissioni di Gianni Granzotto[2] si conclude la battaglia tra aziendalisti e politici, con la definitiva vittoria dei secondi. Il cosiddetto pentagono, formato da Sergio Pugliese, Giulio Razzi, Bruno Vasari, Marcello Bernardi e Sergio Bortolotti, non esisteva più. Bernardi ne era l’ultimo esponente: proveniente dalla Timo, passato alla Sip, l’ex segretario generale ell’Eiar aveva rappresentato il passaggio dal vecchio ente alla Rai, conservando l’eredità di Roul Chiodelli: un modello definito apartitico, ma che in realtà sposava gli interessi di gruppi industriali, economici, politici e finanziari.

Poco dopo le dimissioni di Granzotto, Il 13 aprile 1969, l’accademico esterno Aldo Sandulli già Presidente della Corte Costituzionale e autore della Sentenza del 1960 che aveva riaffermato le ragioni del regime di monopolio, su indicazione dei repubblicani viene nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione della Rai al posto dell’ambasciatore Piero Quaroni. L’accademico viene nominato inaugurando quello che Franco Chiarenza ha definito “l’esperimento garantista”[3] ovvero quale “garante” della pluralità: dopo le roventi polemiche delle dimissioni di Gianni Granzotto l’obiettivo del governo è di dare un’immagine migliore della gestione dell’ente e rispondere alle diverse istanze delle altre forze politiche (alleate). Per questo Sandulli viene affiancato come vicepresidenti da due politici, il fanfaniano ex presidente della Commissione Parlamentare di vigilanza Umberto delle Fave e il confermato esponente socialdemocratico Italo De Feo. Per parte sua, il socialista Luciano Paolicchi, dal 1967 vicepresidente, diventa Amministratore Delegato. Nel Comitato Direttivo, che vede estesi i suoi poteri di orientamento sui programmi, a fianco di Silvio Golzo in rappresentanza dell’IRI, entrano i cattolici Pietro Prini e Giovanbattista Cavallaro, il repubblicano Giorgio Bogi (nominato segretario del Comitato Direttivo) e il socialista Massimo Fichera. Grande escluso da questo Comitato Direttivo, il moroteo Leopoldo Elia, che rassegna le dimissioni da Consigliere di Amministrazione dell’azienda, suscitando la disapprovazione persino dello stesso Moro.

La prima grande lottizzazione con l’ordine di servizio 376 all’apogeo del mandato di Bernabei

Fra i primi atti del nuovo Consiglio di Amministrazione sotto la Presidenza di Aldo Sandulli il 23 aprile 1969 una delibera estende i poteri del direttore generale Ettore Bernabei che viene ammesso al Comitato Direttivo con voto consultivo.

Il 2 maggio 1969 i vincitori del concorso del luglio 1967 entrano nelle redazioni. Bruno Vespa inizia al Telegiornale del canale nazionale diretto ancora da Fabiano Fabiani. Vice Direttore è Emilio Rossi, Capo Redattore, Biagio Agnes.

A fine maggio 1969 il neo Amministratore Delegato Paolicchi firma l’ordine di servizio da tempo caldeggiato da Bernabei e osteggiato da Granzotto che consegna totalmente la dirigenza esecutiva Rai nelle mani della DC (e dei fanfaniani in particolare).

Non senza suscitare molte critiche interne al suo partito, in primis quella di Massimo Fichera, Paolicchi asseconda la strategia del potente direttore generale che continua a voler applicare per sé il classico principio “divide et impera”, o meglio “divide, multiplica et impera”.

– Al posto dell’ingombrante vice direttore generale Marcello Bernardi subentrano tre vicedirettori generali, Leone Piccioni, Luigi Beretta Anguissola e Bruno Vasari con l’intenzione del tutto evidente, ricorda Chiarenza, di “ibernare questi personaggi in una posizione di prestigio senza poteri”[4].

– Vengono istituite tre segreterie tecniche: una del Comitato Direttivo, diretta da Carlo Livi, una dell’amministratore delegato, facente capo al giornalista Nanni Saba, e una terza del direttore generale, affidata a Emilio Rossi per la parte dei programmi e Uberto Fedi per quella amministrativa.

– L’ordine di servizio 376 vede, come previsto, Il direttore del telegiornale del canale nazionale Fabiano Fabiani sostituito dal doroteo Willy De Luca. Facendo promuovere Biagio Agnes Vice Direttore, insieme a Sergio Zavoli, mentre alla Direzione del giornale radio rimane il democristiano Vittorio Chesi.

– Parallelamente, la Direzione dei programmi radiofonici viene assegnata a Giuseppe Antonelli, in quota ai socialisti, in sostituzione di Leone Piccioni, mentre la Direzione dei programmi televisivi viene divisiva in due: Fabiano Fabiani viene nominato direttore dei programmi culturali di approfondimento della rete, seguito da Emilio Rossi e da Emmanuele Milano.

– Angelo Romanò dirige invece i programmi televisivi di spettacolo al cui interno i varietà e la musica leggera sono affidati ai democristiani Giovanni Salvi e Sergio Silva, mentre la prosa e gli sceneggiati al socialista Pio de Berti Gambini.

– La tv dei ragazzi viene affidata a Paolo Gonnelli, gli scolastici a Franco Melandri, i programmi di categoria a Enrico Manca, mentreGermano Bodo diventa direttore amministrativo e dirige il personale.

Sul piano interno della Rai la rivoluzione organizzativa del 1969 voluta da Bernabei rafforza indubbiamente il controllo da parte del Direttore Generale, ma crea nello stesso tempo, dopo l’apogeo, le premesse per il tramonto del modello di gestione dell’ex direttore de Il Popolo.

L’ordine di servizio, moltiplicando le strutture in maniera clientelare, costa montagne di danaro, sia direttamente, sia indirettamente, con la quasi paralisi delle strutture stesse (una sorta di gara alla deresponsabilizzazione). Gara che proseguirà quando Bernabei verga l’altrettanto famoso ordine di servizio in cui piazza i suoi uomini ai posti nodali dell’azienda e disegna quella che taluni hanno definito come la più formidabile mappa della lottizzazione italiana.

Tra la fine del 1969 e l’ottobre 1970 un nuovo organigramma genera due Direzioni Centrali, la Direzione centrale per i programmi di spettacolo tv e la Direzione Centrale per le trasmissioni culturali tv e di integrazione scolastica, ciascuna articolata in cinque direzioni (tre per i programmi e due di supporto) trovando definitiva conferma

“il modello operativo in base al quale ciascuna Direzione Centrale ha al suo interno direzioni di programmi e direzioni di supporto produttivo e amministrativo”[5].

Come sottolinea Enrico Menduni

“Alla fine degli anni Sessanta il modello bernabeiano entra dunque in crisi perché le risorse non erano più così ampie da poter accontentare tutti e il suo potere non era più così assoluto. La Rai diventa un grande centro di potere con i suoi dieci milioni di abbonati alla tv e il ruolo di leader nell’industria culturale italiana. In questo periodo gli italiani desiderano dotarsi della televisione, diventato simbolo della modernità. La Rai si trovava a dover mascherare agli occhi dei politici gli utili derivanti dagli abbonamenti e per aggirare le ingordigie dei politici comprò prestigiose sedi a New York, ma anche importanti palazzi storici in Italia come sedi di rappresentanza”[6].

Il convegno del club Turati che avvia la stagione dei congressi

Nel frattempo Inizia la cosiddetta ‘stagione dei congressi’[7].

In un incontro del club Turati di Roma sul tema Tv e libertà in Italia: una riforma urgente tenutosi il 19 e 20 aprile 1969, per la prima volta alcune forze che si dichiarano riformatrici si scoprono fautrici dell’abolizione del monopolio statale. Nella sua relazione introduttiva Enzo Forcella (allora giornalista de Il Giorno) a proposito del tema “Quale riforma?” sottolinea come

“Una profonda e radiale riforma è indispensabile e urgente… [per assicurare] Una diversa e più obiettiva distribuzione del potere (vuoi di gestione, vuoi di controllo) tra le forze politiche interessate”[8].

Gli altri due relatori sono Angelo Del Boca e Angelo Romanò. Seguono gli interventi di Giancarlo Pajetta, Nicola Signorello, Carlo Ripa di Meana, Arrigo Levi, Pio Baldelli e Massimo Fichera. All’incontro a cui partecipano centinaia di politici, dirigenti Rai, giornalisti e sindacalisti, parlamentari I punti sui quali si dibatte sono dieci:

1) monopolio o regime di concorrenza;

2) natura della Rai: azienda a partecipazione pubblica controllata dall’IRI o privatizzata;

3) necessità di un passaggio dal controllo operato dal Governo a quello operato dal Parlamento;

4) coinvolgimento delle Regioni (decentramento);

5) entità da coinvolgere per garantire un pluralismo (sindacati, forze sociali);

6) distribuzione dei poteri all’interno dell’azienda (a sinistra si auspicava la riduzione dei poteri in mano al direttore generale Bernabei);

7) ideazione e produzione (i programmisti e i giornalisti chiedevano il riconoscimento della loro autonomia professionale); 

8) garanzie per gli utenti;

9) allargamento della partecipazione (accesso);

10) allargamento delle fonti di introito (e in particolare dei ricavi pubblicitari).

Quasi tutti questi temi li ritroveremo applicati nella Legge di Riforma sei anni dopo.

Nelle sue conclusioni Enrico Manca, dal canto suo sottolinea come

“[…] una riforma come quella della RAI-TV certamente non può essere fatta soltanto dai partiti della maggioranza, ma è proprio una tipica riforma che si può fare con gli apporti costruttivi dell’opposizione e in particolare della opposizione di sinistra, perché la televisione che noi vogliamo, deve essere imparziale ma non neutrale”[9]

Il convegno socialista di Milano, inaugurato pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo Consiglio di garanzia presieduto da Aldo Sandulli, apre la stagione dei congressi con un dibattito, a tre anni dal rinnovo della Convenzione della Rai con lo Stato, in merito al nuovo assetto che dovrà assumere la radiodiffusione in Italia. Senza esiti risulterà invece il tentativo del governo un mese dopo, il 28 maggio 1969, quando il ministro delle Poste e Telecomunicazioni Crescenzio Mazza, resosi conto che il rinnovo della Convenzione non poteva essere effettuato con un semplice atto amministrativo, annuncia la presentazione di un disegno di legge di riforma della Rai “al più presto”.

Tutte le forze politiche sono convinte della necessità di una ridefinizione dei compiti e della natura della Rai. Non solo le destre e i liberali: anche chi, a sinistra, continua a difendere il monopolio della Rai, è convinto che occorra creare un movimento attorno a un progetto di legge di riforma della Rai, come quello presentato dall’ARCI e illustrato in Parlamento da alcuni parlamentari il 3 aprile 1970, una settimana dopo le trasmissioni clandestine di Radio Sicilia Libera dalla valle terremotata del Belice.

La diretta dello sbarco sulla luna e l’inizio della segmentazione dell’offerta televisiva

Seguendo quanto avvenuto per la radio dove assistiamo in quegli anni alla prima segmentazione del pubblico con programmi mirati ai giovani, anche l’offerta televisiva a cavallo fra anni Sessanta e inizio anni Settanta si andrà razionalizzando alla ricerca di uno speciale rapporto con l’audience. Mentre negli anni Cinquanta le classi alte o medio-alte rappresentano l’asse portante del processo di espansione della televisione, dopo che l’ascolto è quasi raddoppiato da 11 milioni di telespettatori nel 1962 a 20 milioni nel 1970, con un ampliamento che interessa progressivamente sia la fascia precedente (pre prime time) che quella successiva al telegiornale (prime time), a partire dagli anni Settanta si abbassano gli standard scolastico-culturali e crescono nuovi gruppi come le donne e i giovani. 

Ancora nell’inverno del 1969 l’alta divulgazione culturale caratterizza in Italia la programmazione del piccolo schermo. Un genere televisivo, lo sceneggiato, conosce il proprio apogeo, con la messa in onda sul Programma nazionale de I Fratelli Karamazov, con la regia di Sandro Bolchi e la riduzione televisiva del romanzo sceneggiata da Diego Fabbri[10]. Lo sceneggiato televisivo è il genere che più di ogni altro è capace di avvicinare le masse alle storie, quelle che hanno reso grande la letteratura a cavallo di due secoli. Sarà un tale successo, con una media di 15 milioni di spettatori a puntata, che per la prima volta la televisione trasformerà un libro in un best seller. Insieme ad Anton Giulio Majano, Bolchi è uno dei grandi registi di questa fenomenale infornata di classici nella programmazione, dando allo sceneggiato la capacità di diffondere la cultura senza noia, di stimolare nelle persone quella curiosità che le presentazioni di libri non riuscivano a suscitare.

Dal Mulino del Po ai Miserabili, dai Promessi sposi ad Anna Karenina, Bolchi sa valorizzare un’intera generazione di attori televisivi, guidando quel miracolo di identificazione fra attori e personaggi letterari che per vari decenni potrà leggersi nelle facce dei protagonisti. 

Un evento costituisce la nascita di quello che Marshall Mc Luhan chiamerà allora il “Villaggio globale” della comunicazione: nella notte fra il 20 e il 21 luglio 1969, la Rai trasmette in diretta in mondovisione lo sbarco sulla luna degli astronauti americani dell’Apollo 11.

La diretta dello sbarco sulla luna costituisce simbolicamente una sorta di spartiacque fra la vecchia e la nuova televisione, ma coincide anche con la fine di un quindicennio di crescita e l’esaurirsi della formula politica del centro-sinistra che assicura in questi anni una relativa stabilità politica, cui seguirà un periodo di forte conflittualità sociale, politica e ideologica, che toccherà il culmine con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nella primavera del 1978 all’apice degli anni di piombo.

L’autunno caldo e le dirette per la strage di Piazza Fontana

Quello che fu il maggio Sessantotto per la Francia l’Italia lo vivrà un anno dopo, quando la contestazione nel mondo accademico e le lotte operaie e più in generale del mondo del lavoro si incontrano. Anche per la Rai il 1969 non sarà dunque solo ricordato come l’anno dell’ordine di servizio voluto da Bernabei e della prima grande lottizzazione interna, pur circoscritta all’ambito della maggioranza di centro-sinistra e che tende a favorire il nuovo asse portante democristiano costituitosi intorno all’asse tradizionale fra dorotei e fanfaniani in grado di porre Arnaldo Forlani alla segreteria del partito.

Ma il 1969 è anche quello della prima grande mobilitazione delle maestranze interne, ovvero delle grandi lotte sindacali che paralizzano i quattro centri di produzione dell’azienda a Roma, Milano, Torino e Napoli, con occupazioni, assemblee permanenti, nascita di comitati unitari di base. E scioperi.

Il 6 novembre 1969, a Milano, una pacifica manifestazione di metalmeccanici davanti alla sede della Rai di Corso Sempione si conclude con cruenti scontri fra polizia e dimostranti e un bilancio di 56 feriti o contusi. Fermati e rilasciati nove giovani. La Rai invia un telegramma di protesta al ministro dell’interno contro l’azione di polizia.  Dopo le lunghe dirette estive per seguire lo sbarco sulla luna, la prima e più grave occasione per ricorrere ad edizioni straordinarie dei telegiornali sarà l‘attentato alla Banca nazionale dell‘agricoltura a Milano, il 12 dicembre 1969: un’esplosione terrificante, nel salone della banca in Piazza Fontana, a Milano, uccide diciassette persone e ne ferisce ottantanove, inaugurando una nuova fase della storia italiana[11]. Nella stessa giornata altri tre ordigni esplodono a Roma, provocando diciassette feriti. 

Forti sono le ripercussioni sulla Rai e sulle sue modalità per informare gli italiani:

“Ormai gli eventi esterni, spesso tragici, i cambiamenti e le conflittualità diffuse trovano nel telegiornale una prudente ma costante presenza – nota Andrea Melodia -. Al maggio francese del ‘68 con le barricate studentesche parigine, all‘autunno caldo italiano del ‘69 il telegiornale dedica con continuità una cronaca distaccata ma non distratta, dalla quale traspare con esattezza anche il travaglio interno di una redazione insieme cosciente dei limiti oggettivi del proprio mandato, della responsabilità specifica connessa al servizio pubblico, e della crescente domanda di autonomia e di visione critica che in quella stagione trova prorompente appoggio nella opinione pubblica, specialmente nel mondo giovanile.

La organizzazione produttiva si deve adeguare di conseguenza, con un forte incremento del numero dei giornalisti, dei tecnici e degli impiegati addetti al telegiornale, alle nuove esigenze di appuntamenti sempre più in diretta, sempre più imprevedibili, sempre più proiettati all‘esterno. In questo periodo si definì compiutamente uno schema di organizzazione del lavoro che resta sostanzialmente valido ancora oggi […]”[12].

Verso un sistema radiotelevisivo misto. La svolta degli anni Settanta

In Italia gli anni Settanta sono gli anni del passaggio dal regime di monopolio al sistema misto e della riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. Fatta eccezione per il Lussemburgo, il Regno Unito e la Finlandia, nell’immediato dopoguerra il dibattito sullo sfruttamento commerciale della radio e della televisione non si era neppure aperto, a causa di vari ostacoli di natura tecnologica e per timore di possibili effetti negativi sul piano sociale. Erano in molti a pensare che l’introduzione di un servizio radiotelevisivo di tipo commerciale avrebbe incrinato la coesione del pubblico (questione che costituiva un’assoluta priorità nell’immediato periodo postbellico) e a manifestare l’esplicito timore che la perdita di una platea omogenea avrebbe comportato una speculare frammentazione del corpo sociale.

L’introduzione della pubblicità aveva già da tempo fatto emergere gruppi di opinione, di diverso orientamento ma compatti contro quella che veniva giudicata una brutale propaganda a favore della filosofia consumistica.

Nei Paesi in cui era consentita, la radiotelevisione commerciale era quindi sottoposta a rigide restrizioni imposte dai rispettivi governi. Durante la fase espansiva dell’economia europea, le opportunità legate al marketing e alla pubblicità non erano state di certo sfruttate al massimo. Non appena si scatenerà nella prima metà degli anni Settanta la crisi economica, questo stato di cose inizierà a mutare.

Negli anni Sessanta il rapido e profondo sommovimento del contesto sociale indebolisce notevolmente la capacità dei Governi di mantenere un rigido controllo dell’industria radiotelevisiva. L’espansione postbellica aveva infatti prodotto condizioni economiche e sociali molto diverse da quelle che sembravano delinearsi nell’immediato dopoguerra.

Il trentennio compreso tra il 1945 e il 1975 è stato segnato, come noto, da profondi sconvolgimenti di natura sociale in tutta Europa. Lo stanziamento di crescenti risorse per il finanziamento dello Stato sociale consente alla popolazione di godere di un miglior sistema sanitario e educativo. Al tempo stesso, la crescita economica favorisce un sensibile miglioramento della qualità della vita dei cittadini.

“Tutti questi fattori – osserva Matthew Hibberd – producono una maturazione del pubblico da molti punti di vista, anche nelle sue richieste in materia di programmi radiotelevisivi, tanto che nessuna emittente, da sola, risulta in grado di soddisfarle. In poche parole, un’industria tradizionalmente guidata dall’offerta nel giro di pochi anni vede aumentare in modo esponenziale la domanda di nuovi prodotti. In questa fase di esplosione della domanda di nuovi consumi, i Governi approntano soluzioni intermedie ampliando l’offerta in termini di ore di programmazione e di canali all’interno dei servizi pubblici, mantenendo tuttavia un rigido controllo sui programmi trasmessi.

La decisione di lanciare un secondo canale di servizio pubblico nei primi anni Sessanta – in Paesi come Regno Unito, Germania e Italia – non riesce a evitare una prima frammentazione del pubblico determinando una maggiore possibilità di scelta da parte dei telespettatori, ma in forme ancora controllate, complementari e coordinate, come emerso in occasione della discussione del Rapporto Pilkington del 1962”[13].

Negli anni Settanta sono dunque ormai in atto spinte di varia natura ma tra loro correlate, il cui punto d’arrivo sembra dover essere una riforma del settore radiotelevisivo

La riforma della programmazione del servizio pubblico per adattarla all’evoluzione dei gusti dei comportamenti e dei consumi della società italiana e il crescente ruolo della pubblicità

A questa maturazione e trasformazione del pubblico la Rai non riesce ancora a dare una risposta soddisfacente.

Si passa progressivamente da una televisione di tipo pedagogico-educativo sotto la guida protettiva e paternalistica dello Stato ad un’industria dell’intrattenimento e del divertimento che non ha però ancora i mezzi per soddisfare pienamente il suo pubblico.

Il quinquennio 1969-1974 è caratterizzato dal prevalere dell’intrattenimento, da una netta separazione di generi (sceneggiati, informazione), dalla concorrenza fra il primo e il secondo canale e fra i tre canali radio, da un’accentuata professionalità e dall’incremento costante della pubblicità.

