L'info-politica

Democrazia Futura. L’apparizione di Mario Draghi, una meteora o una stella cometa?

di Guido Barlozzetti, conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore |

Se da un lato non è dato sapere in che misura “sia l’emergenza che costringe il potere a un cambiamento di stato e quanto invece sia il potere che approfitta dell’emergenza per ristrutturarsi”, una cosa è certa, “Mario Draghi […] ha introdotto una discontinuità nel gioco della politica e della comunicazione.

Dopo quella di Stefano Rolando, segue su Democrazia futura una seconda lunga analisi di Guido Barlozzetti sul cambio di paradigma adottato da Draghi sotto il profilo della comunicazione, in cui lo scrittore orvietano si avventura in una complessa quanto accattivante analisi tanto linguistico strutturale quanto socio comportamentale delle prime dichiarazioni e conferenze stampa del Presidente del Consiglio. La tesi di Barlozzetti è che se da un lato non è dato sapere in che misura “sia l’emergenza che costringe il potere a un cambiamento di stato e quanto invece sia il potere che approfitta dell’emergenza per ristrutturarsi”, una cosa è certa. “Mario Draghi […] ha introdotto una discontinuità nel gioco della politica e della comunicazione. Trattasi di “Un meteora o una stella cometa?” come si intitola il lungo pezzo. Barlozzetti non risponde con precisione ma lascia intravedere una predilezione per la seconda ipotesi. “L’apparizione di Mario Draghi nell’info-politica italiana ed europea rappresenta un inedito banco di prova anche per il connubio ormai strutturale tra informazione e politica, e cioè tra una forma di governo segnata da problemi che potrebbero addirittura metterla in discussione e un sistema dei media in cui la centralità televisiva e il comparto della stampa si vanno sempre più ricontrattando con la galassia della comunicazione on-line e dei social”. In primis il pezzo analizza “L’attesa e la speranza del Salvatore” che appare come “l’ultima carta da giocare” descrivendo i tratti di quello che definisce “un altro Migliore – del precedente [l’ex premier Giuseppe Conte ndr] si è persa ormai la memoria  – uno che ha la storia, i saperi e gli attributi – non deve mancare nulla – per tirarci fuori dal doppio contagio di una democrazia malata e di un virus che non si arresta e sta schiantando l’economia”. Definito l’ultimo asso nella manica del Presidente Mattarella Draghi assume le sembianze de“Il Terzo, non compromesso, aureolato, a cui tutti sono costretti a delegare il potere [… ] “Draghi non parla. A parte le comunicazioni dovute al Parlamento, bisogna aspettare quasi un mese per vederlo partecipare a una conferenza-stampa non appartiene a questa compagnia di giro dello show mediatico e il suo silenzio ci diventa la garanzia di un lavoro indefesso e illuminato svolto dietro le quinte. “Mario” non ha bisogno di dire e di farsi vedere, così tanto per far sapere di esserci, per conquistare un palcoscenico della visibilità di cui non ha bisogno, perché non l’ha mai perseguito […]”.

Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

Mario Draghi spariglia il gioco? Comunque e qualunque sia l’evoluzione di ciò che sta accadendo in Italia, ha introdotto una discontinuità nel gioco della politica e della comunicazione che le è così consustanziale?

In cosa consista questo differenziale, quali ne siano le manifestazioni  e gli effetti è  un tema su cui non si va a decidere  solo il destino di un governo. Draghi a Palazzo Chigi rappresenta un inedito banco di prova anche per il connubio ormai strutturale tra informazione e politica, e cioè tra una forma di governo segnata da problemi che potrebbero addirittura metterla in discussione e un sistema dei media in cui la centralità televisiva e il comparto della stampa si vanno sempre più ricontrattando con la galassia della comunicazione on-line e dei social. Che Draghi non sia anche il sintomo, se non di una svolta, di un passaggio che molto incuriosisce ancorché allo stato delle cose imprevedibili nei suoi esiti.

Per questo, fin da questo incipit, è il caso di fare una precisazione.  Stiamo scrivendo ora, a due mesi e mezzo dal 13 febbraio 2021,  quando il governo presieduto dall’ex governatore della BCE ha prestato giuramento. Non possiamo sapere cosa accadrà di questa esperienza e della condizione del Paese, presa in un’emergenza drammatica e rispetto alla quale dicastero-Draghi è arrivato con il sostegno potente di un’immagine di autorevolezza del suo titolare e, quindi,  un carico di attese… risolutive  ancorate alle virtù del premier designato. Non lo sappiamo e tuttavia anche in un così breve lasso di tempo si lasciano riconoscere elementi che non appartengono solo al piano congiunturale.

Draghi non è una figurina dell’album dell’effimero, per il credito al momento impareggiabile e per come si è annunciato sulla scena politica del Paese.

Dunque, di questa “novità” vorremmo parlare, nei suoi diversi aspetti, così dirompente che, a questo punto, più di un segnale dice di come sia già costretta a confrontarsi con l’usura che viene dall’accumulo dei giorni e dal gioco stressato tra attesa e risultati. Una condizione alimentata da una doppia spirale che continua ad avvolgersi in tempo reale  fra la bulimia dell’informazione, alla ricerca sempre di titoli clamorosi che durano un giorno, e l’asticella alta delle aspettative. Stiamo parlando di un rapporto di interdipendenza sullo sfondo del quale si erge, da più di un anno, il convitato di pietra del Covid-19 che, insieme a tutto il resto, ha contagiato anche l’informazione o, forse, ne ha ancor più esplicitato le pulsioni, accese da un marketing dell’ansia e dell’incertezza.

Del tutto inatteso e venuto dall’esterno, quello spettro è stato subito filtrato e semantizzato  in una deriva mediatica su cui sarà il caso ovviamente di approfondire e che, comunque, ha finito per enfatizzare tratti ormai consolidati come la Babele delle opinioni che giocano a dire l’una il contrario dell’altra, il sensazionalismo allarmato e allarmante, la mancanza di quadri condivisi e validati di riferimento.

Mario Draghi si è presentato con alcune novità che per il loro impatto iniziale sono state ricondotte a una discontinuità rispetto alle prassi consolidate. Tutto da vedere, poi, cosa significhi questa rottura, se abbia un respiro congiunturale o se, invece, sia la spia di un cambiamento strutturale, di un cambiamento che prelude in ogni caso a una ricomposizione diversa nel rapporto potere e cittadini.

E, ancora, se certi comportamenti appartengano alla dimensione dello “stile” – che non va mai sottovalutato ed è comunque anch’esso indizio di … altro, sia sul piano simbolico, sia su quello analitico  – oppure segnalino un mutamento che va oltre e sta nello “spirito del tempo” oppure  una soglia su cui nella continuità della crisi di un modello  si produce un cambiamento?

Insomma, ci occuperemo di comunicazione, anzi dell’“agire comunicativo” – come si dice tecnicamente – e cioè anzitutto i modi in cui il Presidente del Consiglio ha stabilito un rapporto con il sistema dei media, con le istituzioni e con il Paese, in che modo cioè  si sia dato come soggetto di un discorso che si è manifestato con una diversità, e che vorremmo cogliere nella complessità compresente degli elementi che ne fanno parte.

