Il punto di vista

Democrazia Futura. L’effetto Draghi su quel che resta dei partiti

di Carlo Rognoni, giornalista, ex vicepresidente del Senato, già consigliere di amministrazione della Rai |

Un futuro al Quirinale o candidato premier a capo di una Costituente Riformista?

Dopo l’analisi politologica sui partiti “pigliatutti” del professor Pasquino su un altro registro Carlo Rognoni prosegue il dibattito su Democrazia futura chiedendosi quale sia “L’effetto Draghi su quel che resta dei partiti”. “Come in una partita di scopone il giocatore primo di mano sta sparigliando le carte per mettere in difficoltà gli altri, così il mazziere Draghi – ottenendo praticamente il consenso di quasi tutte le forze in campo – ha sparigliato le carte nel gioco della politica. E il risultato è straordinario, ha dell’incredibile, sta costringendo tutti i giocatori. […] il primo effetto Draghi – chiarisce Rognoni- è di aver creato le condizioni non solo e non tanto per dare a un governo – più forte e decisionista di prima – la possibilità di fare quelle scelte prioritarie per ottenere i fondi europei ma anche per dare il tempo a tutti di provare a ristrutturare, riorganizzare, rifondare, la propria forza politica in vista di un appuntamento elettorale”. L’articolo prosegue proponendo di “ripensare la sinistra” intorno a dodici punti che “potrebbero essere la base per lanciare la proposta di una Costituente riformista […] Si dice che nel 2022 quando il presidente Mattarella avrà finito il suo settennato, il suo posto potrebbe essere preso da Draghi. Ma se invece Draghi continuasse a fare il premier? E’ un desiderio espresso da diverse forze riformiste […] Chi ricorda il discorso di Draghi alle Camere non può ignorare che il contenuto europeista e riformista che ha espresso in quella sede prima di essere votato da una larghissima maggioranza, potrebbe davvero fare di lui il premier di una forza riformista larga, che abbracci tutte le forze che oggi si dichiarano riformiste”. 

Per la vita dei partiti – forse sarebbe più giusto dire per la loro sopravvivenza – c’è un prima e un dopo Draghi.

Se Sergio Mattarella non avesse avuto l’idea di dare a Mario Draghi l’incarico di formare un nuovo governo dopo che il Conte 1 e il Conte2 avevano esaurito di fatto la carica (se mai l’avevano avuta), oggi avremmo a che fare con partiti – usciti dal contraddittorio risultato elettorale del 2018 – più che mai esausti e soprattutto confusi, i loro parlamentari li continueremmo a vedere in gran parte attaccati alla poltrona ma senza idee, non dico vincenti, ma neanche solo banalmente in sintonia con il tentativo di affrontare le grandi crisi che stiamo attraversando, dalla sanità all’economia, alla crisi climatica, passando per la scuola, per le crescenti diseguaglianze sociali. Avremmo corso il rischio di veder buttare via, al vento, la grandissima opportunità che ci sta offrendo l’Europa con fondi per la Next Generation Eu, per il Recovery Plan, per il Pnrr, il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza. Non dimentichiamo che per la sola Italia ci sono in ballo più di 200 miliardi da investire nella speranza di risollevare il Paese. Visto che il Covid-19 ci costringe a viverci come in una guerra infinita abbiamo davanti la sola prospettiva di una specie di Piano Marshall Due, questa volta messo in campo da Bruxelles e non da Washington.

Come in una partita di scopone il giocatore primo di mano sta sparigliando le carte per mettere in difficoltà gli altri, così il mazziere Draghi – ottenendo praticamente il consenso di quasi tutte le forze in campo – ha sparigliato le carte nel gioco della politica. E il risultato è straordinario, ha dell’incredibile, sta costringendo tutti i giocatori a ripensare al proprio ruolo.