Si guarda al grande pubblico televisivo nel suo nuovo ruolo di consumatore. La crescita degli introiti pubblicitari che in cinque anni raddoppiano da 38 miliardi raccolti nel 1969 a oltre 79 miliardi nel 1974 diventa un’esigenza di fronte al rallentamento della crescita degli abbonamenti saliti nello stesso periodo da 9,265 milioni a 12,243 milioni come emerge dalle due tabelle qui riprodotte.

Nel febbraio 1971, con la partecipazione Federazione Italiana Editori di Giornali (Fieg), di Utenti Pubblicità Associati (Upa), dell’ATIPI e della Rai il quale si propone lo sviluppo, il controllo e il coordinamento dell’attività di ricerca nell’area dei mezzi pubblicitari.

L’Associazione degli Utenti di Pubblicità ritiene insufficiente il tempo destinato dalla Rai agli spot al di sotto del limite del 5 per cento previsto dalla Convenzione precedente del 1952: si determina così uno squilibrio crescente fra la notevole domanda di pubblicità non esaudita da Carosello (il cui avvio risale al 1957) e la scarsa possibilità di soddisfarla dati i limiti degli spazi disponibili

La Rai nell’impasse politico-finanziaria e tecnologica degli anni Settanta

Ma soprattutto la Rai priva di quell’autonomia finanziaria che l’aveva caratterizzata nel due decenni precedenti[14] e, dovendo per certi versi subire la cresciuta dell’attenzione del mondo politico verso la televisione, si troverà a fare i conti con una miopia da parte del legislatore.

Tale mancanza impedirà alla Rai di proseguire il processo di modernizzazione tecnologica dei propri apparati, impedendole in primo luogo di entrare sin dall’inizio nel nuovo universo della televisione a colori che trasformando la qualità di fruizione del medium televisivo, rappresenta in quegli anni una rivoluzione simile a quella conosciuta dalla radio con l’avvento del transistor e delle trasmissioni stereofoniche sulle reti a modulazione di frequenza.

La combinazione di questi tre elementi (incapacità di soddisfare il nuovo pubblico desideroso di svago e intrattenimento, mancanza di autonomia finanziaria e di risorse aggiuntive derivanti dai limiti sulla pubblicità e incapacità di guidare, interferenza della sfera politica e nella fattispecie resistenze del mondo politico nei confronti processi dei processi di innovazione tecnologica) unitamente all’acuirsi della forbice esistente fra sistema politico e gestione politica della televisione pubblica, da un lato, e fermenti, tensioni sociali e contraddizioni vissute dalla società civile, dagli studenti dalle donne e dai movimenti civili a favore della modernizzazione e laicizzazione del paese, dall’altro, creano una sorta di stallo.

Nonostante una maggior attenzione verso la raccolta pubblicitaria la Rai inaugurerà nel nuovo decennio una nuova fase di indebitamento che si aggraverà dopo lo scoppio della crisi petrolifera nel 1973, quando l’inflazione in un anno raddoppia dal 6 per cento nel 1972 al 12,4 per cento nel 1973, arrivando a sfiorare il 25 per cento nel 1975.

Il servizio pubblico riuscirà ad uscire da questa impasse solo nella seconda metà degli anni Settanta, quando potranno finalmente iniziare nel febbraio 1977 le trasmissioni a colori e farsi sentirsi gli effetti della legge di riforma approvata nel 1975, di cui peraltro verranno rapidamente messi in luce insieme alle luci, anche le ombre.

Come osservato da uno storico dei media Enrico Menduni:

“è lo stesso successo della televisione che crea il divorzio tra la società, il pubblico e le élites politiche e culturali […] portando ad un rivoluzionamento nel modo di pensare e di guardare la tv. La televisione privata, sino ad ora rifiutata in gran parte dei paesi europei sarà auspicata e desiderata” proprio perché portatrice – sull’onda delle nascenti radio libere – di nuove istanze meno paludate e soggette a controllo e censura da parte dei pubblici poteri[15].

Oltre a questo, la televisione privata sarà portatrice di nuovi spazi di libertà e quindi anche di forme di democrazia, in grado di soddisfare le richieste di bisogni e consumi provenienti dagli impiegati di un terziario avanzato che emerge con nuovi protagonisti sociali e generazionali.

La politica culturale del servizio pubblico non può essere solo una scelta a favore della qualità, ma deve fare i conti con i nuovi processi di comunicazione e di partecipazione del pubblico.

L’indice di ascolto diventa l’elemento principe per valutare il successo di una trasmissione permettendo di diversificare l’ormai grande massa di pubblico per mezzo di appartenenze demografiche, sociali ed economiche, molto prima dell’avvento dell’Auditel e dell’arrivo massiccio della pubblicità con l’inizio della guerra sugli ascolti con le nascenti televisioni commerciali

In tutta la stagione del monopolio il Servizio Opinioni, nato nel 1954, insieme all’avvio delle trasmissioni televisive, è l’organo aziendale della Rai preposto alla rilevazione scientifica delle reazioni del pubblico ai programmi. Gli apparecchi inizialmente sono pochi ma la Rai si rende subito conto della necessità di conoscere le caratteristiche di questo nuovo strumento di comunicazione in funzione del pubblico al quale era destinato.

Fino ad allora la Rai aveva esaminato le reazioni spontanee degli ascoltatori radiofonici mediante l’esame delle lettere degli utenti, che però non avevano alcun valore di rappresentatività statistica. In un primo tempo La Rai si preoccupa di conoscere il gradimento del pubblico relativamente alle principali trasmissioni televisive e radiofoniche attraverso la creazione di gruppi di ascolto (panel) specializzati; quasi subito nascono anche le inchieste telefoniche che, condotte la sera stessa della messa in onda permettono di avere delle indicazioni utili in breve tempo.

Nel 1959, utilizzando le nuove tecniche di ricerche di mercato, indagini statistiche e sociologiche (introdotte in Italia alla fine della guerra), e dopo una serie di esperimenti, il Servizio Opinioni costituisce una propria rete di intervistatori allo scopo di rilevare in modo continuativo (tramite interviste dirette e giornaliere ad un campione della popolazione italiana) l’ascolto delle trasmissioni radio-televisive. Tale indagine si chiama Barometro d’ascolto.

La tecnica dell’intervista diretta viene scelta perché permette di misurare non solo l’ascolto in casa propria ma anche quello effettuato in locali pubblici o altrove che, all’inizio degli anni Sessanta, ammontava al 60 per cento dell’ascolto complessivo. Fin dall’inizio i risultati della dimensione e della composizione dell’audience sono forniti all’Upa che li diffonde agli industriali interessati.

Negli anni immediatamente successivi iniziano anche le indagini statistiche volte a rilevare la disponibilità di apparecchi televisivi, le modalità dell’ascolto, i gusti e le preferenze per i vari generi e orari dei programmi.

Nel 1965 l’attenzione è poi rivolta ai contenuti, al linguaggio e alla loro comprensione; nel 1968 si dà inizio ad analisi più approfondite riguardanti i ‘messaggi’ che implicitamente o esplicitamente i programmi televisivi trasmettono al pubblico e ciò per rendere meglio consapevole l’Azienda dei valori veicolati e dell’efficacia della sua comunicazione.

Tutta l’attività del Servizio Opinioni è supportata dai pareri consultivi e dalle proposte di un Comitato Scientifico composto da cinque docenti delle discipline attinenti alle attività svolte.

La fine dell’esperimento di garanzia in un clima di grandi polemiche sull’informazione Rai

Mentre nel 1970 assistiamo all’avvio delle prime trasmissioni televisive locali a Napoli[16] e di quelle clandestine nella valle del Belice[17], a Roma l’esperimento di garanzia avviato in Rai dal presidente Aldo Sandulli con il supporto del repubblicano Giorgio Bogi, segretario del Comitato Direttivo, è destinato a fallire solo dopo un anno.

L’informazione della Rai, ma più in generale della stampa, entrerà nell’’occhio del ciclone e delle polemiche nei giorni che seguono la strage di piazza Fontana e, nella fattispecie, in occasione dell’emergere della pista anarchica, ovvero dell’arresto del ballerino anarchico Pietro Valpreda, qualificato in diretta – dopo il confronto con il tassista Cornelio Rolandi in un collegamento del Telegiornale dalla Questura di Roma – come “colpevole della strage di Milano” e, poche ore dopo, di quello del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, la cui morte[18], avvenuta nella Questura di Milano in circostanze non chiare, cadendo dalla finestra del quarto piano mentre lo stava interrogando il commissario Luigi Calabresi, fu poi scandalosamente archiviata da un’indagine della magistratura come un caso di “malore attivo”.

Ma sarà un’inchiesta di Sergio Zavoli sul codice di procedura penale destinata al programma TV7, intitolata Un codice da rifare, all’origine delle dimissioni del presidente della Rai, dopo un pesante intervento censorio richiesto il 2 febbraio 1970 dal vicepresidente socialdemocratico Italo De Feo, e la successiva richiesta di dimissioni del noto giornalista, che Sandulli non riesce ad ottenere da Bernabei.

Come ricorda Chiarenza:

“Il Comitato ristretto nominato dalla Commissione Parlamentare di vigilanza non raggiunse mai un accordo sulla valutazione da dare ai tagli effettuati in sede di montaggio della trasmissione”[19].

Il 18 febbraio 1970 il Presidente di garanzia Aldo Sandulli rassegna dunque le proprie dimissioni. Il vicepresidente Umberto delle Fave, democristiano, assume la reggenza cinque settimane dopo, il 24 marzo 1970, prima di essere a sua volta nominato, il 28 luglio 1971, presidente. 

Nel frattempo nel maggio 1971 anche Giorgio Bogi aveva rassegnato le dimissioni da segretario del Comitato Direttivo del Consiglio di Amministrazione, denunciando la conduzione economico-finanziaria dell’ente.

La ripresa del dibattito sulla riforma e il ruolo decisivo esercitato dalle Regioni

In seguito all’elezione dei Consigli regionali a suffragio universale, il 7-8 giugno 1970, prendono corpo finalmente le Regioni come elementi costitutivi della Repubblica, ovvero ente territoriale con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione della Repubblica Italiana, come stabilito dall’art. 114, secondo comma della Carta costituzionale.

Nei primi anni Settanta le forze politiche, in particolare PSI e PCI, ma anche altre realtà di sinistra come l’Arci, e le Regioni concorrono nel perseguire l’obiettivo di un coinvolgimento di queste ultime nel decentramento della Rai. Le Giunte regionali si insediano a fine luglio. Tra le giunte più impegnate si distinguono quella dell’Emilia Romagna guidata dal comunista Guido Fanti, e quella della Lombardia, presieduta dal democristiano Piero Bassetti.

Fra il 1969 e il 1976 (come documentato da Francesco Nizzoli in una raccolta di contributi relativi al dibattito sulla libertà d‘antenna e sulla stagione dei congressi pubblicata[20] in appendice al volume di Flavia Barca dedicato alla storia e all’economia del settore televisivo locale) si sono tenuti una cinquantina di incontri fra seminari universitari, convegni politici e sindacali iniziative parlamentari.

A inizio aprile 1970 alcuni parlamentari delle sinistre di Psi, Pci e Psiup presentano una proposta di legge di riforma della Rai, per conto dell’Associazione Ricreativa Culturale Italiana (Arci). Un mese dopo sarà oggetto di un seminario a Vico Equense. Ma non sono solo le sinistre a discutere.

Anche il mondo cattolico si rende conto che una riforma del servizio pubblico rimane necessaria. Il 20-21 giugno 1970, al suo VII Convegno tenutosi a Recoaro, l’Associazione Regionale Veneta dell’Unione Cattolica della Stampa Italiana (Ucsi) discute sul tema Giornalismo radiotelevisivo: una riforma per la Rai-TV. Il fanfaniano Umberto Delle Fave, già presidente della Commissione parlamentare di vigilanza e poi, a partire dal 1969 vicepresidente della Rai, divenuto reggente dopo le dimissioni di Aldo Sandulli, parlando a Recoaro, a proposito della finalità “educativa” del servizio pubblico, sostiene che

“La riforma della Rai non è una riforma di un qualunque ente…è la riforma di un ente culturale…che ha nella società italiana l’incidenza che avete riconosciuto. Una riforma di questo tipo non può non ispirarsi per noi cristiani a certi principi in cui crediamo, principi dai quali discendono conseguenze di ordine giuridico e di ordine strutturale. Se accettate il concetto di cultura inteso come paideia […] quel concetto presuppone un tipo di cittadino da formare attraverso l’informazione e la diffusione della cultura”[21].

Per parte loro, da un lato il corrispettivo dell’Arci nelle Acli, l’Ente Nazionale Acli Ricreazione Sociale (ENARS) il 24-25 giugno 1970 promuove anch’esso un convegno a Roma, sul tema: Quale riforma per la radiotelevisione?[22] Dall’altro, l’Associazione Italiana Ascoltatori Radio Telespettatori (AIART) discute nei giorni successivi il ruolo de La TV negli anni Settanta[23].

Nell’agosto 1970 si insedia un nuovo governo di centro sinistra organico presieduto da Emilio Colombo che succede al terzo Governo Rumor, dopo le sue improvvise dimissioni intervenute il 6 luglio e il fallimento del tentativo affidato l’11 luglio a Giulio Andreotti[24], con equilibri interni sostanzialmente inalterati, rimanendo in carica sino al gennaio 1972.

Durante questa fase politica si moltiplicano le occasioni di riflessione sui temi della comunicazione tra le quali quella promossa il 20-22 ottobre 1970 convegno nazionale dei Comitati di Azione per la Giustizia, sul tema Libertà di espressione: problemi costituzionali e interpretazioni. Questo il pensiero di un magistrato Alfredo Chiuccariello:

“La radiotelevisione non offre e non deve offrire troppa libertà di scelta all’utente passivo; […] un regime di democrazia sociale non abbisogna di cittadini troppo svagati o “divertiti” cioè distolti dalla conoscenza della realtà socio-economica in cui vivono e dai problemi che essa pone, ma esattamente il contrario. La tendenza a ridurre i compiti di informazione e di cultura (di formazione cioè della maturità spirituale dell’uomo) e ad ampliare quelli di svago o divertimento va chiaramente denunciata per quello che è: la negazione della democrazia e della “partecipazione” popolare, il terreno ideale per l’autoritarismo e per l’egemonia della classe capitalistica”[25].

L’indomani, 23 ottobre 1970, a Roma al convegno-dibattito della Comunità di studio e proposta sul tema Tv e Regioni, nella sua introduzione il neo Presidente della Regione Lombardia Piero Bassetti chiarisce la natura dell’interesse del suo istituto per la riforma del servizio pubblico dichiarando che

“…le diverse realtà regionali, la varia articolazione culturale e sociale del nostro Paese devono potersi esprimere non soltanto in sede regionale, ma parlando a tutto il Paese”[26].

Quanto ai socialisti, a un anno e mezzo dal primo incontro a Roma del Club Turati e pochi giorni dopo l’approvazione della Legge che prevede l’introduzione dell’istituto del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano[27], dall’11 al 13 dicembre 1970, promuovono un Convegno a Roma su Le condizioni dell’informazione democratica[28].

La direzione del Psi approva all’unanimità un documento sulla riforma della RAI-TV, redatto da Paolo Barile, Massimo Fichera ed Enzo Forcella che chiede “Equilibri più avanzati per una libera informazione”:

“A questa riforma devono concorrere tutte le componenti culturali, sociali, politiche, sindacali del paese in un aperto confronto che trovi il suo memento di sintesi in Parlamento. […] la riforma essere orientata a strutturare un servizio pubblico che sia tale da assicurare la presenza del più ampio arco di forze politiche, sindacali, culturali impegnate in una politica democratica di rinnovamento ispirata ai principi dell’autonomia e del decentramento, secondo quanto rivendicato dalle forze più avanzate dell’azienda e nel quadro di una più ampia partecipazione delle comunità locali che trovano ora una loro dimensione istituzionale nell’Ente regione”.

Il documento finale chiarisce il perimetro dentro il quale deve essere operata, e cioè quello delle forze del cosiddetto “Arco costituzionale”:

 “La riforma radiotelevisiva per la sua rilevanza tocca gli interessi di tutta la collettività e il suo stesso modo di rappresentarsi e perciò deve essere frutto dell’elaborazione dei contributi e del concorso decisionale di tutte le forze politiche che hanno dato vita alla Costituzione repubblicana”

Due mesi dopo, il 13 febbraio 1971, sempre il PSI a Milano promuove un secondo convegno, chiedendo Una Rai nuova per l’Italia delle Regioni.

Per parte sua, la Regione Lombardia promuove a Milano un Convegno il 3 luglio 1971 sul tema: La Regione di fronte alla riforma della Rai-TV. Nella sua introduzione l’assessore alla cultura democristiano Sandro Fontana chiarisce:

“Noi non vogliamo fette di potere o spazi televisivi perché anche le Regioni, attraverso il dosaggio dei Gazzettini[29], possano far sentire la loro voce accanto a quella delle massaie e o degli sportivi. Ben diversa è la nostra ambizione: noi vogliamo che la realtà del Paese, attraverso le sue comunità storiche e culturali, possa finalmente entrare nel più vasto circuito nazionale e riconoscersi di fronte ai comuni impegni civili e politici”[30].

Due giorni dopo è la volta dei sindacati. Il 5-6 luglio 1971 in un convegno a Roma viene illustrato un documento unitario delle tre confederazioni dello spettacolo per la riforma del monopolio della Rai. Si richiedono nomine parlamentari per gli organi dirigenti, potere alle Regioni e diritto di accesso.

Tre settimane dopo, il 28 luglio 1971, da vice presidente reggente, Il democristiano Umberto Delle Fave viene nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione della Rai, mentre vengono confermati come Direttore Generale il democristiano Ettore Bernabei e come Amministratore Delegato il socialista Luciano Paolicchi. Nel frattempo si sta esaurendo, con il governo presieduto dal democristiano doroteo Emilio Colombo, una lunga fase della vita politica italiana.

Cambio di stagione fra logoramento del centro-sinistra ed elezione di Leone al Quirinale

Logorata dagli scontri sulle riforme, la maggioranza di centro-sinistra organico ricostruita lungo tutto il 1971 intorno al Governo Colombo si indebolisce quando il Pri ritira i propri ministri passando all’appoggio esterno, e cade con l’elezione di Giovanni Leone a nuovo capo dello Stato. I voti determinanti del Msi e il mancato apporto delle sinistre inducono, dapprima i repubblicani, in seguito i socialdemocratici, a chiedere l’apertura della crisi che si concluderà con l’affidamento a Giulio Andreotti, all’inizio del 1972, di un governo elettorale monocolore democristiano, fino alle elezioni per la sesta legislatura che si svolgono all’inizio di maggio e che segnano una svolta a destra. La Dc rimane il partito di maggioranza relativa con il 38,7 per cento dei voti. All’opposizione i comunisti crescono ancora ottenendo il 27,15 per cento, mentre i socialisti del Psi scendono al loro minimo storico con il 9,6 per cento, tallonati dal Msi (alleato ai monarchici della Destra Nazionale) che ottiene al contrario il suo massimo storico con l’8,7 per cento. Seguono, in calo, i socialdemocratici al 5,1 per cento e i liberali fermi al 3,8 per cento, mentre il Pri, in controtendenza, sale al 2,9 per cento. In forte calo il Psiup, leggermente sotto il 2 per cento, mentre le formazioni di estrema sinistra non conquistano seggi.

In questo contesto, mentre sul canale nazionale della Rai la televisione nazional popolare[31] raggiunge nel 1971 l’apice dei consensi con Canzonissima, con punte di 25 milioni di telespettatori, iniziano a prodursi le prime brecce al monopolio.

Da un lato con l’avvio, il 10 gennaio 1971, delle trasmissioni sperimentali di Tele Capodistria, emittente jugoslava destinata alle minoranze di lingua italiana, la cui ricezione è possibile in Friuli-Venezia Giulia, nel Veneto, in Emilia-Romagna e nelle Marche. La stazione trasmette a colori secondo il sistema tedesco Pal[32].  Dall’altro con la nascita di Tele Biella[33], la prima televisione via cavo privata in Italia che il 20 aprile 1971 ottiene dal tribunale la registrazione come “giornale periodico a mezzo video” che, come vedremo, produrrà un duro scontro sui banchi giudiziari, vedendo direttamente coinvolti, oltre alla magistratura, anche gli organi di governo, le Regioni, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, e alcuni grandi gruppi industriali. Ad essa seguirà nell’ottobre Babelis tv[34], che nel mese di ottobre trasmette via cavo la telecronaca dell’incontro di calcio Rimini-Spal all’interno di un bar di Rimini.

Non appena il 3 maggio 1971 le trasmissioni per le minoranze italiane in Istria, ricevibili nel nord est e nell’alto Adriatico, diventano regolari, offrendo tre ore di programmazione al giorno a colori comprendenti film, eventi sportivi, programmi musicali e persino un telegiornale in italiano, con un notiziario prodotto integralmente a Capodistria, in Italia scoppiano le polemiche. Tali trasmissioni costituiscono de facto un’alternativa al monopolio della Rai.