Al tempo stesso, qualunque ragionamento sulle modalità, i tempi e i piani della comunicazione non potrà non riguardare il livello dell’immagine, un campo che in questi anni si è intrecciato strutturalmente con la politica, così profondamente coinvolta in un processo di costruzione-amplificazione della propria visibilità da generare un dibattito problematico e preoccupato sul suo stesso ruolo, sulle modalità di legittimazione, sul tema della rappresentanza e del rapporto con i cittadini, sulla retorica dell’essere/apparire, sulla modalità in cui si strutturano i processi decisionali, sul valore della competenza…

Tematiche diverse ma tutte, alla fine, convergenti sulla questione fondamentale e ormai ineludibile della democrazia e sul suo cambiamento in corso: non è certamente un caso che l’emergere di intenzionalità inedite – come il “populismo” e il “sovranismo” – sia avvenuto proprio in concomitanza con la trasformazione radicale delle soggettività della politica, con l’accentuarsi del leaderismo di contro alla filiera raccolta attorno alla forma-partito, dunque con una fortissima personalizzazione in cui la comunicazione non è stata solo un’appendice ma una componente strutturale della politica stessa, tale da orientare e incidere su sistemi di valori,  procedure e esiti.

Questa interazione/interferenza fa sì che il soggetto che chiamiamo “Draghi” si vada a configurare come un campo di osservazione in cui – come un frattale -vanno a interferire le diverse dinamiche accennate e, al tempo stesso, come un effetto/laboratorio che si allarga alla dimensione complessiva del sistema.  Insomma, dal contesto al testo “Draghi” e dal testo “Draghi” al contesto.

D’ora in avanti, in questo senso verrà sempre citato tra virgolette, per sottolineare che si sta parlando a un livello di secondo grado, della sua immagine prodotta e percepita, di quello che di lui racconta l’informazione, e dell’oggetto/soggetto di un discorso che si dà nei termini di  una narrazione. Ambiti e approcci che non sono separati ma, nella differenza degli approcci si sovrappongono e si integrano.

In ogni caso, un discorso e una narrazione circoscritti a questa parte iniziale del cammino presidenziale di “Mario Draghi”.

L’attesa e la speranza del Salvatore

Qualunque cosa accada, sono oggettive l’attesa e la speranza ottimistica che “Draghi” ha acceso (1).

La sua entrata in scena è stata percepita e salutata come un passaggio che lascia, o si spera lasci alle spalle, il cortocircuito di una situazione e apra finalmente alla tanto auspicata e sempre delusa speranza di un cambiamento, il tutto nella cornice angosciante e predisponente del virus. Senza il contagio del Covid-19 difficilmente avremmo visto Mario Draghi a Palazzo Chigi.

Un’entrata in scena diversa, si è detto, ma – va sottolineato – secondo un vezzo che si è replicato in questi anni e che, a ben guardare, ha radici tutt’altro che recenti.

Quanti “salvatori” abbiamo visto apparire e poi bruciarsi?

A quanti ci siamo consegnati come all’ultima spiaggia dalla quale finalmente ricominciare, salvo poco dopo vederli trangugiati dalle faide delle fazioni e  trasformati in capri espiatori da mandare il prima possibile a casa?

E’ successo, nel 1994, con la Discesa in Campo di Silvio Berlusconi contro un sistema bollato da lui come illiberale ed egemonizzato dalla Sinistra.

Con minore messianismo,  non si usa la parola a caso, dopo la sua caduta è arrivato a Palazzo Chigi Mario Monti: prima di Draghi nel novembre 2011, un “tecnico” a segnalare un impasse del sistema dei partiti, accolto dall’attesa in chiaroscuro di chi arriva con il suggello dell’Europa di Bruxelles.

Poi, una sorta di intermezzo con Enrico Letta che, auspice il riconfermato Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, forma un governo di larghe intese che però viene travolto dall’irruzione del nuovo, impetuoso e spavaldo, Cavallo della Palingenesi.

Matteo Renzi, già Rottamatore del Partito Democratico, manda nella discarica la vetero-sinistra e apre a un fronte largo che potrebbe/dovrebbe tenere insieme di qua e di là.  Poco meno di due anni per una delle manifestazioni più aggressive del leaderismo e la scommessa del referendum lo espelle da Palazzo Chigi, con un credito a quel punto largamente consumato.

Ma la nevrosi della Salvazione non si placa e, con le elezioni del 2018, si rilancia con molte novità, sia dei protagonisti, sia delle modalità. I nuovi campioni del cambiamento sono il Capo politico dei Cinquestelle, Luigi Di Maio, e il leader di una Lega a misura peninsulare, Matteo Salvini.

Inusitato il modo in cui viene formato il governo, i due alleati che compongono la maggioranza firmano il Contratto di Programma, con la novità dell’ “avvocato del popolo” – come si è definito – Giuseppe Conte.

A seguire, ecco la nemesi implacabile, il rovesciamento intervenuto con la nuova compagine, ancora presieduta da Conte, che ha visto insieme Cinquestelle, PD, Italia Viva e Liberi e Uguali.

Fino alla crisi che, innescata dall’uscita di Italia Viva e dal logoramento interno, ha visto fallire i tentativi di consolidare una maggioranza a quel punto con i numeri troppo fragili per avere un futuro politico all’altezza dell’emergenza del Covid-19.

Insomma, una coazione a ripetere nel segno del Taumaturgo di turno, secondo uno schema immutabile ascesa e caduta, sulle cause non è qui il caso di approfondire, se non per segnalare l’ansimare di una democrazia che non ha più l’organicità di un funzionamento ma ogni volta sembra ricominciare da capo e inventare nuovi esercizi, mentre il dibattito si stressa alzando il volume e forzando le contrapposizioni con schieramenti che si rimodulano accogliendo sul carro quanti servono, non importa quanto diversi,  per raggiungere il traguardo della maggioranza.

Su questo sfondo, Draghi esce dal cilindro del Quirinale ancora una volta e ancor più come l’ultima carta da giocare. Sergio Mattarella, complice l’ex Rottamatore che non ha perso il vizio di colpire l’avversario di turno (da Pier Luigi Bersani a Enrico Letta a Giuseppe Conte),  rompe gli indugi e lo lancia in un campo dove ormai nessuno ha la forza per disegnare alternative e un Pacificatore al di sopra delle parti s’impone per investitura collettiva.

Finalmente, un altro Migliore – del precedente si è persa ormai la memoria  – uno che ha la storia, i saperi e gli attributi – non deve mancare nulla – per tirarci fuori dal doppio contagio di una democrazia malata e di un virus che non si arresta e sta schiantando l’economia. E “Draghi” si avanza – si fa per dire, perché non esce di un millimetro dal perimetro che gli tocca e anzi vi si ricovera come in una bolla protettiva – forte di un’identità che nasce all’incrocio di diversi elementi e con la quale si presenta da protagonista, proprio come accade in certe narrazioni da supereroe alla Marvel, un Captain Italia che non imbraccia ma è lui stesso lo scudo portentoso per il Paese:

  • la carriera, o meglio ciò che ne conosciamo, svolta ai massimi livelli delle istituzioni bancarie, la Banca d’Italia, prima, la BCE, poi, la fama di chi decide e che il Compito da assolvere lo mette davanti a tutto e tutti;
  • un profilo che porta con sé alcuni tratti fortemente caratterizzantI (2): un professionista che ha un credito internazionale per come ha operato e l’autorevolezza che si è conquistato, dunque un’eccezione che lo sposta rispetto al panorama corrente dei politici italiani: “Draghi” arriva da fuori, con un’investitura diretta da parte del Presidente della Repubblica, una sorta di Deus ex machina che si presenta come l’ultima risorsa spendibile, la carta migliore e impareggiabile che è rimasta del mazzo,  e le attese, tante, che porta con sé;
  • un protagonista di un mondo particolare, distante, di sicuro non al vertice delle simpatie della gente, le banche, la politica monetaria, l’Europa, dunque non direttamente un politico ma un “tecnico” e proprio per questo fuori dal coro di una politica incapace di trovare in sé una soluzione;
  • un replay, mutatis mutandis,  di Cincinnato richiamato al potere nella Roma in pericolo e nominato dictator: come lui, Draghi ha lasciato gli incarichi istituzionali, si è accomodato in un buen retiro  e si trova in uno stand-by, attento a non compromettersi con il “circo” di una politica che lo potrebbe bruciare (c’è il precedente significativo del Professor Mario Monti chiamato al governo in uno stato di grande difficoltà e poi, purtroppo per lui a vedere i risultati, sensibile alle sirene della politica) e tuttavia una riserva illustre a disposizione del Paese: aspetta nel suo orto la contingenza giusta, all’altezza del prestigio che lo circonda e tale da assicurargli un posto di eccellenza nella scena politica, perché questa è la sensazione, Draghi prima o poi scenderà in campo anche se non da capo di un partito, quanto piuttosto per un incarico superiore alla politique politicienne: una personalità che non divide ma unisce;
  • un “tecnico” – ma sappiamo quanta politica si possa fare da… tecnico e quanto politica possa essere una scelta di questo tipo – che non si è mai contaminato con il circuito mediatico, il cui agire comunicativo si segnala per sottrazione e sobrietà, fatti dell’annuncio di decisioni sui tassi o dell’anticipazione di quelle che potranno essere prese (la cosiddetta forward guidance), nessuna fessura che si apra sul privato; usa talmente poche parole “Draghi” che alcune sono diventate un claim che lo identifica, il “whatever it takes” che pronunciò nel 2012, nel momento della crisi del debito sovrano europeo, per dire che avrebbe fatto tutto il necessario per proteggere l’euro dalle speculazioni: un marchio di fabbrica, un programma che gli dà l’aureola del Salvatore che non si piega e risolve, un po’ come il Wolf/”Risolvo problemi” interpretato da Harvey Keitel in Pulp Fiction;
  • un uomo che parla con i fatti, con decisioni prese secondo un metodo collaudato in tanti anni e che gli ha assicurato il successo dalla Direzione Generale del Tesoro alla Banca d’Italia alla BCE (3);
  • sul piano personale, viene descritto da chi lo conosce come molto sicuro di sé, capace di cogliere subito il nocciolo di una questione e assai preparato sui dossier,  amante della brevità nelle discussioni, uno che dà l’impressione di sapere moltissimo, talvolta “anche di più di quello che effettivamente sa”. E c’è anche chi ne sottolinea una qualità caratteriale: “il dono di affrontare le cose in maniera apparentemente semiseria, il che conferisce al suo modo di essere e di lavorare un che di leggero” (4).

È questa l’immagine/biglietto di presentazione su cui variamente si concentrano e che al tempo stesso confezionano i media all’atto della scelta del Presidente Mattarella. Un’immagine che trova il largo favore da parte del pubblico e che si erge al di sopra delle fazioni della politica che decidono di sostenerlo (5).

Tutti i partiti aderiscono, difficile sottrarsi quando non è possibile rianimare il governo-Conte, tutti i mandati esplorativi sono falliti e i veti reciproci hanno portato la situazione in un cul de sac.

Il Terzo, non compromesso, aureolato, a cui tutti sono costretti a delegare il potere

Il Presidente Mattarella prende atto e cala l’asso. “Draghi” risolve, è il Terzo, non compromesso, aureolato, a cui tutti sono costretti a delegare il potere. Un po’ come accade nel Leviatano di Thomas Hobbes quando stremati dal bellum omnium contra omnes si legano in un pactum subiectionis con cui trasferiscono tutti i diritti naturali – a parte la vita – tutti consegnano il potere a un soggetto ab-solutus che lo esercita senza vincoli e condizionamenti (6).

Tutti aderiscono, a cominciare dalla Lega e dal coup de foudre di Matteo Salvini che, complicemente emarginato, al punto da lasciare campo libero al Secondo Governo Conte, rovescia il connaturato antieuropeismo sovranista aderendo al governo guidato da un caposaldo dell’europeismo / atlantismo. Una decisione che fa sì che il governo Draghi nasca con una maggioranza ecumenica e che non sia il prolungamento rivisto e corretto del Conte 2, ma una nuova creatura.

Ancora una volta, tutto si svolge sul sottile discrimine dell’immagine – perché lì stiamo –  sul confine sfuggente tra parole dette e intenzioni, tra testi e sotto-testi, il che ci riporta al campo “principesco” di Nicolò Machiavelli dove la verità diventa semplicemente l’effetto che in quel momento è il più opportuno da produrre, con tutta la simulazione necessaria, il potere essendo un esercizio funzionale che misura la sua efficienza nel quadro delle compatibilità date (7).

Che anche “Draghi” non ne sia un ben attrezzato epigono? Come, d’altronde, anche il frastagliato schieramento che lo sostiene: una delega in bianco? Il superiore interesse generale o una mossa accolta in un momento di irreversibile difficoltà in attesa di ridislocarsi con l’appuntamento elettorale che verrà? Questa sfasatura irriducibile essere/apparire che riguarda sia il piano morale, sia lo statuto stesso della “realtà”, si proietta su tutto il campo che stiamo descrivendo, sul tronco di una tradizione che comincia con la polemica tra Platone e la sofistica, tra l’ontologia del logos e il potere poietico della parola, che oggi si va a ridefinire all’interno dell’immensa bolla audiovisiva della comunicazione.

“Draghi”, una volta accettato l’incarico e formato il nuovo governo, conferma il suo “stile”.  Non rilascia dichiarazioni che non siano quelle richieste dalle procedure istituzionali, tanto meno conferenze-stampa, tanto meno nomina un addetto alla comunicazione protagonista come quello che ha così lavorato alle strategie di comunicazione del premier Conte (che si è segnalato per una reiterata presenza televisiva con messaggi alla Nazione, certo nel primo e sconvolgente imperversare della pandemia: il dibattito è aperto sugli effetti  negativi di una sovraesposizione, che  in qualche caso ha anche sofferto di una pianificazione in tempo fin troppo reale, con ritardi, annunci e smentite sugli orari delle dichiarazioni). “Draghi” dunque non parla, tanto meno esibisce accanto a sé i responsabili di una macchina dell’informazione, ed è qui che si costruisce il mito del “silenzio”.

Il Silenzio: stile o  strategia?

“Draghi” non parla. A parte le comunicazioni dovute al Parlamento, bisogna aspettare quasi un mese per vederlo partecipare a una conferenza-stampa. Non parla ed è una novità questa sì sconvolgente.

Tutta la politica che lo ha preceduto ha imbastito guerre pur di “avere parola”, ha fatto salti mortali per apparire in talk-show che la celebrassero, possibilmente senza contenzioso (si ricorda Silvio Berlusconi che a lungo rifiutò di confrontarsi in televisione con gli avversari e che contestava l’intervistatore perché non gli consentiva di raccontare no-stop i suoi programmi), non ha smesso di creare siparietti, i più vari, pur di finire sui social e nei titoli, ha sognato l’epifania in prime time e a reti unificate. Invece, “Draghi” resta chiuso nel suo Palazzo mentre i microfoni e le telecamere abituati all’abbondanza vociante restano delusi. E questa assenza, almeno in quel momento, viene percepita come la Presenza tanto attesa, proprio perché rovesciata, finalmente si esce dal rumore assordante e insopportabile di questi leader schiamazzanti, l’un contro l’altro armati, pronti a darsi sulla voce, a interrompere e insultare.