E’ davvero una conclusione che fino a poche settimane fa era impensabile, ma una maggioranza – come non si era mai vista – oggi appoggia il governo voluto dal Presidente della Repubblica. All’opposizione è rimasta solo una formazione, quella di Giorgia Meloni con il suo Fratelli d’Italia, un partito di destra, ex fascista. E un primo risultato è che il centro destra che c’era fino a ieri, prima di Draghi, non esiste più. Per consolarsi ripetono fin alla nausea che quando si tornerà a votare loro rimetteranno insieme i cocci, dalla Lega di Matteo Salvini a Forza Italia di Silvio Berlusconi passando da Cambiamo del ligure Giovanni Toti per arrivare a Fratelli d’Italia. Intanto, tuttavia, Giorgia Meloni capitalizza il fatto di essere l’unica forza all’opposizione, l’unica leader “apparentemente” coerente con la storia del suo partito, “apparentemente coerente” perché in fondo il legame con gli eredi di Benito Mussolini, con i nuovi estremisti della destra estrema, sembra costringerla a differenziarsi per non “spaventare” oltre misura l’elettorato. Il tempo scorre e le divisioni, le ragioni per polemizzare fra i vari partiti di centro destra, aumentano non diminuiscono affatto.

A sinistra il quadro politico è perfino più confuso, non è certamente entusiasmante, e non mi azzarderei a dire che sia convincente. All’estrema sinistra LEU si è spaccata (da una parte i Bersaniani di Articolo 1 con il centrocampo tenuto bene dal ministro della Sanità Roberto Speranza, dall’altra Sinistra italiana con i compagni di Nicola Fratoianni, isolati e unici con la Meloni contro Draghi), il Pd ha dovuto in tutta fretta cambiare segretario ed Enrico Letta ha ereditato da Nicola Zingaretti un coacervo di correnti e correntine che sta incontrando a una a una. E poi verso il centro della sinistra del Pd un arcipelago di tante piccole forze che vanno da Italia Viva di Matteo Renzi, ad Azione di Carlo Calenda, dall’associazione che fa riferimento all’ex sindacalista Marco Bentivogli, ai socialisti o per lo meno a quello che resta di loro, a Emma Bonino, ex di +Europa, e, infine, ai verdi.

Non so dove immaginare di piazzare i Cinquestelle, se più a destra o più a sinistra. Cento di loro se ne sono andati, infoltendo le file di altri partiti e soprattutto del Gruppo Misto. E Giuseppe Conte – per ora con la benedizione dell’Elevato Beppe Grillo – sta tentando di rimettere in piedi un Movimento, o forse sarebbe meglio dire che sta tentando di creare un nuovo partito. La vocazione di Conte – che ha tutte le caratteristiche fisiche e culturali di un vecchio democristiano – sembrerebbe essere quella di dialogare con Enrico Letta. E non c’è dubbio che una alleanza fra Pd e Nuovo Cinquestelle potrebbe perfino avere un senso in vista di una prossima sfida elettorale.

Sotto il profilo organizzativo i Cinquestelle “sono una riedizione del prototipo berlusconiano del partito personale, con l’innesto della piattaforma Rousseau al posto dell’intelaiatura aziendale di Fininvest e Publitalia, che consentì al Cavaliere di dare un’ossatura alla propria creatura. Ora che quel mix di successo si è trasformato in una frittata, quali cocci vanno rimessi insieme e quali gettati alle ortiche?[1]”.

Mi pare fondamentale che Letta abbia chiarito (a) che l’alleanza Pd – M5S non è una scelta strutturale (b) che la prospettiva non è quella di dipendere dai Cinquestelle, bensì quella di lavorare insieme per provare a vincere le elezioni, prima quelle amministrative e poi semmai quelle nazionali. Dipenderà molto dalla legge elettorale. E per il sindaco di Roma dipenderà dalla volontà di Grillo che ha cercato di imporre Virginia Raggi per un secondo mandato di sindaco, quando il Pd considera la strada delle primarie – anche di coalizione – visto che pensa che l’attuale sindaco abbia alle spalle un’esperienza fallimentare.

Insomma, il primo effetto Draghi è di aver creato le condizioni non solo e non tanto per dare a un governo – più forte e decisionista di prima – la possibilità di fare quelle scelte prioritarie per ottenere i fondi europei ma anche per dare il tempo a tutti di provare a ristrutturare, riorganizzare, rifondare, la propria forza politica in vista di un appuntamento elettorale. E la data si avvicina. Sicuramente le elezioni sono oramai irrinunciabili entro il 2023. Ma la data potrebbe essere anche anticipata di un anno, se nel frattempo si vuole eleggere un presidente della Repubblica che erediti il Quirinale gestito da Sergio Mattarella e se si pensa che proprio Mario Draghi potrebbe essere il prossimo inquilino del Quirinale.