Da un lato, il repubblicano Giorgio Bogi rassegna le dimissioni da segretario del Comitato Direttivo del Consiglio di Amministrazione della Rai, denunciando la conduzione economico-finanziaria dell’ente. Dall’altro, scoppiano discussioni infuocate in parlamento, come ricorda il 7 maggio 1971 Giulio Andreotti nei suoi Diari degli anni d piombo:

“Dibattito sulla Rai alla Camera. Accenti durissimi della critica dei comunisti, ma un po’ troppo di facciata: seguendo i programmi radio e tv non sembra proprio che l’estrema sinistra sia al bando dell’informazione e non abbia influenza nel complesso delle trasmissioni”[35]

In realtà anche i comunisti – sebbene rimasti sempre all’opposizione – avevano maturato nuove convinzioni in merito alla funzione del servizio pubblico. Se inizialmente negli anni Cinquanta e ancora nei primi anni Sessanta – come ben evidenziato da Giulia Guazzaloca nel suo studio Una e indivisibile. La Rai e i partiti negli anni del monopolio pubblico (1954-1975)[36] e nella sintesi del suo corso presso l’Università di Bologna, da cui citiamo [37]

“La TV era vista come il negativo proveniente dagli stati uniti: la mercificazione culturale, la perdita dei valori tradizionali, l’attaccamento ai beni materiali in contrapposizione con gli ideali veri della giustizia sociale e l’esaltazione dell’individualismo. Alle resistenze del modello di benessere americano, che avrebbe finito per allontanare la classe operaia dalla lotta politica, si aggiungeva il rifiuto dell’assetto politico-istituzionale della RAI: la condanna della RAI come feudo governativo e clericale si protrasse per oltre 20 anni […]”,

nella seconda parte degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, soprattutto dopo l’istituzione delle Regioni, l’atteggiamento cambia piuttosto radicalmente:

Secondo il PCI bisognava puntare ad un modello fondato su di una concezione etico-politica del servizio pubblico, diverso da quello della RAI che per anni aveva puntato a sollazzare gli italiani. Radio e tv dovevano essere controllate democraticamente dall’opinione pubblica e dai suoi rappresentanti, in quanto strumenti posti al servizio del paese per la ricreazione, la cultura e l’elevazione del popolo. Abbandonate le diffidenze iniziali, la sinistra elaborò un tipo di tv con il compito di condurre alla formazione politica e civile degli italiani. Gli intellettuali e i leader comunisti non condannavano la fora didascalica che Bernabei aveva dato alla RAI, respingevano il tentativo di far evadere il cittadino. Stigmatizzavano l’assunto secondo cui la tv non deve turbare le coscienze degli individui. Veniva condannata anche la modernizzazione di Bernabei giudicata falsa poiché continuava ad essere conformista conservatrice e esaltava valori che la società aveva messo in discussione da tempo, senza mai affrontare i problemi più brucianti del nostro tempo. Il PCI proponeva una totale reinvenzione che da un lato portasse a raccogliere e trasmettere le immagini di cronaca, della vita e del lavoro, e dall’altro consentisse alle masse di partecipare in prima persona all’impostazione e alla realizzazione dei programmi. La reinvenzione, escludeva il colore e la pubblicità, poiché vista come parte integrante di una rivoluzione culturale ininterrotta. Bisognava fare della tv un prodotto collettivo in rapporto diretto, articolato con tutte le forze del paese. Doveva servire ad affinare la coscienza collettiva, modificando l’atteggiamento assai diffuso nelle masse popolari, secondo il quale la tv e la radio vanno intesi come beni consumo che non danno altro che intrattenimento.

Il dibattito sulla libertà d’antenna e il nuovo intervento della Corte Costituzionale

Nel nuovo contesto più politicizzato dell’inizio degli anni Settanta è impensabile un rinnovo tacito della vecchia Convenzione, come avvenuto nel 1952.

Se le forze politiche in un primo momento, a partire dall’aprile 1969, focalizzano il dibattito principalmente sulla questione della riforma della Rai e sul concorso delle Regioni, appena costituite, al processo di ridefinizione della missione del servizio pubblico in ambito locale, alla vigilia della scadenza della Convenzione ventennale tra lo Stato e la Rai (15 dicembre 1972, poi prorogata di anno in anno fino al 1975) si riaccende la discussione sulla legittimità del monopolio.

Riecheggiando le battaglie del gruppo de Il Mondo, l’allora parlamentare socialista Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato sull’Espresso “E ora libertà d’antenna”[38], ne rilancia le tesi, auspicando un regime di libera concorrenza tra radiotelevisione pubblica e reti commerciali private:

“La scadenza della convenzione non potrà che indurre a una riflessione sul monopolio radiotelevisivo e sulle eventuali alternative. Bisogna scegliere tra monopolio e libera concorrenza, tra televisione di Stato e diverse reti commerciali in concorrenza fra loro. È da ricordare che il monopolio fu preferito, perché la libertà d’antenna, considerati gli elevatissimi costi d’impianto, sarebbe equivalsa a consegnare il più potente mezzo di informazione nelle mani di pochi gruppi economici detentori del potere. Si pensò al monopolio di Stato “nella presunzione che una gestione pubblica avrebbe consentito comunque un’articolazione maggiore e una qualità migliore di un fittizio regime di concorrenza privata”. Il monopolio ha significato un asservimento al potere della DC, con effettiva esclusione dei socialisti e dei comunisti. Ora, dopo vent’anni di vergogne televisive, “un regime di libera concorrenza tra radiotelevisione pubblica e reti commerciali private presenterebbe sicuri vantaggi”.

Secondo Scalfari, il monopolio cadrà per la diminuzione dei costi di impianto e di gestione delle reti televisive e per ragioni tecniche con la diffusione dei satelliti. Il problema della concorrenza delle televisioni commerciali con le testate giornalistiche si potrebbe risolvere, a suo parere, affidando la proprietà e la gestione delle radio-televisioni commerciali a giornali o a testate di giornali[39]

Questo articolo dà il via a una potente ed efficace campagna stampa.

La proposta di Scalfari trova eco anche sul Corriere della Sera. Il 4 febbraio 1972 Indro Montanelli sostiene la creazione di un sistema di libera concorrenza tra reti private in gara tra loro[40].

Il giornale di via Solferino ospiterà sulle proprie colonne un dibattito sul monopolio con interventi di Aldo Sandulli, Jean Francois Revel, Lelio Basso, Franco Ferrarotti, del rettore del Politecnico di Milano Francesco Carassa e persino del più noto fra i massmediologi, il sociologo canadese Marshall Mac Luhan.

Il 6 febbraio 1972 in un secondo articolo “È il video che sposta le masse, l’allora parlamentare socialista continua la battaglia contro il monopolio, sostenendo che la Convenzione fra la Rai e Lo Stato deve scadere:

“Ci sono quattro canali televisivi, si facciano quattro reti nazionali indipendenti l’una dall’altra. Se ne dia la gestione a consorzi di Regioni, se ne dia magari una all’Ansa, si mettano in concorrenza quattro direttori e possibilmente quattro orientamenti politici diversi fra loro”[41].

Infine il 13 febbraio 1972 Scalfari invita il settore ad affrancarsi dall’ingombrante tutela pubblica proclamando “Libera antenna in libero stato[42].

Come già ricordato, le discussioni sulla liberalizzazione del mercato radiotelevisivo erano cominciate parecchi anni prima, nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma l’articolo di Scalfari rappresenta un punto di svolta nella qualità del dibattito, anche per la vicina scadenza della concessione della Rai e per il fermento intorno ai progetti di una sua riforma[43].

Dopo un’iniziale ostilità, quindi, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista iniziano a mostrare delle aperture nei confronti della privatizzazione.

La Dc teme la frantumazione del monopolio e la diminuzione di potere che ne potrebbe conseguire, ma subisce nello stesso tempo la pressione del mondo imprenditoriale e intravede nella presenza di nuovi centri di potere la possibilità di esercitare nuovi spazi di influenza.

Il Psi è inizialmente contrario alla liberalizzazione del settore, ma Scalfari anticipa quelle che diverranno poi le posizioni di tutto il partito, salutando la comparsa di nuovi soggetti come inevitabile (per la diminuzione dei costi di impianto e per ragioni tecniche legate alla diffusione dei satelliti) e vantaggiosa (per minare quello che fino ad allora era stato l’incontrastato dominio democristiano nell’informazione radiotelevisiva).

Mentre a Roma il Psi continua a difendere il regime di monopolio, a Milano ci sono fermenti diversi, più liberali e orientati al mercato[44], come emerge da un secondo convegno promosso il 14 febbraio 1972 dal Club Turati all’indomani del terzo articolo di Scalfari, a Milano presso il Teatro dell’Arte, su Riforma o fine del monopolio, al quale partecipano, coordinati da Enzo Forcella, oltre allo stesso Eugenio Scalfari, Pio Baldelli, Paolo Barile, Massimo Fichera.

Sotto la guida di Enrico Manca, il coordinamento progettuale di Massimo Fichera, il lavoro di sistematizzazione dei materiali di Marina Tartara Muscetta e Luigi Mattucci esce nel frattempo un doppio numero della rivista Il Ponte, interamente dedicato alla riforma della RAI-TV, dal titolo TV 72. Materiali interventi proposte per la riforma[45].

È il lavoro più organico col quale la “tecnostruttura” socialista si appresta alla battaglia per una nuova RAI.

Enrico Manca cala una carta politicamente significativa per la riforma:

“La collocazione del servizio pubblico radiotelevisivo nell’area di intervento del parlamento, e non in quello dell’esecutivo, rappresenta non già un aspetto importante, ma il punto decisivo dell’intera riforma democratica della Rai.”[46].

Secondo Giuliano Amato, invece,

“La Rai non dovrà dipendere più dal Governo. Non dovrà dipendere nemmeno dal Parlamento, cosa questo che potrebbe portare a trasmissioni non meno paludate e non meno censurate di quelle attuali, con la differenza che ciò accadrebbe con l’avallo concorde di maggioranza e opposizione”[47].

Il Partito Comunista Italiano rimane, invece, assolutamente contrario alla rottura del monopolio pubblico che vorrebbe però completamente riformato: l’idea portante è che il pluralismo non sia garantito tanto da una presenza di differenti soggetti nel mercato, quanto da una diversa gestione del servizio pubblico, percepito come “spazio di resistenza e bilanciamento democratico” a tutela appunto di un’offerta pluralista[48]. La cosiddetta “libertà d’antenna” si risolverebbe, invece, nell’affidare la radio e la televisione ai grossi gruppi industriali del paese, così come sta avvenendo in quegli anni per la carta stampata.

La Penisola conosce un momento di grandi polemiche, alimentate non solo dal dibattito sulla libertà d’antenna e dall’inizio, il 6 aprile 1972, delle trasmissioni via cavo di Tele Biella e dalla campagna elettorale in corso. L’avvicendamento[49] alla guida del Corriere della Sera, dove la famiglia Crespi decide di liquidare Giovanni Spadolini nominando direttore Piero Ottone, provoca la sdegnata reazione di Indro Montanelli che minaccia di andarsene.

Il culmine delle polemiche viene raggiunto soprattutto dopo l’omicidio a Milano, il 17 maggio 1972, del Commissario Mario Calabresi, di cui la giornalista Camilla Cederna viene accusata di essere stato il mandante morale[50].

In questo difficile contesto, un mese dopo le elezioni, il 9 giugno 1972, interviene di nuovo la Corte Costituzionale. Nella sua Sentenza n. 105 la Corte riconosce l’interesse generale all’informazione, indirettamente protetto dall’Articolo 21 della Costituzione, il quale in un regime di libera democrazia, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali alla circolazione delle notizie e delle idee[51].

Due settimane dopo Beniamino Finocchiaro, responsabile della sezione culturale del PSI che promuove a Roma il 22 giugno 1972 un dibattito con alcuni giuristi sulla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo e della Rai, esclude l’ipotesi della privatizzazione del mezzo radiotelevisivo, ma respinge anche la formula attuale del monopolio. Un servizio pubblico, quale è la Rai, non può non essere autonomistico e pluralistico. Per parte sua Massimo Severo Giannini, nel suo intervento, ripropone la distinzione, rilevante nell’ambito del servizio pubblico radiotelevisivo, fra Stato-collettività e Stato-apparato. Secondo Paolo Barile, il monopolio deve essere gestito da un ente pubblico diretto e controllato non dal Governo, bensì dal Parlamento.

Per la maggior parte delle forze politiche, dunque, il perimetro della riforma della Rai rimane all’interno del regime di monopolio che solo alcune frange vogliono superare.  La Rai, dopo aver concorso all’unificazione linguistica del Paese e alla battaglia a favore dell’alfabetizzazione degli adulti, continua ad essere percepita come la prima industria culturale del Paese e si guarda ad essa con grande attenzione alla ricerca di nuovi orizzonti.

Il rinnovo annuale della Convenzione nel 1972 operato da Giulio Andreotti

Al suo interno la Rai degli ultimi anni di gestione latifondistica sotto il controllo del suo direttore generale Bernabei prende coscienza della sua situazione centrale che ormai riveste nell’industria culturale italiana e, come già ricordato, affidando dapprima ad un gruppo di tre “saggi” il tentativo di proporre una propria autoriforma, poi, tentando di dar vita ad una presidenza di garanzia con Aldo Sandulli, aveva sperato in questo modo di vedere progressivamente esaltata la missione imprenditoriale dell’azienda svincolandola dai condizionamenti politici del governo.

Nonostante le preoccupazioni espresse da alcuni suoi amministratori sui suoi conti, vede negli accordi contrattuali, promossi con le singole amministrazioni per la realizzazione di determinati servizi, la possibilità di incamerare nuovi introiti, ma soprattutto di rivedere ed esaltare la sua missione di servizio pubblico secondo modalità che rispettino l’autonomia dei soggetti contraenti. A cominciare dal settore della formazione[52] e dell’integrazione scolastica[53] in continuità con le azioni svolte a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta.  Ma ben presto, con lo scoppio della crisi petrolifera, queste spinte innovative rischieranno di essere frenate a causa della miopia di alcune forze politiche.

Sarà proprio Giulio Andreotti, succeduto con un governo monocolore elettorale al suo collega di partito Emilio Colombo all’inizio del 1972, a prorogare per un anno, con il suo secondo esecutivo neocentrista tripartito (Dc, Pli, Psdi) insediatosi dopo le elezioni il 26 luglio 1972, la concessione governativa alla Rai e a insediare una commissione tecnica presieduta da Aldo Quartulli per lo studio della riforma.

Nel frattempo, subito dopo la svolta neo-centrista, ai primi di agosto assistiamo all’ennesimo cambio al vertice della Rai: L’Amministratore Delegato Luciano Paolicchi, socialista, rassegna le dimissioni e non viene sostituito. Il Consiglio di Amministrazione distribuisce i suoi poteri tra presidente, direttore generale e direttore amministrativo, scelta transitoria in attesa che il governo faccia conoscere le sue intenzioni in merito alla nuova concessione.

Anche Massimo Fichera, rimasto sempre in forte dissenso con la gestione del suo compagno di partito Paolicchi, accusato di subalternità a Bernabei, è costretto a dimettersi dal Comitato Direttivo, sostituito dal giornalista liberale Enrico Mattei. Il clima rimane incandescente e il 10 agosto 1972 il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti annota nei suoi Diari:

“Maretta per la Rai. I repubblicani hanno presentato un’interrogazione per sapere se è vero che la Rai ha chiesto al governo ingenti interventi finanziari. Occorre camminare con prudenza per non danneggiare i rapporti con PSI e PRI”[54].

Due giorni dopo, il 12 agosto 1972, lo stesso giorno in cui il suo ministro delle Poste, il fanfaniano Giovanni Gioia con un decreto affida alla Sip-Stet il monopolio della posa e della gestione dei cavi coassiali, sempre Andreotti elenca nei suoi Diari le decisioni perese nella riunione del Consiglio dei ministri, ovvero

“Autorizzazione alla Rai per la sperimentazione della televisione a colori durante le Olimpiadi con sistema alternato Pal e Secam, aumento delle tariffe telefoniche, […]”[55].

Lo stesso Andreotti aggiungerà quattro giorni dopo sempre nei Diari:

“Il 16 [agosto] presa di posizione del PRI sull’introduzione delle trasmissioni televisive a colori in un momento di austerità. Come se – in nome di questa – si possa rinunciare all’innovazione. Del nostro ritardo si sono giovati i produttori stranieri, mentre è entrata in crisi l’industria italiana del settore, che pure era all’avanguardia”[56].

Su invito del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, espresso su conforme parere del Consiglio Superiore Tecnico delle Telecomunicazioni, dal 26 agosto all’11 settembre la Rai manda in onda a colori sulla Seconda rete televisiva, da Monaco di Baviera, i Giochi della XX Olimpiade. Le trasmissioni sono effettuate­ il pomeriggio e la sera, alternativamente nei sistemi Pal e Secam, per un totale di 148 ore[57]. Alla fine della prima settimana dei Giochi Olimpici, il 1° settembre 1972, sempre Andreotti annota nei suoi Diari:

“Viene La Malfa a studio: sulla questione del colore ritiene che si debba ritardare l’introduzione ma è necessario stabilire subito il sistema, prima della ripresa parlamentare. Tutta l’industria italiana vuole il Pal. La richiesta di fondi da parte della Rai è inaudita: è un’amministrazione pessima e occorrerebbe un amministratore unico che faccia un po’ di risanamento […]”[58].

Infine, il 6 settembre 1972, mentre si sta consumando il massacro perpetrato dall’organizzazione palestinese Settembre Nero contro gli atleti israeliani del villaggio olimpico, azione che trasforma i giornalisti sportivi in cronisti di atti di terrorismo internazionale, Andreotti pone all’esame dell’ordine del giorno del suo Consiglio dei ministri l’“Urgenza della scelta del sistema della tv a colori”. Come emerge da queste citazioni, tratte dai Diari del Presidente del Consiglio, le questioni relative alla legittimità del monopolio e allo sviluppo di sistemi alternativi come il cavo e la ripetizione su reti terrestri di programmi trasmessi dall’estero, si intrecciano con quelle relative alla gestione finanziaria interna dell’azienda o alle opzioni tecnologiche come quelle relative all’adozione dello standard televisivo a colori, che hanno importanti ricadute per l’industria elettronica nazionale di consumo e intorno alle quali emergono profonde divisioni all’interno delle forze politiche.

Mentre nel corso dell’autunno 1972 – inverno 1973 il telegiornale introduce il collegamento diretto per raccontare i principali avvenimenti di politica interna e i giornalisti[59] iniziano a parlare a braccio con servizi che arrivano a sette minuti su una durata totale del telegiornale che può sfiorare i 40 minuti, e frattanto che i servizi speciali del telegiornale promuovono le grandi inchieste, avviate dal ciclo in sei puntate che Sergio Zavoli conduce per raccontare agli italiani la Nascita di una dittatura, si conclude il periodo ventennale di validità della concessione alla Rai dei servizi radiotelevisivi sancita dalla Convenzione firmata il 26 gennaio 1952.

Il 13 dicembre 1972, Il Presidente del Consiglio Andreotti, rispondendo a Montecitorio alle interpellanze sulla Convenzione Ministero delle Poste-Rai e sulla situazione finanziaria dell’ente, annuncia che la Convenzione medesima sarà prorogata per un anno, e ciò in attesa dell’approvazione della riforma (il cui progetto dovrà essere pronto per aprile 1973):

”…nel frattempo – assicura Andreotti – niente aumenti di canone, niente assunzioni, niente modifiche all’equilibrio del gettito pubblicitario fra Rai e stampa, limitazione delle spese”[60].

Con DPR viene emanata una Convenzione aggiuntiva il 15 dicembre 1972, in virtù della quale viene pertanto rinnovata alla RAI la concessione dei servizi radiotelevisivi, per un anno, ovvero

“fino al 31 dicembre 1973 o nel diverso termine indicato dalla legge di riforma dei servizi radiotelevisivi in fase di elaborazione in sede governativa e da sottoporre all’esame del Parlamento”[61].

In realtà la Convenzione fra la Rai e Lo Stato per il rinnovo della concessione verrà rinnovata a due riprese, ma non in via definitiva, ovvero solo temporaneamente, dapprima – come annunciato da Andreotti – per tutto il 1973, in seguito, anche nei primi quattro mesi del 1974, sino all’approvazione l’anno successivo della nuova legge di riforma del sistema radiotelevisivo.

La Rai conclude l’ultimo esercizio che ricade sotto la vecchia Convenzione in un quadro economico ben diverso da quello dei due decenni precedenti: al 31 dicembre 1972 gli introiti della Rai ammontano a 183 miliardi e 600 milioni di lire. Gli abbonamenti sono saliti a 10,9 milioni. Le spese di produzione raggiungono gli 80 miliardi e 500 milioni, le spese tecniche 41 miliardi e 600 milioni, quelle amministrative e generali 45 miliardi e 300 milioni.