No, “Draghi” non appartiene a questa compagnia di giro dello show mediatico e il suo silenzio ci diventa la garanzia di un lavoro indefesso e illuminato svolto dietro le quinte. “Mario” non ha bisogno di dire e di farsi vedere, così tanto per far sapere di esserci, per conquistare un palcoscenico della visibilità di cui non ha bisogno, perché non l’ha mai perseguito, blindato e al riparo nei fortilizi che non hanno bisogno di contrattarsi con i media se non con accorte strategie di annunci, tanto meglio quando affidati a comunicati di burocratica referenzialità, a brevissimi speech in apparizioni centellinate con la più grande e sorvegliata parsimonia. In quelle stanze i media non entrano e da quelle stanze non si esce per “farsi vedere”.

E sul silenzio si comincia a interrogarsi e a teorizzare. Persino ovvia la lettura di chi lo contrappone al bailamme precedente. Un passo in più chi vi vede il rispetto delle istituzioni, non più trasformate in un palco con amplificatore e restituite a una dignità.

In ogni caso, è evidente la differenza e qui si presentano almeno due chiavi all’interpretazione: è una questione che attiene allo stile o la spia di un cambiamento? Semplicemente, “Draghi” non ama parlare in pubblico e in particolare sottoporsi al confronto con l’informazione oppure è una scelta meditata, una consapevole presa di distanza in omaggio a un esercizio del potere che “parla con i fatti”, res non verba?

Messa così, la seconda ipotesi sembra la più convincente (8), “Draghi” porta nella Presidenza del Consiglio lo stesso costume di rigore austero praticato negli incarichi precedenti. Un aristocratico silenzio di chi non vuole confondersi nella zuffa quotidiana delle opinioni, dettato forse anche dalla prudenza rispetto ad uscite affrettate.

E se nel “silenzio”, al di là degli estri personali, agisse anche un riflesso condizionato del potere in quanto tale? Se cioè fosse una delle opzioni possibili che si trova davanti chi lo esercita e, in certe condizioni, una virtù?

Il potere del silenzio è sempre valutato assai – scrive Elias Canetti in Massa e potereEsso significa, infatti, che chi tale può resistere a tutte le innumerevoli occasioni esterne di parlare. Non si dà risposta a nulla, come se non si fosse stati interrogati. Non si lascia capire se si gradisce l’una o l’altra cosa. Si è muti, senza esserlo davvero. E tuttavia si ascolta. (..) Chi tace non deve dimenticare il segreto di cui è depositario. Egli è tanto più stimato quanto più il segreto brucia in lui sempre più forte e tuttavia non è da lui rivelato” (9).

Il silenzio  fonda autorevolezza e dice della distanza del potere, della differenza che segna chi lo detiene e della sua sacralità impenetrabile. Canetti, è importante ricordarlo per contestualizzare l’affermazione, gli contrappone la pubblicità dei dibattiti parlamentari,  la deriva delle opinioni senza autorevolezza. E, al di là di una prima impressione,  sarebbe sbagliato vedervi soltanto un punto di vista regressivo, incompatibile con la condizione del potere nel tempo della democrazia.

Quanto sarebbe interessante analizzare la fenomenologia del potere come un campo stratificato nel tempo come in simultanea, dove si danno certo cesure ma non al punto da cancellare il passato rispetto al presente, specie se il potere lo analizziamo non solo in termini di laica razionalità e, invece, ne esploriamo le componenti simboliche e antropologiche profonde, anche là dove non ce le aspetteremmo. Che non sia questo il caso – sia pure temporalmente circoscritto – del “silenzio” di cui parla Canetti e che l’attesa/bisogno che su questo piano Draghi ha esplicitato non sia riconducibile soltanto a una sua sensibilità e a una congiunturale manifestazione nel tempo del talk come match e sopraffazione dell’avversario.

Che insomma nel favore con cui è stato accolto l’incipit di “Draghi” non si manifesti un bisogno del “silenzio” connaturato a un potere che su quella barriera costruisce la sua forza e la sua suggestione? E che, dunque, un neo-Presidente “venuto da fuori”, rispetto alla chiacchiera dei partiti, non ci abbia fatto sentire il brivido del potere che si impone in quanto tale e a cui ci si affida proprio perché resta remoto e non si compromette?

La nostra è una democrazia cigolante, in crisi di rappresentanza, un varco che rischia di delegittimarla e la separa da un corpo sociale frammentato, per certi versi atomizzato e lacerato da contraddizioni estreme che non tengono più insieme la libertà e l’uguaglianza: è plausibile pensare che l’epifania di “Draghi” si sia fondata su una dimensione salvifica e che questa sia stata rafforzata dal “silenzio”. Almeno, all’inizio. Uno che non fa come gli altri e anche nel modo comunicare, che tanta parte ha nel gioco dell’immagine, mostra la sua differenza. Un’impostazione di questo tipo porta con sé un correlato indispensabile: il “silenzio” si autogiustifica sul piano simbolico e, tuttavia, deve comunque assolvere alla funzione che legittima il potere: proteggere l’integrità del corpo sociale e mantenerne la coesione. Tanto più quando chi viene chiamato da un coro così ampio e variegato ad esercitarlo, deve la sua investitura all’autorevolezza che gli viene riconosciuta per affrontare una condizione straordinaria come l’emergenza di una pandemia.

Draghi, lo stato di emergenza e/o lo stato d’eccezione

A spiegare la novità “Draghi” e il contesto concorre anche il passato. L’investitura arriva dopo una serie di interventi che, come abbiamo ricordato, hanno forzato regole e procedure con cui la Costituzione disciplina la costituzione di un governo e l’esercizio dello stesso. Vogliamo dire del ricorso ininterrotto del Governo Conte ai DCPM che bypassavano il Parlamento e vi arrivavano  a cose fatte? Di maggioranze artificiali che si sono messe insieme, si sono dissolte, ricomposte per giungere ancora una volta al capolinea? E, ancor prima, di regie presidenziali che hanno costruito governi a prescindere da una legittimazione elettorale?  

Draghi arriva in questo contesto che oscilla fra lo “stato d’emergenza”, deciso dal governo che lo ha preceduto e che con DCPM successivi lo ha prorogato fino al 30 aprile 2021 e quello che secondo alcuni è l’annuncio di uno “stato d’eccezione” – un termine usuale nella riflessione giuspolitica mitteleuropea – che di fatto verrebbe a sovvertire l’ordine costituzionale.

Dico, ad esempio, di Giorgio Agamben che riprende e radicalizza la distinzione che Carl Schmitt ne La dittatura (10) opera fra tra “dittatura commissaria” – una sospensione in attesa di ripristinare l’ordine costituzionale e “dittatura sovrana” che invece non solo sospende ma apre una fase del tutto nuova e non soggetta alla Costituzione precedente. Questa distinzione, con tutte le aporie che contiene, si trasferisce in quella tra potestas, legata comunque ad un ufficio, e auctoritas, il potere anomico della decisione del sovrano (11): per Agamben nell’antica Roma questa dualità era presa in una dialettica che consentiva di governare le situazioni di estrema difficoltà senza annullarla e senza pregiudizio per l’integrità della res publica, mentre nella condizione moderna – quella in cui come dice Schmitt “il sovrano decide lo stato d’eccezione” – si va verso uno svuotamento progressivo della legge e si governa in una caricatura operativa e arbitraria “in forza della legge”.

La pandemia si inserisce in questo movimento e, nella lettura di Giorgio Agamben, diventa un ulteriore passo verso la sospensione delle garanzie costituzionali “attraverso l’instaurazione di un puro  e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione della salute. (…) Possiamo chiamare ‘biosicurezza’ il dispositivo di governo che risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il potere statale con il suo stato d’eccezione. Esso è probabilmente il più efficace fra quanto la storia dell’Occidente abbia finora conosciuto. L’esperienza ha mostrato infatti che una volta che in questione sia una minaccia alla salute gli uomini sembrano disposti ad accettare limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto la dittatura totalitaria” (12).  