Questa scommessa sul futuro della politica può essere vinta solo se tanti – se non tutti – hanno la consapevolezza che la crisi dei partiti è strutturale, non è una emergenza momentanea, ma una condizione che sembra essere irreversibile. E se si capisce che la messa in mora della democrazia rappresentativa porta diritti alla crisi della democrazia tout court.

Non sprechiamo questa crisi: è il titolo azzeccato di un libro uscito nel 2020[2] dalla Laterza e scritto da Mariana Mazzucato, economista, professoressa all’University College London. Fin dal primo capitolo l’autrice mette i piedi nel piatto: “La crisi del Covid-19 è un’occasione per cambiare il capitalismo”. Non il semplice governo, ma addirittura il capitalismo. Quella che stiamo vivendo è una guerra “contro la diffusione del virus!” ma anche contro “il tracollo economico”. Scrive la Mazzucato: “Occorre ripensare il ruolo dello Stato: anziché limitarsi a correggere i fallimenti del mercato quando si verificano, i governi dovrebbero assumere un ruolo attivo plasmando e creando mercati che offrano una crescita sostenibile e inclusiva, oltre a garantire che le partnership con le imprese in cui confluiscono fondi pubblici siano guidate dall’interesse pubblico, e non dal profitto”.

E’ giunto il momento di mettere in pratica la dura lezione della crisi finanziaria del 2008. E Mariana Mazzucato scrive: “Quando le aziende – dalle compagnie aeree alla grande distribuzione – si fanno avanti con richieste di salvataggio e altre forme di assistenza è importante non limitarsi a distribuire denaro. Si possono dettare condizioni affinché i salvataggi siano strutturati in modo da trasformare i settori destinatari degli aiuti, portandoli a far parte di una nuova economia, incentrata sulla strategia del Green New Deal di ridurre le emissioni di carbonio, investendo al tempo stesso sui lavoratori per aiutarli a adattarsi alle nuove tecnologie. E bisogna farlo adesso, “fintanto che lo Stato si trova in posizione di forza”. “Sfruttiamo questo momento per ripensare il sistema capitalistico. Con un approccio che restituisca centralità a tutte le parti in causa”. Non permettiamo che questa crisi vada sprecata. Solo quei partiti che matureranno la consapevolezza che stiamo attraversando una triplice crisi – quella sanitaria che ha ripercussioni enormi sull’economia e la finanzia e che si gioca sullo sfondo di una crisi climatica che non può essere affrontata con un approccio vecchio e ripetitivo – possono sperare di tornare a essere punti di riferimento della società, possono sperare di rinascere e rilanciarsi.

Maurizio Ferrera, sociologo e professore universitario di scienze politiche, ci sta aiutando con i suoi scritti a tornare a ragionare di Politica, quella con la P maiuscola. Prendendo lo spunto da due libri appena usciti (uno già tradotto in italiano: La nuova lotta di classe. Elite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia[3] e uno in inglese: Democracy and Prosperity. Reinventing Capitalism through a Turbulent Century[4]) Ferrera scrive nel supplemento domenicale del Corriere della Sera: La seconda metà del XX secolo ha addomesticato il conflitto di classe, temperando il capitalismo con la democrazia e il welfare. Con l’inizio del nuovo secolo, l’equilibrio tra questi tre elementi ha iniziato a vacillare. La ragione sta essenzialmente nell’indebolimento del contenitore: lo Stato nazionale. La globalizzazione e l’apertura dei mercati hanno rimosso confini e barriere regolative territoriali. La delega di poteri e funzioni alle istituzioni internazionali e all’Unione Europea, i vincoli di bilancio e le riforme strutturali necessarie per mantenere competitività di sistema hanno causato profondi rivolgimenti nella struttura economica. L’esito complessivo di questi processi è stato un forte aumento delle diseguaglianze e della insicurezza sociale[5].

Non c’è proprio da meravigliarsi se in questo quadro il conflitto politico è cresciuto, i partiti sembrano girare a vuoto, incapaci di dare risposte realistiche e concrete anziché nascondersi dietro coazioni a ripetere di vecchie ricette, o peggio dietro demagogie d’accatto.