Dal canto loro, le ore di programmazione sono salite a 5.912 di cui 5.219 sulle reti nazionali e 693 ore di programmi su quelle locali nelle Regioni a statuto speciale. Gli impianti per le trasmissioni ammontano a 1.193. Gli studi televisivi sono 27 suddivisi nei quattro centri di produzione: 13 a Roma, 7 a Milano, 3 a Torino e 3 a Napoli (più uno studio a Firenze). La popolazione servita dal Canale Nazionale è del 98,1 per cento, quella del Secondo raggiunge il 91 per cento.

La nascita della stagione dei cento fiori nello stesso anno dell’austerità economica

Quattro fatti rilevanti segneranno l’inizio del 1973 prima che si produca la prima crisi di governo originata da questioni rilevanti al settore radiotelevisivo, e nella fattispecie la televisione via cavo.

Da un lato, nel gennaio 1973, Il capitale sociale della Società Italiana Pubblicità per Azioni (SIPRA), già suddiviso tra l’Iri per il 70 per cento e la Rai per il 30 per cento, viene assunto interamente dalla Rai. La presa di controllo della Sipra da parte della Rai nel 1973 si produce in ottemperanza a quanto espressamente stabilito nell’art. 6 della Convenzione aggiuntiva Stato-Rai approvata il 15 dicembre 1972.

Dall’altro, la sentenza, depositata il 24 gennaio al palazzo di Giustizia di Biella, di assoluzione di Tele Biella – sprovvista dell’autorizzazione del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni – dall’accusa di esercizio irregolare dell’attività radiotelevisiva (ai sensi dell’art 178 del vecchio Codice Postale), su cui torneremo più avanti, perché il fatto denunciato non costituisce reato:

“Se ragioni tecniche possono imporre un monopolio per la televisione effettuata mediante radio-onde, in considerazione del numero limitato dei canali, queste ragioni non sembrano davvero sussistere per la tv via cavo”.

In terzo luogo la presentazione il 26 febbraio 1973 delle conclusioni dello studio della commissione governativa presieduta dal consigliere di Stato Aldo Quartulli sulla riforma della Rai, istituita nell’agosto 1972, secondo il quale:

L’attività radiotelevisiva non può che configurarsi come servizio pubblico, non può essere devoluta a forze che potrebbero non assicurare la perfetta aderenza del servizio alle esigenze della comunità nazionale, né deve essere abbandonata a forze private. Questa attività in sostanza non può essere svolta che dallo stato, ma non senza garanzie”. 

La Commissione avverte poi, che, ferma restando l’esigenza della presenza pubblica, i nuovi mezzi di trasmissione audiovisiva potranno peraltro comportare una ridefinizione del servizio pubblico e una sua diversa disciplina[62].

In quarto luogo la decisione del governo dopo la sentenza su Tele Biella di aggiornare il vecchio codice postale per tener conto delle nuove tecniche di trasmissione. Il 29 marzo 1973 viene approvato il nuovo codice postale e delle telecomunicazioni, nel quale sono raccolte, coordinate e ammodernate le disposizioni legislative in materia, approvate con Regio Decreto il 27 febbraio 1936 e con successive modificazioni ed integrazioni. In materia di radiodiffusione l’art. 441 del nuovo Codice afferma che nulla è innovato nella legislazione vigente.

Negli stessi giorni in un convegno promosso a Roma sul tema Radiotelevisione, informazione e democrazia i comunisti sembrano intenzionati ad appoggiare la proposta di legge presentata dal senatore socialista Giovanni Pieraccini al fine di vietare l’uso privato delle reti via cavo, volendo in realtà affidare il monopolio della televisione via cavo alle Regioni[63].

Apparentemente siamo in una situazione di stallo. In realtà si disegna in questi anni il futuro della Rai.

Le forze politiche discutono ampiamente sul futuro della Rai ricercando la cosiddetta “partecipazione”, ovvero la concertazione delle forze sociali e guardando al decentramento e alle autonomie locali.  

Come ricordato da Giuseppe Richeri, all’epoca consulente poi dirigente della Regione Emilia Romagna

“Si riflette com’era stata la radiotelevisione fino a quel momento e cosa sarebbe stato necessario trasformare. Poi c’è una scadenza relativa all’applicazione della Costituzione e che riguarda l’istituzione delle Regioni, molto importante perché le Regioni non ritengono di essere un mero braccio amministrativo dello Stato, ma parte integrante dello Stato, anche per legiferare”.

Fra l’estate del 1972 e la primavera del 1973 si intensificano le riunioni fra le Regioni per preparare un disegno di legge. Il futuro presidente della Rai Beniamino Finocchiaro aveva svolto a Venezia il 20 giugno 1972 sul tema “Regioni e radiotelevisione”[64] la Relazione introduttiva alla riunione dei Presidenti e dell’Ufficio di Presidenza dei Consigli Regionali sul tema Regioni e televisione.  Il 31 luglio 1972 si tiene a Milano la prima riunione inter-regionale sul tema della riforma della Rai-Tv seguita da una seconda riunione a fine estate, il 15 settembre 1972, per l’esame della proposta di legge della Regione Lombardia. Il 16 ottobre 1972 a Firenze viene approvato un documento conclusivo dell’incontro dei rappresentanti dei Consigli Regionali sulla riforma medesima. Verrà illustrato a Palazzo Reale a Napoli il 21 ottobre 1972 a conclusione di un convegno di due giorni sul tema Regioni e riforma Rai-TV[65]. Le discussioni proseguiranno a Firenze il 5 febbraio 1973, tre settimane prima che la Giunta Regionale Lombarda approvi il 27 febbraio 1973 i principi ispiratori del testo di progetto di legge relativi alla riforma della Rai-Tv che verrà approvato cinque mesi dopo.

Per parte loro, dopo la sentenza depositata presso il Tribunale di Biella nel corso della primavera nascono in tutta Italia, sulla scia di Tele Biella, nuove emittenti via cavo[66]. Nel solo Piemonte Tele Ivrea, Tele Alessandria e Tele Vercelli, sono strette da collaborazione tra di loro, oltre che con la stessa Tele Biella. Nel mese di maggio nascerà a Venezia la prima federazione degli editori televisivi via cavo alla quale aderiscono diciassette emittenti.

Nasce la stagione dei cento fiori. L’Italia appare subito come un laboratorio per un processo non solo di apertura del mercato radiotelevisivo, verso il quale spingono ormai da diversi anni alcuni editori di destra, ma anche per un processo di democratizzazione degli strumenti di comunicazione di massa, come auspicano alcuni collettivi e forze dell’estrema sinistra. A farla da padrone saranno non solo le televisioni via cavo ma, soprattutto, le cosiddette radio libere, che trasmettono in ambito locale sulle reti a modulazione di frequenza.

In realtà in questi tre anni si producono per miopia politica gravi errori di politica tecnologica che peseranno massicciamente sullo sviluppo industriale delle telecomunicazioni in Italia. Su di essi gravano anche, come vedremo, le misure prese dal governo nel 1973 sull’austerity[67].

Ma procediamo con ordine ripercorrendo i tre temi caldi della prima parte degli anni Settanta: la scelta dello standard per la televisione a colori, le reti via cavo e la ripetizione dei programmi esteri.

Il rinvio della scelta sullo standard italiano per le trasmissioni televisive a colori e l’ipoteca sulla crescita della televisione via cavo

L’assenza di una scelta precisa dell’Italia nell’adozione dello standard per la televisione a colori è certamente il fatto più grave: creerà gravi incertezze non solo nei consumatori, che inizieranno a vedere programmi a colori provenienti dall’estero, ma soprattutto fra l’industria elettronica di consumo nazionale, che, in assenza di scelte precise, subirà un collasso, con gravissime ricadute sull’intero sistema-Paese progressivamente colonizzato dalle marche europee e giapponesi.

La Rai, in base alle sperimentazioni compiute nella prima metà degli anni Sessanta, aveva chiaramente individuato nello standard tedesco Pal a 625 righe e 60 semi quadri al secondo, quello più adatto per l’Italia, anche perché in grado di consentire la trasmissione di un canale audio in modalità stereofonica.

La preferenza per lo standard televisivo a colori Pal è palese: la Rai resiste con giustificate argomentazioni di natura tecnica alle forti pressioni politiche subite dal governo italiano dalla Francia gollista per favorire l’introduzione dello standard Secam, che, alla fine, verrà adottato per ragioni politiche solo dai Paesi comunisti del blocco orientale.

In un primo tempo gli ingegneri della Rai resistono a tali pressioni e, fra il 7 e il 15 febbraio 1970, in occasione dei Campionati mondiali di sci alpino in Val Gardena, la Rai impiega numerosi impianti mobili e fissi, che consentono la generazione per gli enti televisivi esteri della totalità dei programmi televisivi a colori nello standard tedesco Pal.

Due anni dopo, invece, in occasione dei Giochi Olimpici di Monaco di Baviera, su invito del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, espresso su conforme parere del Consiglio Superiore Tecnico delle Telecomunicazioni, la Rai effettua alternativamente sulla Seconda Rete televisiva il pomeriggio e la sera, trasmissioni a colori con i due sistemi Pal e Secam, per un totale di 148 ore. Sono inoltre effettuate trasmissioni per prove tecniche per 38 ore, ripartite in parti uguali tra i due sistemi.

Di fronte allo scontro politico che investe anche le forze politiche della coalizione governativa si approfitta infine di un evento come la crisi petrolifera del 1973 per bloccare le sperimentazioni e rinviare la decisione in merito all’adozione dello standard.

Sara questa del resto l’ultima battaglia (o colpo di coda) che Bernabei combatterà, quasi allo scadere del suo mandato, con Ugo La Malfa (anche lui considerato vicino al «Circolo del Whist») contro chi si oppone fermamente, in nome dell’austerità, ovvero di un rigorismo anticonsumistico verso il quale propendono anche i comunisti di Enrico Berlinguer, all’introduzione della televisione a co­lori in Italia: gli esiti saranno disastrosi per l’industria nazionale dei televisori che, di fatto, rischia l’estinzione.

La Rai potrà confermare la propria scelta iniziale a favore del Pal e avviare ufficialmente le trasmissioni a colori solo sette anni dopo, nel febbraio 1977, fuori tempo massimo.

Le riduzioni delle trasmissioni nel dicembre 1973, in seguito alle disposizioni del governo per limitare i consumi energetici a causa della crisi petrolifera, con l’anticipazione, rispettivamente alle 22.45 e alle 23.00, dell’orario di chiusura delle trasmissioni televisive e di quelle radiofoniche, inaugurano la cosiddetta politica dell’austerity che, imponendo forzatamente una riduzione dei consumi voluttuari, viene da taluni considerata come il tentativo dirigistico di fare un passo indietro, di voler imporre un ritorno alle abitudini e ai consumi morigerati dei primi anni del monopolio, in una fase di grande trasformazione del Paese e delle sue mentalità, di evoluzione dei costumi oltre che di presa di coscienza dei diritti dei cittadini e dei consumatori.

La politica dell’austerity, unitamente ad aggravare la recessione con l’aumento del costo dei prodotti derivati dal petrolio, produce una riduzione delle trasmissioni, assieme a una compressione di quelli che sono considerati – per riprendere alcune analisi e teorie sociologiche in voga in quegli anni – ‘nuovi bisogni’ e ‘nuovi diritti dei cittadini’ [68].

La prima breccia al monopolio radiotelevisivo del servizio pubblico: il caso Tele Biella e la prima crisi di governo sulla questione audiovisiva

Per questa ragione si rendono mature le condizioni per l’avvio di nuove attività da parte di operatori privati. Nell’aprile 1971 nasceva al di fuori di qualsiasi norma, la prima televisione via cavo, Tele Biella: per bloccarne lo sviluppo, il 12 agosto 1972 il ministro delle Poste Giovanni Gioia dapprima attribuisce in concessione alla STET in regime di monopolio la posa e la gestione cavo.

Poi, quando scoppia una polemica sulla presenza delle stazioni locali via cavo, il 29 marzo 1973, – tramite il decreto n. 156 del Presidente della Repubblica, che approva il nuovo Testo Unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e delle telecomunicazioni che modifica il Testo unico del Codice Postale del 1936 per sottoporre ad autorizzazione ogni impianto di ritrasmissione di segnali sonori e visivi[69], Gioia fa inserire nell’art. 195 la televisione via cavo nell’ambito della previsione relativa al monopolio e ne decreta la illegittimità.

Dopo più di un mese finalmente il 3 maggio 1973 il testo è pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 113 del 3 maggio 1973 sotto forma di Decreto del Presidente della Repubblica D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (Codice Postale) recante Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni. Si dispone pertanto la disattivazione dell’impianto di trasmissione di Tele Biella dato che l’emittente non dispone di nessuna concessione.

Il Ministro Gioia ordina di disattivare volontariamente gli impianti entro dieci giorni. Il 13 maggio i quotidiani danno notizia delle nuove norme del regolamento dei servizi postali sulla televisione via cavo e spazio alle reazioni suscitate negli ambienti politici.

Subito la questione televisiva causa i primi contrasti in Parlamento: i repubblicani, pur facendo parte della coalizione nel governo presieduto da Giulio Andreotti, non erano stati informati dell’introduzione del nuovo Testo Unico e delle modifiche che conteneva[70]. Ugo La Malfa chiede pertanto le dimissioni di Gioia.

I comunisti accusano il ministro Gioia di aver deciso sulla televisione via cavo senza aver investito della questione la maggioranza. Sia Enrico Manca sia Bettino Craxi per il PSI definiscono a loro volta il decreto incostituzionale. Infine il PSDI parla di iniziativa unilaterale e i liberali dichiarano di non poter accettare “il fatto compiuto”.

Il 16 maggio 1973 Andreotti di ritorno da Strasburgo annota nei suoi Diari:

“All’arrivo a Roma La Malfa conferma di diffidare di Gioia e mi dice di rinviare il dibattito in Parlamento perché loro non concordano sul passarci sopra”[71].

Il 28 maggio 1973 si apre virtualmente la prima crisi politica sull’audiovisivo in Italia. In seguito al voto della Camera sulla questione della televisione via cavo, non essendosi il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti dissociato dall’operato del suo ministro Gioia che non si dimette, i repubblicani decidono di togliere la fiducia al governo. Andreotti sarà così costretto a dimettersi un mese dopo, il 12 giugno[72].

Non avendo ottemperato all’ordine di smantellamento, il 1° giugno 1973 I funzionari della polizia postale Escopost disattivano gli impianti di Tele Biella tagliando il cavo che collegava l’emittente televisiva alla rete cittadina, provocandone l’oscuramento nel corso di una memorabile diretta dell’emittente. Nei confronti di Tele Biella viene presentata una nuova denuncia in base al nuovo Codice:

“Chiunque esercita un impianto di telecomunicazione senza prima aver ottenuto la relativa concessione o autorizzazione, è punito con l’arresto da tre a sei mesi”[73].

È ciò che si attende Giuseppe Sacchi che ha così legittimazione per sollevare il problema della costituzionalità della normativa, in particolare la violazione dell’articolo 21 della Costituzione, che recita

«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

in quanto il monopolio televisivo riservato allo Stato limita la libera espressione di pensiero attraverso il mezzo televisivo stesso.

In questa occasione, come per la scelta dello standard televisivo a colori, il sistema politico si rivela incapace di capire le conseguenze dell’abbandono di una tale decisione e che il cavo avrebbe consentito certamente la rottura del monopolio, ma contemporaneamente avrebbe sviluppato, sotto il controllo statale e in maniera ordinata, un mercato che di fatto era nascente e contrastava con la politica di austerità.  

Dietro alle dimissioni di Giulio Andreotti si nasconde in realtà l’ennesimo mutamento interno alla Democrazia Cristiana al’intrno della quale era maturata – come ricorda Chiarenza

“la rivolta dei cosiddetti cavalli di razza, cioè dei vecchi leader carismatici del partito, cpntro il binomio Andreotti-Forlani; sebbene avesse ottenuto un autentico successo personale al congresso di Roma del 1973, Arnaldo Forlani fu costretto a dimettersi dalla segreteria della Dc, prendendo atto di un’intesa intercorsa tra i capi di tutte le correnti del partito, detta di Palazzo Giustiniani. Fanfani tornò così alla segreteria della Dc, mentre il governo centrista di Andreotti si dimetteva […]”[74].

Con questi nuovi equilibri politici interni al partito di maggioranza relativa, quaranta giorni dopo l’apertura della crisi, Mariano Rumor subentrerà ad Andreotti il 7 luglio 1973 alla guida del suo quarto governo, un quadripartito di centro-sinistra Dc, Psi, Psdi e Pri, con un nuovo ministro delle Poste e Telecomunicazioni, Giuseppe Togni. Rimarrà in carica per un anno sino al luglio 1974.

A mettere un poco di ordine nel settore della tv via cavo, come vedremo nel prossimo paragrafo, ci penseranno il 30 aprile 1974 un pronunciamento a Lussemburgo della Corte di Giustizia delle Comunità Europee su un ricorso presentato da Tele Biella il 25 luglio 1973 dopo la disattivazione degli impianti e il conseguente oscuramento dell’emittente[75], e tre mesi dopo, il 10 luglio 1974, due sentenze della nostra Corte Costituzionale su cui ritorneremo più avanti.

Un dato è certo. Scarsa sino allora era stata l’attenzione verso la televisione via cavo sia da parte del servizio pubblico radiotelevisivo sia da parte del suo azionista gestore della telefonia in Italia. L’ingresso della Stet nel capitale della Rai, nel dicembre 1964, non aveva attivato un impegno nella costruzione di nuove reti via cavo coassiali o in fibra ottica, come avverrà invece negli altri grandi Paesi europei per opera dei gestori telefonici pubblici.

La collaborazione si limitava al rafforzamento della filodiffusione. Il 5 maggio 1971 tra la Rai e la Sip, ognuna nell’ambito della propria concessione, è stipulato un accordo che prevede, tra l’altro, l’elaborazione di un piano tecnico-economico per l’estensione della filodiffusione ai capoluoghi di provincia e ad altre città, dove il servizio risulti conveniente da un punto di vista di utilizzazione ottimale delle risorse. Insieme al rinvio dell’adozione della televisione a colori, il secondo grave errore sarà certamente la politica adottata nei primi anni Settanta in materia di televisione via cavo che relegherà l’Italia nel fanalino di coda fra i Paesi della Comunità europea.

Né le cose miglioreranno in questa materia nemmeno con l’approvazione della legge di riforma della Rai: l’imposizione nell’aprile 1975 del cosiddetto ‘cavo monocanale’, attribuendo al gestore del circuito la possibilità di trasmettere esclusivamente il proprio canale, renderà per venti anni inutile il tentativo di sviluppare reti via cavo in Italia.

L’accresciuto impegno delle Regioni nella riforma del servizio pubblico radiotelevisivo

Alla fine del mese di giugno 1973 Panorama rende noto il progetto per la riforma dell’ente radiotelevisivo elaborato da un gruppo di studio insediatosi nel luglio 1972 per iniziativa del vicepresidente di Confindustria Gino Ceriani. Nel Documento conclusivo la Confindustria accetta il principio del monopolio statale, anche se vengono espressi duri giudizi nei confronti della Rai, definita una “istituzione totale”. Il progetto prevede innanzitutto una pluralità dei concessionari dei mezzi di produzione. Il primo e il secondo canale dovrebbero essere dati in concessione a una società a intero capitale pubblico, mentre il terzo canale, in via di attuazione, andrebbe suddiviso fra capitale pubblico (51 per cento) e privato (49 per cento). Secondo la proposta, la società che gestisce i canali e quella che produce i programmi dovrebbero agire in maniera autonoma. Alla società di produzione dovrebbero aderire, nelle varie Regioni, partiti e sindacati. L’informazione andrebbe gestita da una agenzia come l’Ansa, responsabile delle notizie date, e la pubblicità da una società autonoma. Bisognerebbe infine creare le condizioni, a parere di Confindustria, per una reale attuazione del diritto all’accesso.  

Con l’insediamento del quarto governo Rumor e il ritorno della maggioranza di centro-sinistra – come osserva Franco Chiarenza – in Rai si respira un clima diverso:

“[si tornava agli interlocutori tradizionali, Fanfani da un lato e i partiti di centro-sinistra dall’altro. Spettava a essi risolvere tempestivamente il problema della riforma”[76]

In questo nuovo contesto riprendono le iniziative promosse dalle Regioni o comunque strettamente collegate alla loro nascita. Il 19 luglio 1973 il Consiglio regionale della Lombardia approva con emendamenti il disegno di legge per la riforma della radiotelevisione predisposto dalle Regioni[77] e ne chiede la presentazione in Parlamento. Nel mese di settembre a Torino inizia a trasmettere l’emittente via cavo Canale 3, diretta da Renato Tagliani e presentata dalla Giunta della Regione Piemonte. Dopo aver rotto con la Rai Tagliani aveva dato vita ad un progetto legato alla nascita delle Regioni con l’obiettivo di diffondere la cultura locale all’interno del territorio regionale.

Il 21 novembre 1973 si svolge un convegno sulla televisione via cavo promosso dalle Regioni unitamente alla Federazione Unitaria Sindacale (FUS) e alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI): l’assise, a conclusione dei lavori, chiede che sia affidato alle Regioni il compito di disciplinare le iniziative relative alle televisioni via cavo.