Ripeto, il modo in cui Draghi è stato nominato, il suo silente accentrare su di sé il governo, chiudendo con la stagione delle esternazioni di questo e quello, fa di quel “silenzio” una spia quanto meno ambigua di un passaggio nel quale si intrecciano un potere carismatico, un’investitura extra-parlamentare (ancorché certificata post festum dal voto delle Camere) e una maggioranza trasversale che su di lui trova il minimo comune denominatore che la motiva a sostenere un governo in cui sono presenti sì tutti i partiti (meno uno) ma che si sintetizza e si concentra nell’Uno della Presidenza del Consiglio. 

Questione di punti di vista, è bene sottolinearlo, che si danno nella compresenza di una vettorialità di forze che si bilanciano in un equilibrio di cui il tempo si incaricherà di mettere alla prova la stabilità e di certificare la direzione.

Il “Programma Draghi”

Sono molto interessanti, nel quadro indicato, le dichiarazioni programmatiche che il 18 febbraio 2021 il Presidente nominato si presenta davanti alle Camere. Legge e individua subito la motivazione della nascita del governo che ne costituisce anche l’obiettivo fondamentale:

Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come Presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti”.

Dunque, il nemico-scopo è la pandemia e la battaglia richiede l’unità di tutti fondata su una “responsabilità nazionale”. Ma dove si colloca questo governo? In che rapporto sta con le istituzioni? “Draghi” si pone una domanda che riguarda il fondamento stesso del suo dicastero e del potere che gli è stato conferito dal Presidente della Repubblica e che il Parlamento si appresta a ratificare. E la domanda, implicitamente, rimanda alla sottile linea di confine oltre la quale l’emergenza diventa eccezione:

“Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato”. 

È “Draghi” stesso a definire il perimetro in cui nasce il governo e da cui trae legittimazione:

  • la condizione di emergenza, “drammatica”, del Paese;
  • lo definisce il “governo del Paese”, senza aggettivi, governo che non si legittima per la rappresentanza maggioritaria di una parte politica, ma in quanto tale, in una sorta di tautologia che si dà in riferimento a un Nemico esterno, la pandemia;
  • la rinuncia: perché il governo nascesse è stato necessario che le forze politiche accettassero “una rinuncia per il bene di tutti”. E poco dopo, mentre respinge la tesi che il governo sia nato dal fallimento della politica, è lui stesso ad ammettere che si tratta di “un nuovo e del tutto inedito perimetro di collaborazione”, in cui nessuno arretra rispetto alla propria identità e fa “un passo avanti per rispondere alle necessità del Paese”:
  • un governo che nasce raccogliendo “l’alta indicazione del capo dello Stato”.

Sono motivazioni diverse, non simmetriche, con aspetti  inediti: siano certamente in uno stato d’emergenza, forse non ancora al “sovrano che decide dello stato d’eccezione”, certamente sul bordo delle regole Costituzionali. A queste, aggiunge un valore superiore che nell’emergenza viene prima di ogni appartenenza, “il dovere della cittadinanza”: è questo il tratto comune che accomuna “politici e tecnici” dell’esecutivo, “siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese”. Il dettato formale della Costituzione – articolo 92, “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri” – è rispettato.

Va ricordato come, nel tempo, negli spazi bianchi del Testo, si siano consolidate via via delle prassi (le consultazioni, il mandato esplorativo…). In uno spazio bianco si aggiunge un governo che si fonda su una “rinuncia” dei partiti e che omogenizza le differenze in nome del “dovere di cittadinanza”. A questo punto, analizzare le modalità della comunicazione non è quindi solo un’operazione tecnica, quanto piuttosto una cartina al tornasole di un assetto delle istituzioni e del potere.

Nel limbo

Chi tace – scrive ancora Canetti – gode di un vantaggio: le sue parole sono maggiormente attese, si attribuisce ad esse maggiore peso. Rare e isolate, esse assomigliano a comandi”. “Draghi” all’inizio “non parla”. E’ chiaro come la quantità, in questo caso, sia inversamente proporzionale non alla qualità ma al livello dell’attesa e alla densità con cui il messaggio viene percepito. Minima la prima, massimo il secondo. Il Presidente ha reso al Parlamento le dichiarazione programmatiche, dopo di che ha svolto una serie di interventi ufficiali e senza contraddittorio, in occasioni significative per le aree di interesse sociale toccate: le pari opportunità e la condizione della donna, l’innovazione del lavoro e la coesione sociale, l’emergenza la vaccinazione al Centro Vaccinale di Fiumicino, l’inaugurazione del Bosco della Memoria a Bergamo, la ricerca scientifica in occasione della consegna delle borse di studio alla Fondazione Veronesi.

E tuttavia queste apparizioni, sempre prive di un qualsivoglia momento di confronto con i soggetti dell’informazione, sono state accompagnate da un crescente disagio per un atteggiamento che, nel protrarsi del “silenzio”, ne consumava il valore simbolico e, comunque, lo metteva in competizione con un valore fondante della democrazia: la trasparenza di chi esercita il potere, il dover rendere conto dei propri atti, la necessità di un rapporto con i mezzi d’informazione nella loro funzione di intermediazione con la società.

Un limbo, insomma, in cui potremmo anche vedere, sullo sfondo, confrontarsi la potenza simbolica del potere che si ritrae e la sua laica e secolare ostensione, con il grande sacerdote che alla fine interviene e decide. Accetta di uscire dall’iconostasi, dietro alla quale anche nel tempo della democrazia continuano a proteggersi istituzioni internazionali, tecno e buro-crazie.  

Una degnazione principesca in una condizione inedita, da parete di chi non sente questo vincolo della visibilità? Oppure, una necessità pragmaticamente riconosciuta, quando cioè la impone la straordinarietà della situazione che fonda l’esistenza di questo governo così diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto?  

Non solo “Draghi” si mostra, ma interloquisce e contratta il suo discorso. E trascorso un mese dall’insediamento quando appare in una conferenza-stampa, a cui via via se ne aggiungono altre, al punto da inaugurare una serie. Dopo il “silenzio” arriva, quindi, il tempo della comunicazione. Dunque, si è trattato solo di un intervallo dopo del quale si ritorna alle precedenti abitudini? Potrebbe anche essere, anche se sarebbe assai difficile immaginare “Draghi” che si affaccia festante e urlante al balcone di Palazzo Chigi o che ne esce per imbandire una conferenza sul selciato della piazza, dietro a un tavolo da bar, il microfono in mano. Piuttosto, sembra un’altra mossa che si legittima nel diveniente quadro delle opportunità. Prima no, adesso bisogna fare così. Intanto, prima di qualunque giudizio, è il caso di andare a vedere. Analizzeremo trasversalmente questi eventi comunicativi e ne descriveremo la fenomenologia di alcuni tratti ricorrenti.

“Draghi” parla.

La conferenza-stampa rappresenta lo spazio ufficiale della comunicazione, ha una sua ritualità e un sistema di regole che stabilisce ruoli, modalità, spazi e tempi. Per un’istituzione è il momento in cui ci si presenta agli operatori dell’informazione e  si apre al confronto: una cornice flessibile in cui si possono fare delle dichiarazioni e/o si risponde alle domande. Può succedere che si facciano soltanto delle dichiarazioni e non si accettino domande, capita in particolare nei regimi in cui la comunicazione è unidirezionale ed esclude contraddittori, oppure che si mettano insieme le due modalità, o ancora che si lasci libero spazio alle domande, disponendosi a rispondere. ”Draghi”, dopo un black-out iniziale, rotto soltanto da presenze in sedi  istituzionali o in eventi ritenuti significativi per l’area tematica e per l’importanza della cornice organizzativa, ha aperto  questo fronte.