Ripensare la Sinistra intorno a dodici punti

Recentemente mi è capitato di partecipare a un incontro con l’obiettivo di cercare di “ripensare la Sinistra”. Ed ecco i punti che ho sviluppato nel mio ragionamento.

1.   snobbare l’idea di una leadership forte, condivisa, è sbagliato. La sinistra come la destra hanno bisogno oggi di un leader riconoscibile, capace, informato, più forte se condiviso, sensibile all’innovazione, radicale nei valori e al tempo stesso moderato nelle scelte.

2.   La sinistra può vincere se va verso il centro, sia pure puntando sui suoi valori storici, tradizionali, ben sintetizzati dall’articolo 3 della Costituzione. Vogliamo ricordarlo? “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E poi: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

3.   Ci sono troppe sinistre e uno dei primi obiettivi dovrebbe essere quello di ridimensionare la frammentazione della sinistra. Come? Vanno individuati, per esempio, tre punti unificanti e condivisibili: la scuola, l’ambiente, la lotta alla disuguaglianza.

4.   Oggi come non mai quel che serve è “una sinistra europea”. Una sinistra europea deve essere intransigente e radicale sui suoi principi fondamentali, ma aperta e innovativa e moderata nei metodi e nei provvedimenti. Occorrerebbe promuovere Europe First, con politiche industriali che rafforzino le capacità competitive delle imprese europee e politiche sociali che garantiscano protezione e riqualificazione ai e dei lavoratori europei.

5.   Sono necessarie riforme istituzionali/costituzionali? Si. E vanno affrontate con determinazione ma anche con senso della realtà. Vince su tutti la strategia di “un passo alla volta”.

6.   Le colonne portanti di una nuova e moderna sinistra europea dovrebbero essere: l’uguaglianza delle opportunità; la libertà; la tolleranza; la solidarietà; fare sviluppo sostenibile; aprire varchi alla speranza politica e civile. Da qui passa la difesa della democrazia che oggi è sotto schiaffo.

7.   Oggi destra e sinistra tendono ufficialmente ad accettare l’esistenza della democrazia liberale, ovvero un sistema politico-sociale che riconosce l’iniziativa privata in campo economico e la democrazia rappresentativa in quello politico. La differenza è nelle scelte delle priorità e soprattutto dei mezzi necessari alla realizzazione degli obiettivi primari.

8. Quanto pesa la rivoluzione tecnologia sulla politica? La tecnologia è cambiata ma la verità più profonda è che noi stiamo cambiando.

9.  Come mai la sinistra del lavoro appare marginale, e vincitori sono i nuovi ceti produttivi dell’informazionalismo? Il popolo dell’innovazione sembra ignorare la politica. La presenza di una stabile organizzazione di sinistra sembra essere inversamente proporzionale al crescere dei processi tecnologici e culturali dell’innovazione. La rete per chi vota? “Il popolo del rancore” detta i ritmi e le regole del presente. La sinistra come storicamente si è affermata non è più sincronizzata con il senso comune della società digitale. Che pone al centro della contesa sociale il sapere e non più la difesa del lavoro. Il volano di ogni trasformazione è proprio la tecnologia. Nel momento in cui la conoscenza diventa una forza produttiva a sé stante, enormemente più importante del lavoro impiegato per creare una macchina, la grande questione non è più salari contro profitti, ma chi controlla la potenza del sapere.

10. Quello del partito è un tema che sembra stridere con il mondo della rete. Se con i nostri big data sappiamo tutto, che bisogno c’è della politica e della democrazia?” La Rete con il suo “ribellismo molecolare” chiede partiti, ma non il Partito, non più il Principe ma un originale tipo di organizzazioni liquide. Il partito moloch si inabissa perché si frantuma la madre di tutti i partiti: la grande fabbrica fordista. Entra in scena l’algoritmo, sistema intelligente di calcolo e previsione dei comportamenti e delle relazioni. Si accorciano le distanze fra base e vertice, fra mediatori e mediati, fra governanti e governati, i saperi si condividono, le competenze si scambiano, le informazioni si intrecciano. Di fronte alla pressione di un’opinione pubblica non più massa uniforme, ma moltitudine di individui, con identità, profili professionali, interessi e ambizioni caleidoscopiche differenti se non proprio contrapposti, il partito non trova più le affinità da organizzare, ma si vede circondato dalle differenze e perde la bussola.