Il 1973 si conclude con l’anticipazione, a partire dal 2 dicembre, a seguito delle disposizioni governative intese a limitare i consumi energetici dell’orario di chiusura delle trasmissioni rispettivamente alle 22.45 (con tolleranza fino­ alle 23.00) per la televisione e alle 23.00 per la radio, cui seguirà tre settimane dopo, l’approvazione, il 20 dicembre 1973, del Decreto legge[78] che prevede la proroga per quattro mesi della concessione dei servizi radiotelevi­sivi alla RAI per il periodo 10 gennaio-30 aprile 1974.

Il 1974 sarà l’anno vero e proprio della svolta che segnerà sia il via libera per la legge di riforma della Rai in grado di creare le condizioni per rendere effettiva la stagione delle radio e delle televisioni ‘libere’ in virtù del mutato clima sopraggiunto dopo il referendum sul divorzio e con la fine delle misure di austerità. 

Alla vigilia della campagna referendaria il clima nel campo dell’informazione rimane infuocato. Non solo per la Rai. Anche il mondo della carta stampata continua ad essere in preda a grande agitazione. Nell’ottobre 1973 Piero Ottone aveva comunicato a Indro Montanelli che la sua collaborazione con il Corriere della Sera doveva considerarsi conclusa.

Il 17 marzo 1974 dalle colonne del quotidiano torinese La Stampa Indro Montanelli annuncia il suo progetto di fondare un nuovo giornale milanese a destra del Corriere. Al “licenziamento” di Montanelli seguirà una vera e propria fronda in seno al quotidiano di via Solferino: una trentina di giornalisti decidono di raggiungere Montanelli. Fra di essi: Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Egisto Corradi, Carlo Laurenzi, Enzo Bettiza, Mario Cervi, Gianfranco Piazzesi, Leopoldo Sofisti, Giancarlo Masini, Roberto A. Segre, Antonio Spinosa, Egidio Sterpa e Cesare Zappulli. Ad essi si aggiungeranno Guido Piovene e Gianni Granzotto.

Contemporaneamente i provvedimenti verso le nuove emittenti locali nate a partire dalla primavera del 1973 sono contraddittori. Da un lato nel dicembre 1973 due emittenti come Tele Torino, appoggiata dalla Regione Piemonte, e Tele Brescia, sostenuta dal Partito Repubblicano Italiano, riescono a sfuggire ai vincoli del cosiddetto Decreto Gioia. Dall’altro il 24 febbraio 1974 I funzionari della polizia postale Escopost sequestrano gli impianti e le attrezzature di Tele Abruzzo, istallate nell’aula magna dell’Università a Pescara, per la trasmissione via cavo di un dibattito sul referendum per il divorzio. La ripresa del dibattito era stata programmata unitamente ai responsabili di Tele Veneto. L’editore Veniero De Giorgi, responsabile dell’emittente, è denunciato e rinviato a giudizio in base ai dettami del Decreto Gioia.

Per parte loro, il 9 aprile 1974, i rappresentanti delle Regioni chiedono un incontro con il Presidente del Consiglio Mariano Rumor, nel frattempo subentrato a sé stesso il 14 marzo a capo di un quinto esecutivo tripartito con l’appoggio esterno dei repubblicani, per presentare le loro proposte di riforma della radio e della televisione.

Il 15-16 giugno 1974, un mese dopo il referendum, le Regioni promuoveranno un convegno ad Aosta sul tema: Rai e riforma della radiotelevisione, contestando il monopolio della Rai e approvando una risoluzione nella quale chiedono di partecipare direttamente alla gestione dell’ente televisivo, di procedere ad un reale decentramento produttivo dei programmi, di poter liberamente installare ripetitori per ricevere programmi dall’estero, oltre che di avere poteri in materia di disciplina della televisione via cavo.

La sconfitta di Fanfani al referendum sul divorzio e il canto del cigno del centro-sinistra

Il quinto governo Rumor è il canto del cigno di un centro-sinistra che appariva logorato già alla caduta dell’esecutivo precedente. Il proseguimento dell’esperienza del tripartito Dc-Psi-Psdi, con l’appoggio esterno del Pri, è fortemente voluto da Fanfani, che è riuscito a convincere in tal senso i direttivi dei gruppi parlamentari, ma la Democrazia Cristiana è lacerata dalla spinosa questione del divorzio, in particolare tra i sostenitori dei comitati civici di Luigi Gedda, promotori del referendum, e i fautori della libertà di scelta, fra cui spiccano i cosiddetti ‘cattolici del dissenso’.

La vittoria del no all’abrogazione della legge il 12 maggio 1974 con il 59,1 per cento, segna la fine dell’unità politica dei cattolici e una pesante sconfitta per la maggioranza centrista che governa la Democrazia Cristiana intorno al suo segretario Amintore Fanfani.

La successiva sconfitta in un turno elettorale amministrativo parziale sembra dover provocare le dimissioni del suo segretario. Ma Fanfani, da parte sua, rifiuta di farsi da parte e per rivalsa mette in atto una gestione autoritaria del partito che non ottiene altro effetto che marcare le divisioni con le correnti di sinistra. La scarsa capacità decisionale della Dc si ripercuote sulla stabilità e la capacità di guida dell’esecutivo, che si trova alle prese coi problemi del terrorismo, emersi drammaticamente con l’attentato dinamitardo in piazza della Loggia in occasione di una manifestazione sindacale che provoca la morte di otto persone e 103 feriti, e con problemi di ordine pubblico, minato dagli scioperi e della lotta contro l’inflazione, spingendo Mariano Rumor a presentare le dimissioni già il 10 giugno (ritirate dopo un accordo sulla politica economica col Psi) e a riproporle definitivamente il 3 ottobre, quando si profila il ritiro dei ministri socialdemocratici.

Nel frattempo il governo è costretto, in piena campagna referendaria, il 30 aprile 1974, a promulgare l’ennesimo Decreto Legge[79] per assicurare una seconda proroga della concessione alla RAI della gestione dei servizi di radioaudizione, televisione, telediffusione e radiofotografia circolari fino all’entrata in vigore della nuova disciplina organica dei servizi radiotelevisivi e comunque non oltre il 30 novembre 1974. Per venire incontro alla necessità finanziarie e impedire un tracollo dell’azienda, la Rai ottiene la corresponsione di quasi tutto il gettito degli abbonamenti in conto dei crediti che rivendica per adempimenti eccedenti rispetto a quelli previsti nella Convenzione del 1952. Ciò avviene il giorno stesso in cui la Corte di Giustizia delle Comunità Europee respinge il ricorso di Tele Biella contro il decreto Gioia e il monopolio radiotelevisivo, in quanto il monopolio della Rai non contrasta con le norme del Trattato di Roma. Ma, nel frattempo, si produce una seconda breccia al monopolio della Rai per opera dei cosiddetti ripetitoristi dei programmi esteri, che si intreccia con la questione del ritardo nell’adozione dello standard per le trasmissioni televisive a colori.

La seconda breccia al monopolio radiotelevisivo del servizio pubblico: la ripetizione di programmi esteri radiodiffusi a colori in occasione dei mondiali di calcio dell’estate del 1974.

Nella primavera del 1974 si produce un secondo fenomeno di destabilizzazione del monopolio: i segnali di due emittenti estere, la Televisione della Svizzera Italiana e Tele Capodistria, che trasmettono ormai regolarmente programmi televisivi a colori nello standard Pal, captati nelle zone di frontiera per debordamento hertziano, vengono ritrasmessi attraverso una rete di trasmettitori e ripetitori terrestri in tutto il Nord Italia e in parte dell’Italia centrale, sino ad arrivare alla capitale. De facto il monopolio viene così messo in crisi.

Il 7 giugno 1974 un decreto del nuovo Ministro delle Poste Giuseppe Togni ordina di smantellare entro tre giorni tutti i ripetitori abusivi istallati sul territorio italiano, al fine di irradiare i programmi televisivi a colori dei pasi confinanti, ovvero della Svizzera e di Capodistria. L’imposizione di disattivare anche gli impianti abusivi di ripetizione dei segnali delle televisioni estere provoca subito la reazione dell’Anie, l’Associazione Nazionale dell’Industria elettronica di consumo, secondo la quale ciò potrebbe determinare alla vigilia dei mondiali di calcio un crollo della vendita dei televisori.

Il crescente malcontento costringe la Rai il 9 giugno 1974 a posticipare, sia pure leggermente, alle 23.15 e alle 23.30 l’orario di chiusura delle su trasmissioni radiofoniche e televisive.

Per parte loro i socialisti il 17 giugno 1974 presentano un progetto di legge di un solo articolo che riguarda i ripetitori:

“L’istallazione di apparecchi ripetitori di ricezione e trasmissione al pubblico di programmi televisivi stranieri non è soggetta ad alcuna autorizzazione. Chi effettua tali impianti deve, prima di attivarli, darne comunicazione al ministero delle Poste e Telecomunicazioni, con lettera raccomandata, indicando le generalità del titolare e la localizzazione dell’impianto”.

Nel luglio 1974, il successo delle trasmissioni a colori dei campionati mondiali di calcio, che vengono captate grazie alla rete dei ripetitoristi delle televisioni estere di lingua italiana trasmesse nello standard Pal, rende particolarmente evidenti i danni di questa politica dell’austerità.

Sull’onda di questo successo, il 5 agosto 1974, inizia a trasmettere in italiano l’emittente monegasca TeleMonteCarlo che, a differenza della Televisione della Svizzera Italiana e di Tele Capodistria, si rivolge direttamente a un pubblico italiano[80].

Le sentenze della Corte e la prima liberalizzazione delle comunicazioni radiotelevisive in Italia

Più che i provvedimenti tampone presi dal governo a colpi di decreti legge, sarà la Corte Costituzionale a iniziare a fare chiarezza su come il legislatore dovrà disciplinare un settore in rapida evoluzione, non solo da un punto di vista tecnologico, anche per rispondere alle nuove istanze di partecipazione promosse dagli enti locali, oltre che dalle richieste del mercato e di cittadini che diventano consumatori tanto esigenti quanto competenti nell’uso di beni immateriali.

Il 10 luglio 1974 la Corte Costituzionale pronuncia le sentenze n. 225 e n. 226.

La prima sentenza la n. 225[81] riafferma da un lato la legittimità della riserva allo Stato dei servizi di televisione circolare a condizione che le trasmissioni offrano al pubblico

“una gamma di servizi caratterizzata da obiettività e completezza di informazione” e che venga favorito e reso effettivo “il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici”,

ma chiarisce che essa non può abbracciare anche i ripetitori di stazioni trasmittenti estere che non operano sulle bande di trasmissione assegnate all’Italia.

La seconda sentenza, la n. 226[82], delibera, invece, la legittimità dell’istallazione delle reti e dell’esercizio privato di servizi radiotelevisivi locali via cavo “a raggio limitato”. 

In particolare viene ribadita la riserva allo Stato per la radiodiffusione terrestre, subordinata però alla definizione di nuove regole in grado di garantire imparzialità, obiettività e pluralismo, necessarie per non contraddire i dettami della Costituzione (si pongono così le premesse della futura riforma della Rai).

Contemporaneamente vengono definitivamente liberalizzate le trasmissioni via cavo in ambito locale e si dichiara altresì illegittima l’interruzione – ordinata un mese prima dal Ministro delle Poste – dei programmi della Televisione della Svizzera Italiana (TSI) e di Tele Capodistria, irradiate in Italia per iniziativa dei fratelli Marcucci in nome della libera circolazione delle idee.  Questo atto sancisce implicitamente la fine del monopolio per le trasmissioni terrestri.

A sorreggere la sentenza interviene, tra le altre cose, la convinzione che l’esiguità dei costi di impianto, gestione e trasmissione di una stazione radiotelevisiva scongiuri il rischio di concentrazioni oligopolistiche. In questo modo si conclude sul nascere l’avventura della televisione via cavo.  A questa crisi concorrono anche nuove iniziative da parte dei primi operatori televisivi via cavo.

La prima sentenza, dichiarando illegittimi gli articoli 1, 183 e 195 del Testo Unico, approvato con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 156 del 29 marzo 1973, per imporre lo smantellamento delle emittenti estere, sanciva il diritto dei privati a ripetere i programmi televisivi esteri, mentre la seconda legalizzava la trasmissione via cavo su scala locale.

In realtà, approfittando del nuovo clima post-referendario, alcune emittenti locali iniziano a trasmettere programmi anche via etere – ovvero, per essere più precisi, su reti di radiodiffusione terrestre – utilizzando le frequenze su cui sono ripetuti i programmi esteri.

L’esplosione dell’emittenza locale e le nuove ambizioni dei ‘ripetitoristi’

Il caso italiano è clamoroso. Le sentenze della Corte Costituzionale pronunciate il 10 luglio 1974, pur non abolendo formalmente il monopolio delle frequenze terrestri, liberalizzano le trasmissioni radiofoniche e televisive sul piano locale.

In questo nuovo quadro, a partire dall’estate 1974, nasceranno nel corso di tutti gli anni Settanta migliaia di emittenti su tutto il territorio nazionale. Quasi ogni giorno viene annunciata la nascita di una nuova televisione via cavo. Il 19 luglio un convegno a Pescara riunisce le 32 emittenti appartenenti a 17 società associate nella Federazione Italiana Editori Televisivi via Cavo (FIET) e le cinque stazioni di Rete A 21, di cui Tele Biella è la capofila. Fra le tante emittenti corsare, per iniziativa di Umberto Bassi, nasce nell’estate 1974 Tele Genova e poco più tardi, il 24 settembre 1974, nel comprensorio residenziale di Milano 2 realizzato dal costruttore milanese Silvio Berlusconi[83], vede la luce Tele Milano Cavo[84]

Contemporaneamente i possessori di nuovi televisori a colori beneficeranno nel Nord e nel Centro Italia della ripetizione dei segnali a colori della Televisione della Svizzera Italiana e di Capodistria, cui si aggiunge una terza emittente, Tele Monte Carlo, in occasione dei campionati mondiali di calcio dell’estate del 1974. I fratelli Leo e Guelfo Marcucci, attivi nella ripetizione dei segnali esteri, forti della Sentenza della Corte Costituzionale, decidono di trasformare parte della loro catena di ripetitori di emittenti straniere in una rete televisiva, la prima che miri ad avere una dimensione nazionale. Nell’estate del 1974, subito dopo la promulgazione delle due sentenze e incoraggiate dalla convenienza economica dei nuovi impianti e dal nuovo clima politico post-referendario, nascono pertanto le prime emittenti private terrestri.

Il 10 agosto 1974 l’emittente Firenze Libera celebra il trentennale della Liberazione della città trasmettendo un dibattito con le autorità locali utilizzando le frequenze su cui viene ripetuta Tele Capodistria. Con questo sotterfugio, non senza essere contrastate dal ministro delle Poste Togni[85], Tele Firenze Libera e un’emittente genovese, Tele Superba, la prima a trasmettere dal 1°ottobre 1974 un programma televisivo a colori, aprono la strada, presto seguite da numerose altre emittenti televisive, “a somiglianza delle trasmissioni radiofoniche per le quali il cavo è improponibile”. Come ricorda Flavia Barca

“Le televisioni locali terrestri registrano un vero e proprio boom a cavallo tra il 1974 e il 1975, anche a fronte dei bassissimi investimenti necessari per avviare una stazione radiofonica. Ma le circa 50 emittenti televisive indipendenti hanno vita economica difficile e, in un momento in cui il rapporto fra investimenti pubblicitari e pil è molto contenuto e tocca nel 1976 il suo punto più basso (0,26 per cento), raccolgono appena lo 0,4 per cento degli investimenti pubblicitari in un mercato dove la quota dei quotidiani raggiunge invece il suo apice con il 32,4 per cento”[86]

Assistiamo in questo modo, in assenza di una legge organica, alla prima liberalizzazione delle radiodiffusioni in Italia.

La Rai, di fronte all’esplosione dell’emittenza locale, corre ai ripari anticipando i tempi della riforma e recependo il monito delle Regioni al convegno di Aosta.

Dapprima, il 3 luglio 1975, Il Consiglio di Amministrazione della Rai decide la costruzione di una terza rete televisiva dedicata ai programmi regionali e al “decentramento”. Lo studio verrà affidato a un gruppo sotto il coordinamento di Fabiano Fabiani.

Poi, il 20 novembre 1974, la Rai stipula un accordo con la Regione Valle d’Aosta per la realizzazione di due nuove reti televisive: una adibita alla diffusione del secondo programma televisivo francese e l’altra del programma televisivo della Svizzera Romanda.

Nel nuovo clima post referendario proseguono le grandi manovre anche nella carta stampata: il 25 giugno 1974 esce il primo numero de Il Giornale nuovo, diretto da Indro Montanelli, con una schiera di giornalisti provenienti dal Corriere della Sera.  Poco dopo, il 12 luglio 1974, la famiglia Crespi esce definitivamente dopo 92 anni dall’azionariato del Corriere della Sera. Giulia Maria Crespi decide improvvisamente di vendere la sua quota del quotidiano di via Solferino, con una mossa che prende Gianni Agnelli e Angelo Moratti in contropiede. Viene firmato l’accordo di transazione con la casa editrice Rizzoli, presieduta da Andrea Rizzoli, figlio del fondatore Angelo Rizzoli.

Dalle dimissioni di Ettore Bernabei al Patto della Camilluccia

Il 19 settembre 1974, lo stesso giorno in cui Tele Firenze Libera manda provocatoriamente in onda una seconda trasmissione sperimentale dedicata alla Breccia di Porta Pia, il cattolico fiorentino Ettore Bernabei, fortemente indebolito dalla sconfitta personale di Fanfani al referendum sul divorzio, dopo quasi quattordici anni di dominio assoluto, lascia la direzione generale della Rai.

La Rai alla fine della stagione bernabeiana – osserva Enzo Scotto Lavina – presenta

“dimensioni mature nell’organico, nelle risorse conquistate sul campo aperto e nell’offerta informativa consolidando quella caratteristica da Giano Bifronte (azienda privata che gestisce un servizio pubblico finanziato dal canone e al contempo attraverso la pubblicità realizza un palinsesto in cui elementi di servizio pubblico sono sostenuti da iniezioni di evasione leggera), un Giano bifronte che a partire da questa data in molti si daranno a più riprese come missione di abbattere”[87].

Con le dimissioni di Bernabei si conclude la fase di avvio, sperimentazione e consolidamento del modello monopolistico della televisione italiana.

Fra il 1951 e il 1974 in seno alla Rai si erano avvicendati sei presidenti, con funzioni ridotte di rappresentanza esterna, dopo le tre direzioni generali di Salvino Sernesi, Giovan Battista Vicentini e Rodolfo Arata. La gestione monocratica dell’azienda di Ettore Bernabei rende sempre più complesso il modello editoriale leggero dei suoi predecessori, portando alla soppressione dell’Amministratore Delegato (se ne sono avvicendati quattro: Filiberto Guala, Marcello Rodinò di Miglione, Gianni Granzotto e Luciano Paolicchi) e chiamando dall’esterno giornalisti a svolgere ruoli direzionali e di alto management.

Secondo lo stesso Scotto Lavina

“Il risultato finale fu una televisione sostanzialmente monocanale, in bianco e nero, che trasmetteva pedagogia di massa, una televisione autoriale, autorevole e autoritaria, una televisione che dal collage dei pezzi unici creati dai suoi autori vede progressivamente affermarsi i generi, i nuovi generi televisivi, quello che altri hanno definito come lo specifico televisivo. [In questi 25 anni] Le figure che emergono sono: nei programmi l’autore, il programmista e il regista, nelle news il redattore giornalistico, nell’area tecnica l’ingegnere, figura decisiva sia nella progettazione, realizzazione e gestione dell’area trasmissione, sia nell’area dei centri di produzione, sia nella sperimentazione e progressiva introduzione delle nuove tecnologie, anche grazie al ruolo significativo svolto dal Centro Ricerche di Torino”[88].

Le dimissioni di Bernabei coincidono sul piano politico con la fine definitiva dell’esperienza dei governi di centro-sinistra che si produce con le dimissioni del quinto governo Rumor, il 2 ottobre 1974. Il clima è avvelenato dal rientro improvviso e anticipato, il 29 settembre del ministro degli esteri Aldo Moro da una visita ufficiale negli Stati Uniti. Il comunicato della Farnesina parla di generici motivi di salute. Di li a tre anni verrà reso noto da Corrado Guerzoni che lo statista pugliese è stato minacciato da un collaboratore del Segretario di Stato americano Henry Kissinger:

«Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere»[89].

Contemporaneamente nell’autunno riprendono intensamente le discussioni fra le forze politiche e le istituzioni, a cominciare dalle Regioni, per trovare un accordo sulla riforma della Rai in un momento in cui si fanno sempre più palpabili le prospettive di sviluppo di offerte alternative, non solo attraverso la ripetizione di programmi esteri.