Ne analizzeremo la testualità per capire il modo in cui si è posto in questa cerimonia istituzionale e se si siano manifestate delle singolarità e, nel caso, di vedere se siano aspetti che riguardano semplicemente la personalità o che invece tradiscono .. altro e, cioè, riportano al contesto inedito in cui nasce il governo.

Mai solo.

“Draghi” non si è mai presentato da solo. Si è sempre fatto accompagnare da uno o più ministri. Una consuetudine che può essere variamente interpretata. Il Presidente ha sentito il bisogno di un appoggio, una sorta di uscita di sicurezza rispetto a situazioni che avrebbero potuto metterlo in difficoltà. Oppure, questa entrata in scena in compagnia rimanda a un atteggiamento “regale”, da dominus che ha intorno a sé una corte a cui demanda i dettagli e gli approfondimenti, lasciando a sé il quadro.

Non è stato certo il primo a presentarsi così, e tuttavia, nel nuovo contesto dell’eccezionalità che nell’emergenza lo riguarda, questa compresenza assume un significato che ribadisce, intanto, una centralità articolata su una condivisione che potremmo definire tecnica: il Presidente lascia la parola e la autorizza, ma  nel contesto del suo discorso-cornice. D’altronde, uno delle novità di questo governo sul piano della comunicazione è la totale assenza di visibilità dei ministri: è finito il tempo in cui ognuno quotidianamente diceva la sua, aprendo fronti, polemizzando e mettendo a repentaglio l’immagine di coesione e la tenuta stessa della compagine. Qui i ministri parlano, ma quando “Draghi” gli dà la parola e accanto a lui.

Le vostre domande.

Dirò due parole d’introduzione”… “Ascolto le vostre domande, son qui per stare con voi”. “Draghi” svolge sintetiche dichiarazioni preliminari, quando la conferenza è convocata per comunicare provvedimenti appena presi dal governo, oppure preferisce offrirsi subito alle sollecitazioni che gli vengono dai giornalisti. Insomma, nella formalizzazione della conferenza, lascia la parola e si dispone a rispondere. Preferisce giocare di rimessa, piuttosto che con una illocuzione centrata su sè stesso e univoca. Anche in questo caso pare di rilevare una sottile ambiguità tra l’ascolto e la concessione. Lo stile è sempre ispirato a una sobrietà gentile: non contesta le domande, non alza i toni la dove ci sono intenzioni polemiche, parla con cadenzata chiarezza.

Dov’è?

“Draghi” quando risponde cerca sempre l’interlocutore, lo vuole vedere per rivolgersi in un rapporto da persona a persona o, se si vuole, per individuarlo nella platea che ha di fronte. E’ una curiosa e reiterata insistenza, come se avesse bisogno di appoggiare la risposta alla certezza di un’interlocuzione in presenza.

Il riso e l’anacoluto

Capita spesso che il suo discorso s’interrompa nella consequenzialità sintattica, come se in quel momento  “Draghi” rifletta su ciò che ha appena detto e senta il bisogno di precisare, anche aprendo una parentesi o ricorrendo a un termine più preciso di quello che aveva appena usato. Un discorso che si fa in diretta e nasce in una sorta di interlocuzione con sè stesso che lo sottopone a un esame e a una ininterrotta validazione. Parla ad esempio delle “spiegazioni”, le distingue tra “comprensibili” e “incomprensibili” e poi si sorprende per aver detto di “spiegazioni incomprensibili”. Questo rompersi/riprendersi del discorso viene a coincidere con un contrappunto ironico. “Draghi” non solo parla, ride? Lo sentiamo in una frase che si resta sospesa in una pausa, in un nella chiosa ammiccante – con sé stesso prima che con gli altri – alla fine di un’affermazione, quando fa il verso a se stesso per avere usato l’ennesimo termine inglese o manifesta una modestia (“Ci sono molte cose che s’imparano guardando gli altri”) o infilando un inciso che inceppa la continuità.

Tutto questa nella calma di un discorso che non forza mai (a parte l’invettiva contro chi salta la fila nelle vaccinazioni, dunque, se serve, è anche capace di alzare un tono passionale che non sembra nelle sue corde), che non ha impeti retorici e una facondia spettacolare, anzi, l’impressione è che il discorso sia sempre sorvegliato affinché non ecceda mai, anche quando si contestano critiche.  “Draghi” resta in una misura, può riprendere anche un rilievo che gli è stato mosso ma lo fa senza ansie, nemmeno dando troppo peso. Insomma, con un understatement che certo gli appartiene ma è autorizzato anche da questa diversità che lo rende … unico e, dunque, gli consente una distanza che altri non possono permettersi.

Non mi ricordo

Conferma questo atteggiamento una vaga assenza che a volte si infila nel discorso. Gli capita di non ricordare una domanda (“La prima domanda era … ?”. “S’era detta una domanda, ho perso il filo…”), oppure ci ritornarci dopo aver concluso, di ammettere di non conoscere un dettaglio o di non sapere quando ci sarà un incontro. Anche questo rientra nell’impressione generale di una nonchalance, di un distacco, che alla fine rimanda sempre a un’idea di superiorità, che si esprime con il sussiego o, per citare un manuale  canonico, la sprezzatura:

“Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi…Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato” (13).

Un’arte del discorso che non tradisce mai tensioni e sforzi, a volte persino con un’impressione di distacco e di provvisorietà, a parte i momenti in cui entra nel merito dei meccanismi dell’economia e nel suo campo di competenza.

Primo…  secondo …  terzo…

Spesso nella spiegazione di una decisione o di un’impostazione “Draghi” procede a un’analitica disamina degli argomenti e li mette in fila secondo una progressione numerica. Un modo per scandire il discorso e riportarlo a una logica di chi distingue e isola in una concatenazione volta a evitare equivoci e confusioni.

Questo modo di argomentare si inquadra all’interno di una più ampia disposizione che presiede sia alla costruzione del discorso sia all’esercizio del governo. “Draghi” ha ripetuto più volte la sua vocazione al pragmatismo: nessuna cornice ideologica pregiudiziale che orienti o determini le decisioni, le scelte avvengono nel perimetro delle circostanze date e nel quadro delle possibilità che si offrono. Alle sollecitazioni sulla fine delle chiusure:  “E’ desiderabile riaprire, la decisione dipende dai dati a disposizione”. E a proposito della riapertura: “Il governo ha preso un rischio, un rischio ragionato, fondato sui dati che sono in miglioramento, ma non in miglioramento drammatico, sono in miglioramento”. Sugli elementi in base a cui si prendono decisioni: “Non mi pare che non sia conto dei fondamenti scientifici delle decisioni prese, non mi pare che siano iniziative prese, come ho detto in una altro contesto, per vedere l’effetto che fa”. Se enuncia una data, se assume un impegno – ad esempio sui grandi lavori – esplicita l’assunzione di una responsabilità: “Siamo sicuri di questo, se no non le darei una data, sono sicuro che andate a vedere se i cantieri sono aperti, se no venite da me ..”. Prudenza, accortezza, “Draghi” non dimentica l’ambiguità del  punto di vista: quello che sta esponendo, quello da cui mette in discussione, controlla e verifica con se stesso, e quello del destinatario:

La domanda è: ce la farà questo paese a crescere per poter ripagare i debiti di oggi ?”

“La domanda che uno si fa, come quando si parla di rimborsi da parte dello Stato ma quando le vedo queste cose?”.

Il rapporto con l’Europa e il coordinamento con Bruxelles? “Bisogna essere pratici, il coordinamento europeo ha un grandissimo valore aggiunto, l’ho sempre sostenuto, ma qui si tratta della salute, se funziona si segue, se non funziona bisogna andar per conto proprio, questo è il pragmatismo”.