11. La macchina capitalistica non è fatta di ferro e sudore, ma di calcoli e di saperi. Non è più il lavoro la base sociale. Uno spettro si aggira per il mondo: il non partito. E di conseguenza la non democrazia, e anche la non politica. Il linguaggio di questa nuova storia è l’informazione. Il modello del partito al tempo della rete è “un partito momentaneo”. Un partito momentaneo è un’organizzazione che orchestra le differenze per creare occasionali masse critiche. Si sbriciolano le identità di massa e si affermano pulviscolari istinti individuali. Oggi non è la catena di montaggio l’emblema della produzione sociale quanto la portabilità delle relazioni sociali veicolate e ordinate dallo smartphone.

12. Lavori individuali, consumi personali, partiti molecolari. Strade diverse che cercano semplicemente di trasferire i vecchi modelli organizzativi e leaderistici nei nuovi contesti digitali sono tutte dissestate. La rete non è megafono unidirezionale ma piattaforma di relazioni e di sussidiarietà politica. Oggi ci sono le armi per dare al tema di una democrazia permanente e calcolante quella base di consapevolezza, di saperi, e una coerente organizzazione. Una cassetta degli attrezzi che renda la politica un’attività per cui, rovesciando la feroce metafora di Oscar Wilde, valga la pena di perdere le proprie serate.

Quale futuro per Draghi: al Quirinale o candidato premier a capo di una Costituente Riformista?

Alcuni di questi dodici punti potrebbero essere la base per lanciare la proposta di un Costituente Riformista? E’ un’idea che è stata fatta propria da alcuni membri di quel arcipelago di riformisti che ruota intorno ma anche dentro il Pd, come Italia Viva, come Azione di Calenda, come l’ex +Europa della Bonino, come Marco Bentivogli, che si è inventato Base democratica e gruppi dello stesso Pd – penso a Giorgio Gori, penso a Enrico Morando, Giorgio Tonini e Stefano Ceccanti.

Si dice che nel 2022 quando il presidente Mattarella avrà finito il suo settennato, il suo posto potrebbe essere preso da Draghi. Ma se invece Draghi continuasse a fare il premier? E’ un desiderio espresso da diverse forze riformiste. Rimettere in sesto il centro sinistra non solo non è un’operazione semplice ma è una strada tutta in salita, piena di curve e che realisticamente avrebbe bisogno possibilmente di più tempo per maturare.

Chi ricorda il discorso di Draghi alle Camere non può ignorare che il contenuto europeista e riformista che ha espresso in quella sede prima di essere votato da una larghissima maggioranza, potrebbe davvero fare di lui il premier di una forza riformista larga, che abbracci tutte le forze che oggi si dichiarano riformiste.

Penso che in molti si siano domandati come ha fatto allora Matteo Salvini, con la sua Lega, a digerire quel discorso. Oggi che continua nervosamente ad attaccare il bravo ministro della Sanità, Roberto Speranza, cercando disperatamente di comunicare ai suoi fedeli elettori che lui resta diverso, fa capire che tutto potrebbe accettare ma solo fino al 2022 quando si libererà lo scenario presidenziale, per poi andare a votare. E Salvini, forse, potrebbe perfino votare Draghi al Quirinale in cambio di immediate elezioni. Quello che a me sembra molto improbabile è che Salvini accetti che Draghi diventi il candidato premier di un centro sinistra rinato e riformista (ammesso che il centrosinistra sia capace di fare questa scelta e intuisca che per vincere contro le destre questa con Draghi sia la strada più rettilinea).


[1] Mauro Calise, “M5S, Conte tra digitale e tabù”, Il Mattino, 5 aprile 2021.

[2] Mariana Mazzucato, Non sprechiamo questa crisi, Roma-Bari, Laterza, 2020.

[3] Michael Lind, La nuova lotta di classe. Elite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia, Roma, Luiss University Press, 2020. Edizione originale: The new Class War. Saving Democracy from the Managerial Elite, London, Penguin Putnam inc. 2020, 224 p.

[4] Torben Iversen, David Soskice, Democracy and Prosperity. Reinventing Capitalism through a Turbulent Century, Princeton, Princeton University Press, 2019, 360 p.

[5] Maurizio Ferrera, “La guerra (fredda) di classe” Corriere della Sera, 4 aprile 2021 (supplemento La Lettura)