Il 5 ottobre 1974, tre mesi dopo l’avvio delle trasmissioni in italiano di Tele Montecarlo, i fratelli Leo e Guelfo Marcucci, che sino ad allora ritrasmettevano i programmi esteri, trasformano una parte delle antenne di trasmettitori della loro Società Impianti Televisivi (SIT) in una rete televisiva, Tele Ciocco, con sede a Castelvecchio Pascoli nella Garfagnana in provincia di Lucca. Un anno dopo, nell’ottobre 1975, Teleciocco darà vita in seno alla SIT, a TVS Telexpress, la prima televisione nazionale privata italiana terrestre all’origine quattro anni dopo, nel 1979, del circuito Elefante Tv[90].

L’11 ottobre 1974 la Regione Lombardia promuove a Milano il convegno Forze politiche, Regioni e sindacati di fronte all’imminente riforma del monopolio Rai Tv. Dal dibattito emergono due indicazioni. Sì al monopolio, purché vi sia una reale garanzia di pluralismo, decentramento produttivo e ideativo, autonomia degli operatori e dei giornalisti, e maggior partecipazione delle Regioni così da impedire la formazione di monopoli o oligopoli in ambito locale. Il 14 ottobre a Viareggio si costituisce l’Associazione Nazionale delle Tele radiodiffusioni indipendenti (ANTI) a cui aderiscono Tele Biella e altre ventiquattro emittenti via cavo e terrestri. Tra queste Tele Firenze Libera, Tele Superba e Qui Modena. L’Anti nasce con l’intento di difendere il diritto delle emittenti a trasmettere: diventerà la prima vera organizzazione di categoria[91]

Per parte sua il Consiglio di Amministrazione della Rai 29 ottobre 1974

“decide – anche in vista della prossima scadenza della legge di proroga – di soprassedere alla nomina di un nuovo Direttore Generale, invitando Presidenza e Comitato Direttivo a continuare l’azione di vigilanza e di coordinamento in modo da assicurare il normale svolgimento della vita aziendale”.

Infine, nel corso del mese di novembre[92], proseguono gli interventi del ministro delle Poste Togni nei confronti delle televisioni private considerate illegali. In accordo con la Rai, il ministro decide di occupare le bande libere sulle quali trasmettono le emittenti locali terrestri

Nel frattempo a Roma il mondo politico è alle prese con quella che si presenta come una crisi al buio poiché in realtà non esiste una maggioranza di ricambio al centro-sinistra

Il 20 ottobre 1974 dopo due giri di consultazioni avviati dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone coi quattro partiti della maggioranza uscente, Fanfani ammette che la soluzione della crisi appare lontana, al punto che la possibilità delle elezioni anticipate si fa più concreta. Lo scoglio è lo scontro tra il Psi, che auspica la collaborazione almeno esterna del Pci al governo, e la destra del Psdi (Orlandi e Tanassi) che guarda invece con favore ai liberali e confida nelle elezioni per un allargamento a destra dell’area di governo.

Dopo una lunga e infruttuosa serie di consultazioni, che vede fallire un tentativo di Fanfani e dopo un turno di elezioni amministrative che vedono in forte regresso la Dc, facendo seguito all’ennesimo giro di consultazioni in cui emerge un largo schieramento ostile alle elezioni anticipate, la DC, determinata a ricostituire il centro-sinistra a tre settimane dall’apertura della crisi, indica Aldo Moro, ovvero il suo più convinto assertore, al quale Leone conferisce l’incarico con la formula del mandato ampio: le sue doti di cattolico progressista e grande mediatore ne fanno la figura ideale per un governo che deve affrontare temi difficili come l’aborto, il diritto di famiglia e la riforma della RAI. Moro giura nelle mani del capo dello Stato il 23 novembre, dando vita al suo quarto governo, un bicolore DC PRI con l’appoggio esterno di socialisti e socialdemocratici.

Due giorni prima, il 21 novembre 1974, l’ennesimo convegno a Roma con la partecipazione della Federazione Nazionale della Stampa, dei sindacati e delle Regioni intitolato significativamente La Riforma della Rai-Tv di fronte alla scadenza del 30 novembre, aveva invitato la politica a trovare un’intesa sulla legge di riforma del servizio pubblico. E così avviene.

Al momento dell’insediamento del Quarto Governo Moro, dopo la lunga crisi del Governo Rumor, si riesce finalmente, nel novembre 1974, alla vigilia della scadenza della proroga della Concessione alla Rai, a raggiungere un’intesa sulla riforma del servizio pubblico, recependo sul piano tecnico le indicazioni contenute nelle due sentenze della Corte Costituzionale, dopo che socialisti e socialdemocratici, superando alcune incertezze iniziali, avevano abbracciato le tesi repubblicane che insistevano per introdurre il principio della concorrenza tra le reti con lo scopo di attivare, pur nell’ambito del servizio pubblico, un meccanismo di confronto e di emulazione.

La DC, contraria, si trova pertanto costretta, in seguito ad un intervento diretto dello stesso Fanfani, a piegarsi.

Dopo una lunga trattativa fra i partiti della maggioranza e con il beneplacito dell’opposizione comunista era stato approvato dopo il referendum il cosiddetto ‘patto della Camilluccia’ (dal nome del quartiere romano dove, in una scuola, si svolsero gli incontri. Il patto, stretto fra democristiani e comunisti ai danni soprattutto dei socialisti, divideva la Rai in zone di influenza dei vari partiti.

Come osserva Enrico Menduni

“Con la zebratura infatti si stabilisce una gerarchia, con tanto di responsabili, che al di sotto di essi ne avrebbero avuto tanti altri (tra direttori, vice e così via), allo scopo di permettere un più esteso controllo delle decisioni prese dagli altri partiti. Nessun partito in definitiva poteva prendere delle decisioni se non trovava l’accordo con gli altri partiti[93].

A tal riguardo Luigi Mattucci, uno fra i dirigenti socialisti allora impegnati nella trattativa, ricorda:

“Il Pri rinuncia al Tg2 perché viene deciso di dare qualcosa al Pci. L’appoggio dei comunisti si era dimostrato indispensabile per vincere l’annunciato ostruzionismo del Msi, praticamente tagliato fuori dall’organigramma che avrebbe dovuto restare segreto. Gli accordi della Camilluccia si erano fatti proprio per questo e al Pci era stata promessa la nascitura Terza Rete regionale, al cui progetto lavorava Fabiano Fabiani. Ma dopo il suo risultato elettorale alle amministrative del giugno 1975 sembrò troppo poco: il Pci ottenne il doppio gradimento del direttore del tg laico. E dopo la vittoria alle politiche del 1976 ebbe anche due consiglieri in più”.

Il 30 novembre 1974 segna dunque la premessa per il superamento del latifondo e l’avvio della cosiddetta lottizzazione della Rai. Il Consiglio dei ministri, a tre ore dall’ennesima scadenza della Convenzione tra lo Stato e la Rai, approva il disegno di legge di riforma del sistema radiotelevisivo pubblico, frutto di una lunga discussione progettuale avviata cinque anni prima nel 1969. Il controllo dell’ente passa dal Governo al Parlamento: il nuovo Consiglio di Amministrazione, che elegge a scrutinio segreto presidente e direttore generale, sarà formato da sei membri espressi dall’azionista, ovvero dall’IRI, sei dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza e quattro dalle assemblee regionali. Viene altresì deciso di istituire un secondo Telegiornale – ovvero una testata distinta per la seconda rete – in sostituzione dell’attuale regime che aveva un Telegiornale unificato per il nazionale e per il secondo programma.

Il 30 novembre 1974 il Decreto legge n. 603, uscito in Gazzetta Ufficiale n. 313 il 1° dicembre 1974[94] detta Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva, al fine di adeguare la legislazione ai principi indicati nelle sentenze della Corte Costituzionale.

Alla fine dell’anno viene altresì deciso un aumento del canone che passa da 12 a 19 mila lire, assicurando per il 1975 un maggiore introito di 83 miliardi di lire, 70 dei quali destinati alla RAI[95]. Nonostante l’inizio della fine de facto del regime di monopolio e l’intensificarsi, da un lato delle sperimentazioni, soprattutto a sinistra, delle radio libere, che vengono ancora considerate come radio clandestine[96], dall’altro delle azioni legali delle nascenti associazioni di categoria delle nuove emittenti[97], la Rai continua dunque a beneficiare del sostegno della maggior parte delle forze politiche, oltre che di quelle forze che intendono partecipare al suo rinnovamento, ivi comprese le centrali dell’Associazionismo ricreativo e culturale[98].

Certo, il quadro politico è molto instabile in una fase di transizione politica come quella che si appresta a vivere il Paese, ma le speranze che si accendono dopo la vittoria dei contrari all’abrogazione del divorzio, creano nuove attese nella società italiana desiderosa di voltare pagina con il vecchio conformismo. Non solo fenomeni come le radio e le televisioni libere ma anche la nascita, il 14 dicembre 1974, del Ministero per i Beni culturali, affidato al repubblicano Giovanni Spadolini, si iscrivono in queste nuove istanze partecipative e attese di cittadini più alfabetizzati e consapevoli rispetto alle generazioni precedenti, formatisi anche attraverso la Rai.

L’incremento del canone si rende necessario a fronte della crescita vertiginosa delle spese durante la gestione di Bernabei, in larga parte ascrivibili ai maggiori oneri per il personale. Nel primo ventennio televisivo il personale in organico passa da 4540 unità nel 1954 a 11.570 elementi nel 1974, di cui 280 dirigenti (erano 129 nel 1964), 746 giornalisti (erano 361 nel 1964), 353 funzionari. Solo a Roma la Rai conta 6741 dipendenti.

La crescita di quella che ormai è diventata la prima industria culturale della Penisola e che inizia ad assumere un peso crescente anche nella produzione cinematografica è stata impetuosa.

A vent’anni dall’inizio del servizio televisivo regolare, le trasmissioni televisive sono passate da 1497 ore a 5953 ore nel 1974, aumentando di quattro volte mentre l’informazione aumenta di otto volte. Per l’ascolto televisivo, dai 10,7 milioni registrati in prime time nel 1964 in un decennio si passa a 18,5 milioni nel 1974 e a 8,8 milioni sull’intera giornata. A fronte degli 824 mila abbonati alla sola radio, gli abbonati alla televisione alla fine del 1974 superano gli 11,8 milioni di cui 6,37 milioni al nord, 2,39 milioni al centro, quasi 2,1 milioni al sud e quasi 950 mila nelle isole.

Nonostante l’accordo politico raggiunto dopo il Patto della Camilluccia, all’inizio del 1975, il Decreto 30 novembre 1974 n. 603 non riesce a essere convertito in legge, ovvero decade. Pertanto viene emanato un secondo decreto, il n. 3 del 22 gennaio 1975[99], cui seguirà un terzo decreto, il n. 51 del 18 marzo 1975, che detta disposizioni urgenti in materia di servizi di telecomunicazioni[100] sino all’approvazione della Legge di riforma del 14 aprile 1975.

Verso la legge 103 di Riforma della Rai: ultime trattative e polemiche prima dell’approvazione

All’inizio del 1975[101] esistono ormai più di un centinaio di emittenti televisive sul territorio nazionale e iniziano a farsi sentire: il 7 gennaio 1975 per protestare contro il decreto di riforma della Rai che le ha dichiarate illegali, le emittenti libere riunite a Latina decidono di trasmettere in contemporanea il 15 gennaio.

Dal 31 gennaio al 3 febbraio si svolge a Milano, presso il Museo della Scienza e della Tecnica, la prima mostra sulla televisione via cavo.

Partecipano 53 società italiane ed estere tra le quali le grandi multinazionali dell’elettronica Philips, Sony, Ampex, SIT-Siemens, gran parte delle emittenti via cavo e Tele Monte Carlo e la Televisione della Svizzera Italiana per le televisioni estere.

Dal convegno escono sconfitte le tesi che considerano la televisione via cavo un medium a basso costo, accessibile a un ampio numero di persone, in grado di realizzare il decentramento e il pluralismo dell’informazione.

Dai dati forniti risulta che i costi d’impianto e la manutenzione di una rete di cavi richiedono somme elevate: oneroso dunque il costo complessivo.

Contemporaneamente procede a corrente alternata il tentativo di imprimere un’accelerazione per approdare rapidamente ad una decisione per la televisione a colori.

Il 17 gennaio 1975 Indesit propone un terzo standard televisivo a colori, il sistema Isa, per le trasmissioni televisive a colori in Italia.

L’11 febbraio 1975 Il ministro francese per il Commercio estero Norbert Ségard incontra Giulio Andreotti, presidente delegato del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE), cui è stata demandata la decisione sullo standard televisivo a colori. L’incontro è finalizzato a fare pressione sull’Italia affinché opti per lo standard francese Secam.

Il 22 febbraio Mariano Rumor nella sua nuova veste di ministro degli esteri incontra il suo omologo tedesco il liberale Hans-Dietrich Genscher per la scelta dello standard per la televisione a colori. Il 28 febbraio Confindustria sottolinea l’urgenza di una scelta definitiva a favore del Pal.

Cinque giorni dopo, il 5 marzo 1975 i rappresentanti delle industrie elettroniche riuniti in seno all’Anie, dopo aver esaminato i tre standard Pal, Secam e Isa, si pronunciano per il Pal.

Ma il 18 marzo 1975 Il Consiglio Superiore Tecnico delle Telecomunicazioni rinvia la decisione sul colore per consentire esperimenti mediante il sistema Isa. Si pronuncerà il 4 aprile a favore del sistema Pal.

Nuovamente il vicepresidente del Consiglio Ugo La Malfa si dichiara contrario all’introduzione in tempi brevi del colore, mentre sono favorevoli liberali e socialdemocratici.

L’8 aprile i comunisti chiedono un dibattito in Parlamento.

Quattro giorni dopo l’uscita in Gazzetta Ufficiale del terzo decreto legge 19 marzo 1975 n. 51 di proroga della Convenzione tra lo Stato e la Rai fino all’entrata in vigore della legge di riforma, chiarisce la natura degli impianti soggetti ad autorizzazione:

“Appartengono in esclusiva allo Stato i servizi di telecomunicazione salvo quelli indicati nel comma successivo. Sono soggetti ad autorizzazione (..) l’istallazione e l’esercizio di: impianti ripetitori privati di programmi sonori e televisivi esteri e nazionali; impianti locali monocanali di diffusione sonora e televisiva via cavo”[102].

Un circuito via cavo – pur essendo ormai palese che esso comporta ingenti costi sia di impianto sia di manutenzione, potrà distribuire un solo canale – sarà autorizzato solo sotto forma di “impianti locali monocanali di diffusione sonora e televisiva via cavo”.

Scelta confermata nel testo approvato una settimana dopo, il 26 marzo 1974, alla Camera dei Deputati, che prevede per l’appunto il cavo monocanale, ovvero la trasmissione di un solo canale per ogni impianto televisivo via cavo, bloccando lo sviluppo di questa modalità di trasmissione. Il che spingerà rapidamente le emittenti via cavo a chiudere i battenti e trasformarsi rapidamente in emittenti terrestri. Un’autentica follia che, da un lato costituirà un pesante macigno nello sviluppo di moderne infrastrutture per le comunicazioni in Italia, dall’altro darà vita ad un autentico far west nella gestione di un bene prezioso come lo spettro radioelettrico delle frequenze.

In ogni caso, con il voto favorevole della maggioranza quadripartita Dc-Psi-Psdi-Pri e l’astensione del Pci, la Camera approva la proposta di legge per la riforma del servizio radiotelevisivo. Il concorso del PCI – data la maggioranza dei tre quinti richiesta nelle nomine dei membri della Commissione Parlamentare di Indirizzo e Vigilanza – sarà determinante. Nasce quella che Alberto Ronchey qualifica come la lottizzazione del servizio pubblico radiotelevisivo. 

L’11 aprile 1975 anche il Senato approva la legge di riforma Rai.

La legge autorizza, oltre alle televisioni via cavo su impianti locali monocanali, la ripetizione via etere delle emittenti estere. Ma anche in questo caso sorgono ostacoli in quanto una norma contenuta nella legge vieta la diffusione di messaggi pubblicitari imponendo ai ripetitoristi l’obbligo di oscurare quelli trasmessi dalle emittenti estere.

Quattro giorni prima L’Associazione dei Ripetitori Televisivi Indipendenti (ARTI), aveva invitato i gestori dei ripetitori a proseguire normalmente la loro attività senza tenerne conto.

Anche in questo caso sono evidenti sin dall’inizio le premesse per non assicurare il rispetto delle regole imposte dalle leggi giudicate irrealizzabili dai soggetti interessati.

Fatte queste premesse, occorre in conclusione sottolineare i numerosi aspetti positivi della legge di Riforma della Rai, che interviene a pochi mesi dall’entrata in vigore della legge francese che scorpora il vecchio Office de Radiodiffusion Télévision Française (ORTF), definito come la Voce della Francia sotto la Presidenza di Charles De Gaulle, in diverse società.

Dopo cinque anni di convegni e dibattiti e a quasi un anno e mezzo dal primo Decreto-legge 20 dicembre 1973 di proroga della concessione dei servizi radiotelevisivi alla Rai, viene infine promulgata la legge 14 aprile 1975, n. 103 che detta Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva e segna l’inizio della riforma della Rai[103].

 I dieci punti essenziali della legge di riforma

1. Le diffusioni radiofoniche e televisive, via etere e via cavo, costituiscono

un servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volto ad ampliare la partecipazione dei cittadini a concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese”.

2.La legge di riforma del servizio pubblico radiotelevisivo conferma la legittimità del monopolio statale sull’attività radiotelevisiva (ad eccezione delle aree già sottratte alla riserva statale con le Sentenze nn. 225 e 226 della Corte Costituzionale), ma

con finalità di “ampliamento della partecipazione” e principi fondamentali quali “indipendenza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali”.

3. Il monopolio pubblico viene ad essere qualificato dal “pluralismo” e dall’”accesso”, ovvero dall’obbligo di riservare il 5 per cento delle trasmissioni radiofoniche e il 3 per cento di quelle televisive a programmi autogestiti da organizzazioni religiose, politiche, sindacali.

4. Il controllo politico passa dal Governo al Parlamento, allo scopo di osservare maggiore pluralismo, completezza e obiettività dell’informazione. La legge sottrae pertanto la Rai al controllo esclusivo dell’esecutivo, attraverso l’attribuzione di nuovi poteri ad una rinnovata Commissione parlamentare bicamerale per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi composta da 40 membri (senatori e deputati) in modo da rispecchiare la forza dei singoli gruppi.

5 Lo Stato concede alla Rai la gestione dei servizi per sei anni. La concessione può essere rinnovata per altri sei anni. Anziché configurarsi come Ente pubblico, la Rai diventa una società per azioni a totale partecipazione pubblica, dotata di una Convenzione con lo Stato della durata di 6 anni.

6.Il consiglio di amministrazione è composto da sedici membri: sei eletti dall’Assemblea dei soci, dieci dalla commissione parlamentare con la maggioranza dei tre quinti, dei quali quattro designati dalle Regioni[104].

7.Il finanziamento dell’azienda avviene tramite il canone di abbonamento e solo in modo secondario deriva dalla pubblicità, raccolta dalla SIPRA. La durata complessiva dei programmi pubblicitari non può superare il 5 per cento dei tempi di trasmissione, ovvero della programmazione giornaliera.

8. Impianti di diffusione sonora o televisiva via cavo sono ammessi per le zone geografiche con popolazione non superiore a 150 mila abitanti. Sono anche ammessi ripetitori per trasmittenti straniere purché autorizzati dal Ministero delle Poste e a condizione che non interferiscano con le reti del servizio pubblico nazionale. 

9. Una norma transitoria concede alla Sipra di assumere, fino all’entrata in vigore della Concessione, nuovi contratti per pubblicità per un importo non superiore al 10 per cento del fatturato 1974.

10. I nuovi organi della Rai saranno costituiti entro 30 giorni.

Il 9 maggio 1975, l’Assemblea degli azionisti della Rai, in ottemperanza alla legge di riforma n. 103, modifica lo Statuto sociale deliberando, con effetto dal 1° dicembre 1974, il trasferimento della totale proprietà delle azioni in mano pubblica. Pertanto la partecipazione azionaria della Rai – prima divisa tra l’Iri (75,45 per cento), la Stet (22,90 per cento), la Siae (0,45 per cento) ed altri azionisti (1,20 per cento) – diventa per il 99,55 per cento appartenente all’Iri e per lo 0,45 per cento alla Siae.

Con la riforma della Rai, si rafforza la figura del Presidente, eletto dal Consiglio d’Amministrazione. Scompare la figura dell’Amministratore Delegato, cresce quella del Direttore Generale.

L’accordo politico prevede che il primo goda della fiducia del Partito Socialista e il secondo della Democrazia Cristiana.

Il Consiglio d’amministrazione elegge Presidente, vicepresidente e, in questa prima fase, sino al 1985, anche il Direttore Generale. È inoltre competente per tutte le nomine dirigenziali. Definisce inoltre la gestione finanziaria e contabile, delibera il piano annuale delle trasmissioni poi trasmesso per approvazione delle linee generali alla Commissione di Vigilanza, e su questa base approva lo schema dei programmi del trimestre successivo.