E quando gli chiedono se abbia una visione con cui affrontare i problemi: “Francamente è una domanda molto vasta, mi trova impreparato – dov’è (cerca il giornalista) – non è che io abbia affrontato questa esperienza con una teoria a dello stato nell’economia. Si tratta di affrontare un’esperienza chiamiamola emergenziale, quindi avviare bene la campagna vaccinale, questa è la base su cui poi riparte l’economia. Il tempo delle grandi scelte economiche per cui si va in un indirizzo, si programma il futuro eccetera, secondo me appartengono di più alla normalità che non all’emergenza. Verrà, io spero che venga il tempo in cui io potrò risponderle sulle mie vedute in tema di struttura della società e dell’economia, ma per ora è presto”.

Dunque ci troviamo in uno stato d’emergenza e sono i fatti – meglio ancora i dati – che indirizzano le scelte con parametri che, ad esempio, hanno presieduto alla classificazione per colori delle situazioni regionali. “Draghi” è il gestore della compatibilità possibile in un’emergenza, non ha pregiudiziali ma reagisce a quello che si sta verificando. Insomma, un ragionamento pragmatico: ora, adesso, il problema sanitario viene prima di tutto, perché la sua soluzione è il presupposto per far ripartire l’economia, poi verrà il tempo della normalità e dunque delle decisioni organiche e  strutturali. E, quando i numeri incoraggiano, si va a una prudente riapertura.

Ciò non vuol dire che si seguano semplicemente gli eventi, “Draghi“ assume rischi, “ragionati”, lancia una “scommessa” che inverta finalmente la direzione dell’emergenza e però la contestualizza nei dati che la favoriscono e nelle condizioni – ad esempio i comportamenti dei cittadini – che ne costituiscono una componente strutturale.

L’Europa casa familiare di un attore importante sulla scena continentale

Gestione dell’emergenza, dunque, ma anche uno sguardo largo che non si restringe mai al Paese. L’Europa, l’abbiamo visto, è un ineludibile punto di riferimento. Dal modo in cui ne parla, si percepisce che Draghi si trova in una  casa familiare nel cui contesto va collocata anche questa avventura nel condominio italiano. Non è solo una rivendicazione di appartenenza, “Draghi” si presenta come un attore importante sulla scena continentale.

Voglio tornare in questo senso a una  battuta che ha sollevato polemiche e che rivela come quella che ci appare come la superficie del campo della comunicazione nasconda strati forse anche imprevedibili, come cioè il testo racchiuda in sé sottotesti che vanno oltre la lettera di quello che viene detto.  Machiavelli, il lione e la volpe … Viene chiesto a “Draghi” un giudizio sul sofà sul quale si è dovuta sedere Ursula Von der Leyen, Presidente della Commissione Europea. E la risposta sorprende per il termine che usa a proposito del Presidente Recep Tayyik Erdogan:

“La considerazione da fare con questi … chiamiamoli per quello che sono dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare.  Uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute, di  opinioni, di comportamenti, di visioni della società e deve anche essere pronto a collaborare, a cooperare più che collaborare, per assicurare gli interessi proprio paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto”.

Nessuna perifrasi, dittatore. Un eccesso di franchezza? Poca accortezza da parte di un Presidente del Consiglio che dovrebbe misurare gli effetti di quello che dice, tanto più quando parla di una personalità che con l’Europa ha aperto un contenzioso complesso? Sono molti a criticare Draghi. Ma si tratta davvero di uno scivolone, peggio, di un boomerang? Tutto è possibile, però come pensare che un uomo così abituato alla misura pragmatica delle cose non usi la stessa prudenza nello scegliere le parole. Che cioè non ci possa essere una calcolata premeditazione nell’uso di quell’epiteto. 

Pragmatico, dunque, e perciò pronto anche a forzare un’affermazione, se serve, se torna utile e consente sia di colpire una sensibilità diffusa – in questo un sentimento ostile verso il premier turco che calpesta i diritti umani – sia, indirettamente, di mandare un segnale esplicito non tanto e non solo al diretto interessato ma agli attori principali della controversia con un leader decisivo nello scacchiere della geopolitica. Per l’Europa, per la nuova amministrazione americana, per l’Italia stessa che a un braccio di mare si trova la Libia, terra su cui si allungano ambizioni pericolose quanto potenti, della Russia come della Turchia. Insomma, il tecnico-presidente, quest’anomalia a Palazzo Chigi porta nel suo discorso la larghezza di un punto di vista, inusuale per la politica corrente, e la capacità di fare del discorso un campo da gestire con pragmatica efficacia e uno sguardo largo che ha chiara davanti a sé l’agenda, sia quella della pandemia, sia quella della politica internazionale.

Un super-tecnico-cittadino … europeo

Insomma,  “Draghi” si propone  con un profilo doppio e, dal suo punto di vista, in una sintesi che dice molto della sua novità. 

Da un lato, un “tecnico” che non si richiama a un orientamento politico – d’altronde, la sua maggioranza riunisce partiti all’opposto gli uni degli altri, quindi sarebbe deleterio ogni sconfinamento che possa far pendere la bilancia da una parte o dall’altra – comanda l’emergenza che dunque definisce il contesto di decisioni che riguardano il paese tutto, la sua tenuta complessiva, secondo un criterio di priorità che lega vaccinazione e ripartenza.

Dall’altro, come ha sottolineato nelle dichiarazioni programmatiche, un “cittadino” che motivato dal dovere insito nella sua cittadinanza assume il governo del paese con altri “cittadini” che hanno rinunciato alla particolarità di una posizione politica. Così si pone nei discorsi che svolge, un “tecnico-cittadino”, sarebbe subito da aggiungere un “super-tecnico-cittadino” per l’autorevolezza di una carriera che gli merita l’incarico di Presidente del Consiglio e per il fatto che questa cittadinanza respira un’aria che per un verso dalla Penisola si espande al continente, per l’altro, dal Continente scende sulla Penisola. Per non parlare dei venti Atlantici.

Poi, possiamo mettere in gioco le  categorie tradizionali con cui si fa ordine nel discorso della politica, destra/centro/sinistra, progressisti/riformisti/moderati/ conservatori, e sforzarci di metterlo da qualche parte, salvo scoprire che si tratta di un gioco del tutto anacronistico.

Intanto, bisognerebbe ricordare come quelle coordinate siano oggi abbastanza sfilacciate, se non altro a sentire le domande di rifondazione che attraversano gli schieramenti politici in un tempo segnato, oltre  che dalla crisi di legittimazione dei partiti e in generale della politica, dalla globalità e da organismi sovranazionali che  generano nuove contrapposizioni, come dimostra l’irrompere dei sovranismi e dei populismi.

La verità è che Draghi non sta da nessuna parte, non ha luogo, almeno nella mappa istituzionale che conosciamo, il suo pragmatismo tecno-civico bypassa ideologie e posizioni partitiche, e lo pone come inedito dominus della scena super partes, lui e il suo programma: una pragmatica risposta a un’emergenza. La figura di un dominus-cerniera che solo lui può interpretare, di un traghettatore con poteri inediti che gli vengono dal modo in cui gli è stato conferito e approvato l’incarico: non deve cambiare la società, deve tirarla fuori dall’eccezionalità di una pandemia e rimetterla sulla carreggiata dello sviluppo utilizzando al meglio le risorse che arrivano dall’Europa.

Se si va sul sito della Presidenza del Consiglio, nell’home page in un riquadro  campeggiano le parole d’ordine del transitus draghiano: Giovani, Parità di genere, Coesione sociale, Campagna vaccinazione, Next Geberation EU, Scuola, Ambiente lavoro.