La legge di riforma sancisce in qualche modo la fine de facto del regime di monopolio, inaugurando la stagione di un sistema radiotelevisivo misto che rimarrà – come vedremo nel prossimo articolo – privo di una legge per ben quindici anni sino al 1990.

Inizia la fase della cosiddetta a-regulation.

Democrazia Futura. Cento anni di radiofonia e settant’anni di tv in Italia (I)

Democrazia Futura. Cento anni di radiofonia e settant’anni di TV in Italia (II)


[1] In un articolo scritto per l’Annuario Rai 1952, significativamente intitolo “La radio come servizio pubblico”, il primo Presidente del Consiglio di Amministrazione nel 1945-1946 Arturo Carlo Jemolo, considera che in un regime liberale, caratterizzato dalla coesistenza di partiti diversi e dalla possibilità del loro avvicendarsi al potere, la radio non deve divenire lo strumento della propaganda governativa, ma rimanere il servizio di informazione spassionata e imparziale al quale tutti gli ascoltatori, qualunque siano le loro idee, possano attingere e da cui non debbano mai sentirsi offesi aggiungendo:

“Mi parrebbe assai bello ed assai naturale che in un regime caratterizzato dalla pluralità dei partiti, ogni partito disponesse, per qualche quarto d’ora settimanale, della radio, per far conoscere direttamente la sua voce e il suo programma a chiunque desideri ascoltarlo”.  

Arturo Carlo Jemolo, “La Radio come servizio pubblico” in Annuario RAI 1952, Roma, Edizioni Radio Italiana, 1952, pp. 15-23.

[2] Granzotto viene meno al suo mandato soprattutto perché non riesce a far passare il progetto in cui si auspicava una maggiore trasformazione della RAI in azienda contenuto nel Rapporto dei tre Saggi

[3] Franco Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della Rai. Con una postfazione dalla riforma ad oggi, Milano, Franco Angeli, 2002. 254 p. Si tratta di una seconda edizione aggiornata da cui citiamo. La prima risale al 1978 Il cavallo morente. Trent’anni di radiotelevisione italiana, Milano, Bompiani, 1978, 284 p.  [si vedano pp. 142 e sgg].

[4] Franco Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della Rai, op. cit. alla nota 3, p. 144.

[5] Enzo Scotto Lavina, Tra Sisifo e Nesso. Modelli e strutture editoriali del servizio pubblico televisivo, 1954 – 2004, Milano, Lampi di Stampa, 2011, 370 p. Questo modello verrà confermato nel novembre 1971 e accompagnerà l’area dei programmi sino all’aprile 1975 quando la legge di riforma detterà la nuova organizzazione editoriale del servizio pubblico.

[6] Enrico Menduni, Televisione e società italiana (1975-2000, Milano, Bompiani, 2002, 223 p.

[7] Si vedano, più avanti, il paragrafo “La ripresa del dibattito sulla riforma e il ruolo decisivo esercitato dalle Regioni” e in particolare la nota 148.

[8] Enzo Forcella, “Schema di relazione su proposte per una riforma” in Club Turati, Tv e libertà in Italia: una riforma urgente. Atti del Convegno di Roma, 19-20 aprile 1969, Milano, Edizioni Passato e Presente, 1969, 368 p. [la relazione si trova alle pp.  32-45].

[9] Ibidem, p. 142.

[10] Qui il diavolo combatte con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo”. Così parlava Dmitrij tra le pagine di uno dei classici russi di fine Ottocento, I Fratelli Karamazov, nato dalla penna di Fëdor Dostoevskij e considerato il suo testamento spirituale, soprattutto per il contenuto filosofico ed esistenziale di cui si fanno portatori i personaggi. I fratelli Karamazov sono quattro: Dmitrij, che vive di emozioni forti passando costantemente da un estremo all’altro e che odia il padre, tanto che verrà accusato del suo omicidio; Ivan, l’intellettuale nichilista; Alëša, il religioso, che convoglia verso la fede l’impetuosità tipica della famiglia; infine Smerdjakov, il figlio illegittimo, che verrà indotto da Ivan ad uccidere il malvagio padre.  Questi quattro fratelli, insieme a uno stuolo di personaggi degni di un kolossal, entrano in bianco e nero nelle case degli italiani.

[11] Con la strage nella Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano nasce la cosiddetta strategia della tensione. Come osserva Simona Colarizi

“Quattro anni di lotte nelle fabbriche e un anno di occupazioni nelle università hanno messo a dura prova la pazienza e la tolleranza degli industriali e, in genere dei borghesi amanti dell’ordine che non sopportano più le follie dei loro figli e persino delle figlie, passate di colpo dalla secolare sottomissione all’aperta rivolta. Tanto più –– che la tensione non sembra scemare neppure con il riflusso del movimento degli studenti, dal quale si sono staccate le frange più radicali che hanno dato vita ad una galassia di piccoli gruppi estremisti, conquistati dal mito della rivoluzione proletaria… O leader della contestazione studentesca, improvvisatisi capi politici, si illudono di trascinare sotto le bandiere della rivoluzione  masse di lavoratori scontenti e in rivolta contro i sindacati e il partito comunista, accusati entrambi di aver tradito i veri interessi della classe” e di essere “pronto a tutti i compromessi con il potere borghese”. In realtà – continua Colarizi – “La grande maggioranza dei lavoratori e dei giovani mostra invece di gradire la prosperità e i tanti nuovi beni che appaiono adesso a portata di mano. È soprattutto per ottenerli, per migliorare le proprie condizioni di vita, per affermare il diritto di tutti al benessere che la classe operaia si è mobilitata: si chiede la casa e l’automobile ma anche la possibilità di mandare i figli alle scuole superiori e persino alle università. C’è insomma una gran voglia di democrazia, no di rivoluzione. Ma c’è una destra eversiva che intende approfittare di questo equivoco; anzi fa di tutto perché la minaccia di un sovvertimento rivoluzionario appaia più concreta fino a creare panico nell’opinione pubblica. Le bombe di Milano nel mese di dicembre 1969, mirano proprio a questo. La strage di innocenti serve a provocare un senso di insicurezza, di paura, tanto da convincere ogni cittadino che è necessario un governo forte, anche autoritario, pur di ritrovare l’ordine e la tranquillità perduti […]”

Simona Colarizi, La seconda guerra mondiale e la repubblica, Roma, Tea, 1996, 813 p. [si tratta del quarto volume della Storia d’Italia. Dall’Unità alla fine della Prima Repubblica].

[12] “La stagione del terrorismo” in Andrea Melodia, Teoria e tecnica del linguaggio televisivo“, Ariccia, Aracne2, 2004, 160 p. [la citazione è a p. 62]. La prima edizione risale al 1999.

[13] Matthew Hibberd, Il grande viaggio della BBC. Storia del servizio pubblico britannico degli anni Venti all’era digitale, Roma, Rai Eri, 2006, XV-409 p. [il passo citato è a p. xxx].

[14] Al 31 dicembre 1970 cresce l’esposizione bancaria della Rai nei confronti delle banche per oltre 28 miliardi di lire ma il governo respinge i tentativi di rialzare il canone o di aumentare gli spazi pubblicitari già cresciuti tra il 1963 e il 1970 del 53,2 per cento (e del 23,6 per cento della radio) a fronte di un incremento del 21,2 per cento della pubblicità raccolta sui quotidiani e del 33,6 per cento di quella raccolta sui periodici.  Alla fine del 1970 abbonati alla televisione sono 9.716.539. Il numero degli spettatori paganti nelle sale cinematografiche scende a 525 milioni perdendo in quindici anni quasi 300 milioni di telespettatori nonostante la crescita della popolazione.

[15]Enrico Menduni, Televisione e società italiana (1975-2000), op. cit. alla nota 6.

[16]Il 21 gennaio 1970, dopo tre anni di sperimentazioni fra il 1966 e il 1969, iniziano i programmi regolari di TeleDiffusione Italiana – Telenapoli per due ore al giorno, dalle 19 alle 21. La prima trasmissione fu un simpatico programma di Nino Taranto, che, essendo stato filmato, andò, a ripetuta richiesta anche nei giorni successivi. I primi giornalisti: Angelo Maggi (di Napoli Notte) curava un “videogiornale” e Antonio Scotti (de Il Roma) curava gli avvenimenti sportivi. Invano il giornalista Angelo Maggi richiese al Tribunale di Napoli la “registrazione” per il suo videogiornale: il Tribunale si dichiarò incompetente a concederla, dal momento che le tv a circuito chiuso non erano contemplate come la carta stampata. Si andò avanti come ditta individuale, Telediffusione Italiana di Pietrangelo Gregorio, fino al 17 dicembre 1970, quando si costituì ufficialmente la società TeleDiffusione Italiana – TeleNapoli, con le insegne prestigiose in via Toledo.

[17]Il 25 marzo 1970, dalla valle del Belice, Radio Sicilia Libera trasmette clandestinamente per ventisette ore prima di essere chiusa dalla polizia postale. La radio vuole essere “la voce di chi è più sofferente, la voce di chi è in pericolo, di chi sta per naufragare”. Carabinieri, polizia, vigili del fuoco interrompono le trasmissioni e sequestrano le apparecchiature. Promotori dell’iniziativa sono Danilo Dolci, Franco Alasia e Pino Lombardi, del Centro studi e iniziative di Partinico.

[18] Dario Fo in una delle sue più note commedie,ladefinirà ironicamente come Morte accidentale di un anarchico, sostenendo la tesi dell’omicidio.

[19] Franco Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della Rai…, op. cit. alla nota 3, p. 155

[20] “La stagione dei congressi e il ruolo delle Regioni nella riforma del servizio pubblico” a cura di Francesco Nizzoli, in Flavia Barca (a cura di), Le Tv invisibili. Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia, op. cit alla nota 37 [si veda nella fattispecie la “Breve cronologia, 1969-1976” alle pp. 203-206].

[21] Unione Cattolica Stampa Italiana. Associazione Regionale Veneta, Giornalismo televisivo. Una riforma per la Rai-Tv. Convegno di Recoaro Terme, 20-21 giugno 1970, a cura di Domenico Orati, Padova, edizioni Messaggero, 1970, 318 p.

[22]ENARS, Quale riforma per la radiotelevisione? Atti dell’incontro internazionale, Roma, 24-25 giugno 1970, Roma, Edizioni Enars, 1970, 152 p.

[23] AIART, La TV negli anni Settanta, Atti del convegno di studio (Roma, 25-29 giugno 1970), Roma, Quaderni dell’AIART, (2) aprile-giugno 1971, 165 p. 

[24] Mentre Aldo Moro polemizza per i modi e i tempi di apertura della crisi, decisa in ambienti ristretti e al di fuori degli organi statutari della Dc, il capo dello Stato Saragat avvia l’8 luglio le consultazioni. Circola voce che le dimissioni di Rumor possano essere state imposte da ambienti ecclesiastici per ritardare l’esame della legge sul divorzio e per provocare uno spostamento a destra della coalizione di governo. Dai colloqui emerge, per contro, che le difficoltà lamentate dal governo originano principalmente dalle divisioni interne della Dc. Quest’ultima, assieme a Psi e Psu, si dichiara disponibile a ricostituire un esecutivo di centro-sinistra, il Pri condiziona il proprio assenso a un vertice preventivo dei quattro partiti sul delicato tema dell’economia. Nella direzione democristiana Arnaldo Forlani deve difendere la scelta della crisi contro le contestazioni di Forze nuove, basisti e morotei. L’11 luglio Saragat conferisce l’incarico a Giulio Andreotti col mandato di formare una maggioranza di centro-sinistra organica. Il presidente incaricato inizia subito le sue consultazioni, che si rivelano difficili per il problema delle giunte. Il Psu chiede un chiarimento sui comportamenti locali del Psi, che non disdegna l’alleanza col Pci e il Psiup laddove non esistono le condizioni numeriche o politiche per un centro-sinistra organico.

[25] In Tv 72. Materiali, interventi proposte per la riforma, a cura di Enzo Enriquez Agnoletti, Il Ponte, XXVIII (1-2), 31 gennaio-29 febbraio 1972, XVI-367 p. [pp. 30-31].

[26] Piero Bassetti, “Convegno Tv e Regioni, Roma, 23 ottobre 1970” in Tv 72. Materiali, interventi proposte per la riforma…, Il Ponte, loc. cit. alla nota precedente, pp. 94-96.

[27] La legge Fortuna-Baslini introduce in Italia il divorzio nell’ordinamento civile con una maggioranza delle forze laiche: Pci, Psi, Psu, Pri e Pli, mentre contrari rimangono il Msi e la Dc. Per più di tre anni sino al referendum promosso da chi si propone di abrogare la legge, il divorzio è destinato a dividere l’opinione pubblica che si appassiona al tema, ormai sentito come una battaglia pro o contro la modernità. Perché anche grazie all’attivismo dei radicali il mondo femminile appare risvegliato sta entrando sulla scena con una irruenza tale da far traballare per la prima volta le certezze incrollabili dell’universo maschile.

[28]Le relazioni introduttive sono affidate a Enrico Manca, ai giuristi Giuliano Amato, Enzo Cheli, Luigi Mazzella (avvocato dello stato), Marco Ramat (Magistrato), ai giornalisti Andrea Barbato, Sergio Milani (direttore dell’ADN Kronos), e Alberto La Volpe.

[29] Il 3 gennaio 1971 nell’ambito delle trasmissioni regionali, le rubriche domenicali erano state trasforma­te in veri e propri Supplementi-rotocalco ai Gazzettini regionali, con finalità strettamente giornalistiche e contenuti corrispondenti al rotocalco. Occasione per nuove assunzioni e critiche al sempre più potente direttore generale Bernabei.

[30] Sandro Fontana, “La regionalizzazione come occasione di rinnovamento istituzionale della Rai”, in Tv 72. Materiali, interventi proposte per la riforma, Il Ponte, loc. cit. alla nota 154, pp. 96-97.

[31]Rimane peraltro l’alta divulgazione di opere classiche della  letteratura: dal 19 dicembre 1971, dopo la riduzione nel 1968 dell’Odissea, tratta da Omero, la Rai propone l’Eneide tratto dal poema epico di Publio Virgilio Marone, nello sceneggiato in sette puntate per la regia di Franco Rossi. Protagonisti Giulio Brogi e Marilù Tolo.

[32] Il buon successo di ascolto del programma La costiera dedicato alla minoranza italiana dell’allora Jugoslavia che viveva nelle repubbliche di Slovenia e Croazia, nonché alla minoranza slovena in Italia e alle genti che vivevano lungo il confine sloveno-italiano, da un lato, e dall’altro la posizione favorevole del trasmettitore sul monte Nanos che permette di coprire una buona fetta d’Italia, nonché la possibilità di introdurre il sistema di colori Pal portano subito nel mese di febbraio la dirigenza dell’RTV di Lubiana e quella di Radio Capodistria ad elaborare e concretizzare un nuovo progetto televisivo in lingua italiana preparato e trasmesso da Capodistria. Iniziano le trasmissioni sperimentali che daranno vita a TV Koper – Capodistria nell’ambito del Programma sperimentale di TV Lubiana sul canale 27 del monte Nanos

[33]Il palinsesto prevede notiziari, dibattiti, gare sportive, trasmessi attraverso una rete di cavi stesa lungo le strade di Biella e allacciata a 700 abitazioni della città. Direttore è il regista Peppo Sacchi formatosi alla Rai di Milano. Dai portici di Biella, la piccola tv via cavo cerca di attuare una presa diretta sulla realtà: trasmette programmi sulla vita della città, redendo gli spettatori protagonisti. Tele Biella inizia a trasmettere con una certa regolarità dal settembre del 1972.Verrà oscurata il 1° giugno 1973 dalla Polizia Postale.

[34]Le riprese sono effettuate con impianti AKAI: telecamera, un piccolo monitor, e un registratore con cassetta audiovideo. La messa in onda avviene collegando il registratore ad un televisore. I programmi riguardano soprattutto cronache sportive, ma anche servizi di cronaca locale riminese. Nata per iniziativa di quattro giovani, nel 1972 supererà i mille utenti. I soci chiedono un preventivo per cablare tutta la città, come aveva già fatto Telebiella, ma il loro progetto naufraga di fronte a un preventivo di costi troppo elevato.

[35] Giulio Andreotti, I diari degli anni di piombo. Introduzione di Bruno Vespa, A cura di Serena e Stefano Andreotti, Milano, Solferino, 2021, 784 p. [il passo citato è a p. xxx]..

[36] Giulia Guazzaloca, Una e indivisibile. La Rai e i partiti negli anni del monopolio pubblico (1954-1975), Milano, Mondadori Education – Le Monnier, 2011, 254 p.

[37]Una e indivisibile. La Rai e i partiti negli anni del monopolio pubblico (1954-1975), Sintesi del corso di Storia Contemporanea, Università di Bologna – Alma Mater Studiorum, senza data, 34 p.

[38] Eugenio Scalfari, “E ora, libertà d’antenna”, L’Espresso, 23 gennaio 1972, oggi reperibile nella raccolta di articoli: Eugenio Scalfari, Articoli. Vol. 5. L’Espresso dal 1969 al 2004, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso – La Biblioteca di Repubblica, 2004, 1150 p. [pp. 366-368]. Poi ripreso all’interno de “Il dibattito dei primi anni Settanta sulla libertà d’antenna” a cura di Francesco Nizzoli, appendice Flavia Barca (a cura di), Le Tv invisibili. Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia, op. cit. alla nota 37, pp. 187-189.

[39]L’intervento dell’allora parlamentare socialista suscita vivaci polemiche. All’interno del PSI il vice segretario Giovanni Mosca critica la posizione di Scalfari il quale replica dal canto suo contro “le vestali della sottocultura nazionale che difendono il monopolio”. Il vicepresidente della Rai Italo De Feo, rilascia un’intervista all’Europeo, in cui afferma che “la rivoluzione tecnica della televisione è già in atto e non può essere arrestata. Non può essere contestata l’esistenza di un articolo, e precisamente il ventunesimo della Costituzione, che stabilisce la libertà per ogni cittadino italiano di diffondere il proprio pensiero con tutti i mezzi disponibili”. Per De Feo anche l’Italia, come gli altri paesi d’Europa retti dalla democrazia, si deve preparare all’arrivo della tv via cavo, e quindi alla più totale libertà di espressione”.  

[40] Indro Montanelli, “Il monopolio Tv”, Corriere della Sera, 4 febbraio 1972. Ripreso ne “Il dibattito dei primi anni Settanta sulla libertà d’antenna” in Flavia Barca (a cura di), Le Tv invisibili, ibidem, pp. 191-192.

[41]Eugenio Scalfari, “È il video che sposta le masse”, L’Espresso, 6 febbraio 1972.

[42] Eugenio Scalfari, “Libera d’antenna in libero stato”, L’Espresso, 13 febbraio 1972.

[43] La rivista bimestrale fondata da Pietro Calamandrei offre un quadro molto esaustivo del dibattito dell’epoca nel numero monografico curato da Marina Tartara Muscetta e dedicato a Tv 72: materiali interventi proposte per la riforma, a cura di Enzo Enriquez Agnoletti, Il Ponte, loc. cit. alla nota 154.

[44] Occorre rilevare che una parte della nuova sinistra si stringerà intorno a Carlo Ripa di Meana e al Club Turati, per introdurre elementi di nuova analisi e progettualità. In particolare Il gruppo INDEX-Archivio critico dell’informazione formato da ex-“situazionisti” molto impegnati sui temi della complessità e integrazione di sistema dell’informazione  fra i quali si segnalano Marco Sigiani, Francesco Siliato, Antonio Pilati, Raffaella Agostani e Paolo Bassi. A questo gruppetto si aggiungeranno i giuristi Gustavo Ghidini e Valerio Onida (poi presidente della Corte Costituzionale) per la realizzazione del libro Il governo audiovisivo.

[45]Tv 72: materiali interventi proposte per la riforma, a cura di Enzo Enriquez Agnoletti, Il Ponte, loc. cit. alla nota 154.

[46] Eodem loco, p. 297.

[47] Eodem loco, p. xxx.

[48] L’espressione è di Flavia Barca, Le Tv invisibili, op. cit. alla nota 37, p. 28.

[49] Seguirà il 13 giugno un avvicendamento anche alla direzione de Il Giorno dove Gaetano Afeltra subentra a Italo Pietra. Afeltra realizza invece un altro progetto: quello di smontare il Giorno per distoglierlo dalle precedenti posizioni politiche. La linea di “disimpegno” e “spoliticizzazione” viene osteggiata dalla redazione, che entra per due volte in sciopero, a breve distanza di tempo: il 27 settembre 1972 e il 20 gennaio 1973. Durante il 1973 escono dal giornale, per disaccordi con il direttore, Enzo Forcella, editorialista, e Paolo Murialdi, primo redattore capo.

[50] Un anno prima del delitto, il settimanale L’Espresso, in tre successivi numeri apparsi in edicola il 13-20-27 giugno 1971 aveva pubblicato un appello in cui si sostiene che il Commissario Mario Calabresi è responsabile della morte di Giuseppe Pinelli e in cui si formulano accuse a magistrati e altri soggetti che avrebbero ostacolato l’accertamento delle responsabilità in favore di Calabresi. L’appello promosso da Camilla Cederna viene sottoscritto da ottocento intellettuali, politici e giornalisti fra i quali Paolo Mieli,  Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Umberto Eco, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Livio Zanetti, Pier Paolo Pasolini, Lucio Colletti, Carlo Rossella, Toni Negri, Camilla Cederna, Tiziano Terzani, Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Federico Fellini, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Carlo Rognoni, Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani, Luigi Comencini, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Ugo Gregoretti, Nanni Loy, Giovanni Raboni, Giovanni Giudici, Renato Guttuso, Andrea Cascella, Ernesto Treccani, Emilio Vedova, Carlo Levi, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Franco Antonicelli, Lucio Villari, Paolo Spriano, poi Giulio Carlo Argan, Fernanda Pivano, Gillo Dorfles, Morando Morandini, Luigi Nono, Margherita Hack, Gae Aulenti, Giò Pomodoro, Paolo Portoghesi, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Angelo Maria Ripellino, Natalino Sapegno, Primo Levi, Enzo Enriques Agnoletti, Lalla Romano, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Sergio Saviane, Giuseppe Turani, Carlo Mazzarella, Andrea Barbato, Vittorio Gorresio, Bruno Zevi, Grazia Neri, Franco Basaglia, Carlo Ripa di Meana, Vittorio Ripa di Meana e Paola Pitagora.

[51] Corte Costituzuonale. Sentenza 9 giugno 1972 n. 105. Pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 158 del 21 giugno 1972. Cf. https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:1972:105.

[52] Il 21 giugno 1971 è stipulata, tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Rai, una Convenzione relativa alle trasmissioni radiotelevisive a carattere formativo, che pone le basi per una loro ripresa nel biennio 1971-72, volta a fornire nuovi modelli di impostazione didattica secondo un piano di applicazione metodologicamente innovativo

[53] . Il 19 maggio 1973 verrà poi stipulata una Convenzione tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Rai relativa alle trasmissioni radiotelevisive di integrazione scolastica e di educazione permanente

[54] Giulio Andreotti, I diari degli anni di piombo, op. cit. alla nota 164, p. xxx.

[55] Ibidem, p. xxx.

[56] Ibidem, p. xxx.

[57] Ad esse si aggiungono altre 38 ore e mezzo, ripartite in parti uguali tra i due sistemi, occupate per prove tecniche

[58] Giulio Andreotti, I diari degli anni di piombo, op. cit. alla nota 164, p. xxx.

[59] Mario Pastore e Vittorio Brancoli conducono da studio. Vittorio Orefice, Nuccio Fava e Bruno Vespa si trovano sul posto a seguire i congressi e i comitati centrali dei partiti

[60] Giulio Andreotti, I diari degli anni di piombo, op. cit. alla nota 164, p. xxx.

[61] Decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 1972, n. 782 Convenzione stipulata il 15 dicembre 1972 tra il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e la RAI-Radiotelevisione italiana, aggiuntiva alla convenzione del 26 gennaio 1952. (Gazzetta Ufficiale.  Serie Generale n.326 del 18 dicembre 1972).

 Cf. https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1972/12/18/072U0782/sg.

[62] La Relazione di Quartulli è un compromesso tra il vecchio assetto e le nuove istanze di pluralismo e decentramento regionale. Favorevole al mantenmento del monopolio di Stato, preconizza l’autonomia del settore radiotelevisivo dal governo e dai partiti della maggioranza. La riforma doveva avere come obiettivo l’indipendenza della RAI dall’esecutivo. La centralità dello stato veniva assicurata dalla presenza di rappresentanti del governo nel consiglio di amministrazione dell’azienda; Le esigenze del pluralismo e decentramento venivano affidato al controllo di una commissione civica di garanzia, emanata dal presidente della Repubblica, del Parlamento, delle regioni e delle organizzazioni socioculturali più rappresentative del paese. Questa nuova commissione era una sorta di “alta magistratura radiotelevisiva” che doveva tutelare la collettività dei cittadini per la soddisfazione dei valori di cultura e democrazia ed essere anche un freno di quelle forze che per il loro potere di pressione, per la posizione dominante, potevano indirizzare il messaggio radiotelevisivo in senso diverso da quello che dovrebbe. La relazione Quartulli era quindi favorevole a mantenere l’assetto storico della radiotelevisione italiana, rendendolo più razionale, efficiente e democratico con la separazione tra i poteri di gestione e quelli di controllo. Per la DC il pregio di questa separazione, era sia giuridico-organizzativo (perché l’azienda avrebbe mantenuto rapporti di equidistanza tra governo e Parlamento e l’intero funzionamento sarebbe stato più razionale ed efficiente) sia politico (perché la DC evitava di mandare in mezzi il vecchio sistema per limitarsi a correggerne le disfunzioni).

[63] Partito Comunista Italiano, Radiotelevisione, informazione e democrazia. Atti del Convegno del PCI tenuto a Roma dal 29 al 31 marzo 1973, Roma, Editori Riuniti, 1973, 545 p.

[64] Vedila pubblicata in: Rai-Tv ieri e domani. Battaglie e polemiche sulla TV e la televisone via cavo, Milano, SugarCo, 1974, 148 p. [la relazione si trova alle pp. 15-24].

[65] Cf. AA.VV., Regioni e riforma Rai-Tv. Atti del convegno di Napoli, Palazzo Reale, 20-.21 ottobre 1972, Napoli, Consiglio Regionale della Campania, 1973, 344 p.

[66] A Sanremo due avvocati si propongono di raggiungere con un’emittente via cavo tutta la Liguria. In Toscana Tele Piombino Costa Etrusca nasce per iniziativa del corrispondente de Il Telegrafo. A Roma lo psichiatra Guglielmo Arceri fonda Tele Roma Cavo. L’intento dichiarato è quello di “sconfiggere la nevrosi”. L’emittente intende contribuire ad una buona educazione sanitaria. A Napoli la Telediffusione italiana dà inizio a sperimentazioni televisive via cavo. Nelle Marche, infine, Tele Ancona-Conero 3 – che vive per l’entusiasmo di un gruppo di giovani guidati da Wiliam di Ferdinando titolare di un’agenzia di pubblicità – trasmette quattro programmi settimanali a carattere sperimentale e un videogiornale dedicato alla vita della città: attualità, cronaca, arte e sport. Il sistema è quello a circuito via cavo. L’emittente è collegata a gran parte dei negozi del centro cittadino che ne tramettono i programmi dai loro televisori.

[67] Il governo, per costringere al risparmio energetico, impone una serie di misure restrittive dei consumi privati: è vietata nei giorni festivi la circolazione delle automobili, l’illuminazione viene ridotta, le insegne dei negozi spente; l’orario di chiusura dei programmi televisivi dei cinema dei bar, dei ristoranti e di tutti i locali pubblici è anticipato alle 23.

[68] Ci sia concesso un riferimento su questo al saggio scritto con il compianto Bino Olivi: La fine della comunicazione di massa. Dal “Villaggio globale” alla nuova Babele elettronica, Bologna, Il Mulino, 446 p.

[69]“1. Chiunque stabilisce ed esercita un impianto di telecomunicazioni, senza prima aver ottenuto la relativa concessione e autorizzazione, è punibile con l’arresto e con l’ammenda da 20 mila a 200 mila lire. 

2. Se il fatto riguarda impianti radioelettrici si applica la pena dell’arresto da tre a sei mesi.”.

3. Se il fatto riguarda impianti di radiodiffusione sonora o   televisiva, si applica la pena della reclusione da uno a tre anni. La pena è ridotta alla metà se trattasi di impianti per la radiodiffusione sonora o televisiva in ambito locale.

4. Chiunque realizza trasmissioni, anche simultanee o parallele contravvenendo ai limiti territoriali o temporali previsti dalla concessione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

5.Il trasgressore è tenuto, in ogni caso, al pagamento di una somma pari al doppio dei canoni previsti per ciascuno dei collegamenti abusivamente realizzati relativamente al periodo di esercizio abusivo accertato e comunque per un periodo non inferiore ad un trimestre. Non si tiene conto nella determinazione del canone, delle agevolazioni previste a favore di determinate categorie di utenti.

6. Indipendentemente dall’azione penale, l’Amministrazione Postale può provvedere direttamente, a spese del possessore, a sigillare o rimuovere l’impianto ritenuto abusivo e a sequestrare gli apparecchi”.

[70] La Voce repubblicana domanda “formalmente al Ministro delle Poste in base a quale criterio, in base a quali direttive e a quali orientamenti maturati dal confronto politico e parlamentare e dalla discussione in atto tra le forze politiche sul problema, egli si è sentito autorizzato a risolvere per suo conto, e alla chetichella, un problema che è ben più grosso e merita un ben altro quadro di soluzione data la sua rilevanza politica”

[71] Giulio Andreotti, I diari degli anni di piombo, op. cit. alla nota 164, p. xxx.

[72] La battuta usata dalle opposizioni fu “Giulio Andreotti inciampò nel cavo di Tele Biella e cadde”.

[73]La procedura ricorda quella avvenuta nel 1915 nei confronti dell’Araldo Telefonico di Luigi Ranieri.

[74] Franco Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della Rai…, op. cit. alla nota 3, p. 165.

[75] Il 25 luglio 1973 Tele Biella ricorre alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee perché si pronunci sulla compatibilità del monopolio Rai con l’Art 86 del Trattato di Roma. Pur essendosi espressi favorevolmente, l’8 novembre 1973, i Servizi giuridici della Commissione Europea, il 30 aprile 1974 La Corte di Giustizia CEE respinge il ricorso di Tele Biella contro il decreto Gioia e il monopolio radiotelevisivo, in quanto il monopolio della Rai non contrasta con le norme del Trattato di Roma.

[76]Franco Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della Rai…, op. cit. alla nota 3, p. 165.

[77] Proposta di legge 10 luglio 1973 sulla Riforma Rai-Tv varata dalle Regioni, approvata dal Consiglo Regionale della Lombardia con modifiche proposte dalla V Commissione del Consiglio Regionale della Lombardia il 19 luglio. Vedila in: Le Tv invisibili.  Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, op. cit alla nota 37, pp. 217-228.

[78] Decreto Legge 20 dicembre 1973, n. 796, Gestione dei servizi di radiodiffusione circolare, di televisione circolare, di telediffusione su filo e di radiofotografia circolare per il periodo 1° gennaio – 30 aprile 1974 (in Gazzetta Ufficiale n.327 del 20 dicembre 1973), convertito in Legge 14 febbraio 1974, n. 10 (in Gazzetta Ufficiale n. 45 del 18 febbraio 1974).

[79] Decreto Legge 30 aprile 1974 n. 113, Gestione dei servizi di radiodiffusione circolare, di televisione circolare, di telediffusione su filo e di radiofotografia circolare. (GU Serie Generale n.112 del 30 aprile 1974) convertito in Legge 27 giugno 1974, n. 245 (in G.U. 28 giugno 1974, n.169).

[80] Il 5 agosto 1974 iniziano le trasmissioni in italiano verso Ventimiglia e Bordighera di Tele Monte-Carlo, il cui capitale è suddiviso tra il gruppo francese Europe 1 (27,5 per cento), l’agenzia pubblicitaria Publicis (22 per cento), il Principato di Monaco (18,5 per cento) e il gruppo Marcel Dassault (18,5 per cento). Per i programmi in Italiano TMC cede l’esclusiva a Opus Proclama, filiale del gruppo Società Pubblica Editoriale (SPE). Stipulerà alcuni mesi più tardi un accordo con Indro Montanelli e la redazione de Il Giornale nuovo per realizzare il telegiornale della nuova emittente.

[81] Vedine un estratto, in Le Tv invisibili, a cura di Flavia Barca, op. cit. alla nota 37 [l’estratto si trova nella terza appendice “Normativa dell’emittenza radiotelevisiva locale in Italia” alle pp. 241-245].

[82] Vedine un estratto in Le Tv invisibili, ibidem [l’estratto si trova alle pp. 247-252].

[83]Milano 2, il quartiere satellite ideato da Silvio Berlusconi, per scelta urbanistica degli architetti progettisti, adotta una rete in cavo coassiale per la diffusione delle televisioni via etere all’interno del quartiere, in modo da evitare l’antiestetico proliferare di antenne. Il cavo coassiale adottato permette la diffusione di un ulteriore canale oltre a quelli già diffusi. Nasce così, per iniziativa dell’editore Giacomo Properzi, l’idea di realizzare una tv via cavo di quartiere, diffusa attraverso la rete già esistente.

[84] Tele Milano Cavo vuole essere una televisione di servizio del quartiere di Milano 2 distribuita via filo alle 1200 famiglie in esso residenti. È finanziata dalla società di produzione svizzera Polivideo (i cui azionisti di maggioranza sono la Televisione della Svizzera Italiana e la Mondadori). Responsabili sono Alceo Moretti e Giacomo Properzi. Trasmette ai residenti film, notiziari e le attività che si svolgevano nel quartiere. Qualche anno più tardi l’emittente comincerà a trasmettere via etere e verrà ceduta a Berlusconi con il nome di Telemilano, poi diventata Canale5, la prima televisione privata con diffusione nazionale.

[85] Il 20 settembre 1974 Il Ministro delle Poste Togni denuncia Tele Firenze Libera alla luce dei nuovi principi indicati dalle recenti Sentenze della Corte Costituzionale. Per Togni “l’iniziativa di Firenze libera appare in contrasto con la riaffermata legittimità della riserva allo stato delle radiodiffusioni terrestri”, riaffermata dalla Corte.

[86] Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, op. cit. alla nota 37 [si vedano nel paragrafo “Dal monopolio all stagione dei Cento Fiori” del primo capitolo le pp. 42-43].

[87] Enzo Scotto Lavina, Tra Sisifo e Nesso. Modelli e strutture editoriali del servizio pubblico televisivo 1954 – 2004, op. cit. alla nota 5.

[88] Ibidem.

[89]Quando Moro, il 25 settembre del 1974, in qualità di ministro degli Esteri, si presentò all’allora segretario di Stato americano, dall’entourage di Kissinger avrebbe ricevuto questo avvertimento perentorio. Fu Corrado Guerzoni, portavoce di Aldo Moro, in una testimonianza giurata in sede processuale ai terroristi delle Brigate Rosse, a raccontare quel colloquio con Kissinger, avvenuto a margine di una cena ufficiale a Washington. Guerzoni spiegò che Kissinger sostenne che l’allargamento della maggioranza di governo italiana a tutti i partiti non era per gli Stati Uniti d’America una strada praticabile.

[90] Nel giro di pochi mesi, i fratelli Marcucci, dopo aver dato vita nell’ottobre 1975 a TVS Telexpress in seno alla  Società Impianti Televisivi (SIT) usufruendo delle infrastrutture tecniche già presenti in molte aree del territorio nazionale (Lombardia, Veneto, Liguria, Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Puglia), faciliteranno la creazione di altre emittenti locali, fra le quali si segnalano: Tele Nord Milano; Tele Radio Express a Genova; Telexpress 2 a Bologna; Tele San Marco a Padova; Tele Sud a Napoli; Teledue a Torino; Tele Urbe a Roma che trasformano TVS Telexpress nella prima rete televisiva privata italiana operante su scala nazionale.

[91] Il 22 ottobre 1974 l’ANTI invia una petizione ai presidenti di Camera e Senato per sollecitare la regolamentazione in materia di radiodiffusione e televisione.

[92] A Roma, il 7 novembre 1974 iniziano le trasmissioni di Tele Trastevere. Otto giorni dopo a Modena, il 15 novembre, quelle di Qui Tele Modena. Infine a fine mese Tele Reggio Emilia. L’emittente copre solo due quartieri del centro storico.

[93] Enrico Menduni, Televisione e società Italiana, 1975-2000, op. cit. alla nota 6.

[94] Vedilo riprodotto da Manlio Cammarata nel suo sito MCreporter.

Cf. https://www.mcreporter.info/normativa/dl74_603.htm.

[95] Gli introiti dell’Azienda ammontano a 217 miliardi di lire (58,99 per cento da canone, 36,60 dalla pubblicità, 4,41 per cento per introiti diversi). L’incremento degli introiti è stato di 15,5 miliardi per gli abbonamenti e di 11 miliardi di pubblicità. Nel complesso la quota degli introiti pubblicitari passa dal 26,6 per cento nel 1964 al 36,6 per cento nel 1974 

[96] Il 23 novembre 1974 nasce per iniziativa della cooperativa “lavoratori dell’informazione” promossa da Roberto Faenza, Radio Bologna, prima emittente locale bolognese, seguita da Radio Parma. Radio Bologna dà inizio a una settimana di trasmissioni dimostrative in cui chiede un vero e proprio decentramento dell’informazione radiotelevisiva. Per dimostrare una possibile realizzazione, trasmette servizi registrati su cassette, provenienti da tutte le parti d’Italia, soprattutto da “fabbriche e scuole dove si sta portando avanti una lotta”. 

[97] Nel mese di novembre del 1974 Veniero De Giorgi, presidente della FIET, cita in tribunale Franco Carraro presidente della Lega Calcio professionisti e Ugo Cestani, della Lega semi professionisti, che avevano venduto alla Rai l’esclusiva del diritto di ripresa delle partite nel 1974/75 per 860 milioni di lire, per violazione del diritto di informazione. Per De Giorgi “si esercita un abuso limitando il diritto di cronaca e impedendo la libertà di informazione”. La Lega calcio nega alle televisioni via cavo l’ingresso negli stadi ritenendo la partita uno spettacolo, come tale non riconducibile al diritto di cronaca. Una sentenza della Cassazione del 1963 prevedeva che Il CONI nell’ambito dei recinti cui si accede mediante biglietti di ingresso (stadi, teatri, campi sportivi, piscine, eccetera) “può inibire, o condizionare al suo assenso, le riprese fotografiche o cinematografiche da parte dei telespettatori, siano essi dei semplici dilettanti o dei professionisti”.

[98] Le centrali dell’Associazionismo Associazione Ricreativa Culturale Italiana-Unione Italiana Sport per Tutti (ARCI-UISP), l’Ente Nazionale Ricreazione Sociale (ENARS) delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) e infine l’Ente Nazionale Democratico di Azione Sociale (ENDAS) si riuniscono il 28 novembre 1974 per un convegno unitario sul tema: Televisione via cavo e partecipazione. Nella relazione introduttiva, Dante Cerquetti dell’Endas a nome delle tre associazioni, esprime un “giudizio sostanzialmente positivo per tutto ciò che la bozza d’accordo per la riforma della Rai-Tv ha recepito delle esigenze e delle posizioni delle forze politiche e sociali che hanno costituito lo schieramento riformatore”. Il segretario generale della Federazione italiana postelegrafonici Aldo Bonavoglia svolge una relazione particolareggiata “sugli aspetti tecnici ed economici della tv via cavo”, affermando in conclusione come sia “importante che le reti di comunicazione restino in mano pubblica e che le Regioni garantiscano trasmissioni di interesse collettivo”. Sugli aspetti giuridici della tv via cavo, parla Franco Bassanini, docente all’Università di Firenze. Seguono interventi di Vito D’Amico (Pci), Leonello Bignami (della Federazione Sindacale), Gaetano di Marino (Pci) e Carlo Fracanzani (Dc).

[99] Il 18 gennaio 1975, non essendo stato convertito in legge il precedente decreto del 30 novembre 1974 per la normativa delle radiodiffusioni in Italia, a fronte di alcune richieste di modifica  dei comunisti e dell’ostruzionismo del MSI-DN che si riteneva discriminato nella costituzione degli organi di controllo, il Consiglio dei Ministri emana un nuovo Decreto-legge 22 gennaio 1975, n. 3.contenente Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva in base al quale viene rinnovata la Convenzione Rai Stato Il testo del decreto era stato precedentemente inviato il 21 gennaio sera alla firma del capo dello Stato, e il 22 presentato alla Camera dei Deputati.

[100] Il 18 marzo 1975 il governo è costretto ad assicurare un’ulteriore proroga della Convenzione con la Rai attraverso il Decreto legge 18 marzo 1975, n. 51 che detta Disposizioni urgenti in materia di servizi di telecomu­nicazioni.

[101] Il 15 gennaio 1975 iniziano le trasmissioni di Tele Livorno Libera TVL. Tra i fondatori il futuro sottosegretario alle comunicazioni e poi ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani.

[102] Citato alla nota 224.

[103] Legge 14 aprile 1975, n. 103 Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva. Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 102 del 17 aprile 1975, ed entrata in vigore il giorno successivo. Cf. https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1975/04/17/102/sg/pdf.

[104] L’art. 15 del nuovo Statuto modifica i criteri di nomina e di composizione del Consiglio di Amministrazione. Il Consiglio è costituito di 16 membri: 10 sono eletti dalla Commissione parlamentare. Di questi dieci membri, quattro sono eletti sulla base delle designazioni effettuate dai Consigli regionali. All’assemblea dei soci, ossia all’azionista IRI, oltre a proporre il Direttore Generale, rimane il compito di indicare i rimanenti sei consiglieri di amministrazione.