Siamo di fronte a un quadro-bussola in cui temi e valori fondanti delle democrazie moderne  si accompagnano a novità emergenziali, una modernità del Dopo introdotta da un crisi che il Covid-19 ha esasperato: i giovani a cui dare un futuro, la tenuta di una società scissa e stressata dalle disuguaglianze crescenti, il maschile e il femminile, l’allarme pere il cambiamento climatico, il lavoro che espelle tanti, cambia  e genera nuovi sfruttamenti, la scuola che rischia di implodere nel distanziamento, le frontiere delle tecnologie digitali e della sostenibilità, e l’imperativo della vaccinazione. Il Covid-19 porta un sistema alla resa dei conti e il sistema prova a rigenerarsi, facendo della congiuntura pandemica l’occasione strutturale di una nova aetas e di un novus ordo.

Draghi stila un’agenda politica in cui una politica è tutta deideologizzata si traduce in un pragmatismo che non si limita a gestire l’esistente ma si dà gli strumenti per comporre le contraddizioni. Non è più tempo di preliminari inconcludenti, è ora di decidere e agire, e la bussola è quella del pragmatismo nell’emergenza di un uomo solo al comando. Nel programma nulla richiama al tema delle istituzioni, al loro rapporto con i cittadini, all’Europa ancora da fare, all’economia e alle bolle finanziarie, alle contraddizioni del reale e del virtuale. Tanto meno allo slittamento oggettivo che comporta il super-tecnico-cittadino europeo.

Conclusioni

Viene allora da porsi la domanda cruciale: quanto sia l’emergenza che costringe il potere a un cambiamento di stato e quanto invece sia il potere che approfitta dell’emergenza per ristrutturarsi. Non è facile, in questo momento, dare una risposta, di certo siamo in uno snodo significativo di un passaggio che adesso possiamo leggere nella diacronia di un sisma che, come abbiamo ricordato, è già cominciato da alcuni anni, al punto che non possiamo più considerarlo un incidente congiunturale ma un processo strutturale che investe un modello di democrazia e la filiera tradizionale che ha mediato tra la società e il potere, ha definito modalità di rappresentanza e di formazione dei governi.

Draghi sfugge alle vecchie categorie e l’immagine disincantata da laico sacerdote e conversevole  con cui ci appare nelle occasioni pubbliche, rompendo il nero in cui esercita il potere nel palazzo, dice anche che qualcosa non è più come prima, anche se non sappiamo bene come sarà. Limbo, guado, traghettatore … c’è un punto e quale in cui si compie un passaggio di stato? O siamo in un intermezzo in cui forme ancora riconoscibili ne fanno intravedere altre non ancora nettamente disegnate?

Draghi/”Draghi” – la barra, ambigua, è ineliminabile – conferma che il Dopo è già cominciato e che la sua genealogia interseca e aggroviglia l’una sull’altra la crisi della politica e l’emergenza pandemica. I problemi sono tanti e le contraddizioni anche. Che il potere, che tutto sa, non si stia attrezzando per governarle sul bordo ambiguo di uno “stato d’eccezione”?

In una scena famosa di Amarcord di Federico Fellini, la gente del Borgo prende il largo al tramonto su fragili barchette per vedere il passaggio di un transatlantico meraviglioso e affascinante che promette un’altra vita.

Si chiamava Rex.

Note al testo

(1) I titoli di alcuni giornali del 3 febbraio 2021 sull’incarico a Draghi: “L’ora di Draghi” (La Repubblica), “I costruttori” (su foto di Mattarella e Draghi, La stampa), “Emergenza Italia: la carta Draghi” (Il Messaggero), “Finalmente Draghi” (il Giornale), “Tocca a lui” (Il Giorno), “Arriva Mario Draghi” (Il dubbio). Voci dissonanti: “Renzi ci regala l’ammucchiata” (Il fatto quotidiano), “Il commissario” (il manifesto) e l’ironico “In bocca alla Draghi” (Il Tempo). Nel giorno dell’insediamento, il 13 febbraio 2021: “Un governo per la ripartenza” (Il Messaggero), “Crepi il lupo” (su una foto di Draghi che saluta, La stampa), “Fine dei dilettanti” (Il Giornale), “Task Force Draghi” (La Repubblica), “Governo di responsabilità nazionale” (Il Giorno), “Draghi, governo per le riforme(Il Mattino). Anche se non mancano distinguo: “Tutto qui?” (Il fatto quotidiano), “Non è un governo da Draghi” (Il Tempo), “Dragstore” (il manifesto).

(2) “Quello che è interessante in Mario Draghi non sono solo i suoi successi, molti e ormai ampiamente riconosciuti, che come le gesta di un eroe moderno appartengono alla categoria della storiografia, ma il percorso che ha seguito per conseguirli. Le sue modalità sono rivelatrici del carattere dell’uomo, della sua formazione, di ciò che ha appreso dalle esperienze della vita. Esiste dunque “un metodo Draghi”, peraltro unico e irripetibile in quanto insito nella natura dell’uomo”. Cfr. Marco Cecchini, L’enigma Draghi, Prefazione di Giuliano Amato, Roma, Fazi, 2020, 256 p. [La citazione è a p. 4].

(3) “Volendo descrivere il metodo di lavoro di Draghi, in sintesi si potrebbe dire che si fonda su quattro verbi declinati all’infinito: identificare l’obiettivo, circondarsi di collaboratori funzionali, delegare, decidere dopo avere ridotto al minimo i rischi. Tale è il prodotto di un uomo molto pragmatico. Sembra che Draghi abbia quel tanto di cinismo rispetto i mezzi che avrebbe un americano, la giusta dose di rigidità rispetto all’obiettivo di un tedesco, e la grande cautela nelle scelte tipica di un italiano” in Marco Cecchini, L’enigma Draghi,  op.cit., p. 35.

(4) Ibidem, le due citazioni si trovano rispettivamente a p. 37 e a p. 33.

(5)Secondo un sondaggio Tecné con agenzia Dire pubblicato il 21 febbraio 2021 il consenso per il governo sfiora il 60 per cento che per Draghi sale quasi al 62 per cento.

(6)“Questa è l’origine del grande Leviatano, o meglio, per parlare con più riverenza, di quel dio naturale al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti con l’autorità concessa a lui da ogni singolo individuo nello stato egli possiede tanto potere e tanta forza, che gli sono stati conferiti, che col terrore così ispirato è in condizione di ridurre tutte le volontà di essi alla pace in patria e al reciproco aiuto contro i loro nemici esterni”, Leviatano, II, 17. La citazione è tratta dall’edizione del 1982: Thomas Hobbes, Leviatano, Editori Riuniti, 1982, pp. 110-111.

(7) “Essendo adunque un Principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la volpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere volpe a cognoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un Signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussero tutti buoni, questo precetto non saria buono; ma perché sono tristi, e non l’osserverebbono a te, tu ancora non l’hai da osservare a loro. Né mai a un Principe mancheranno cagioni legittime di colorare l’inosservanza”. Niccolò Machiavelli, Il Principe, Capitolo XVIII.

(8) Su questa linea, a titolo di esempio: Donatello D’Andrea, La comunicazione di Mario Draghi: la politica del silenzio, Il Corriere Nazionale, 27 marzo 2021 e Comunicazione e consenso al tempo di Draghi. L’analisi di FB&Associati/L’indicazione del nuovo inquilino di Palazzo Chigi è: “Comunicare solo quando c’è qualcosa da dire e far parlare i fatti”, una strategia molto diversa dal suo predecessore. Funzionerà? L’analisi di FB Bubbles sulla comunicazione del Governo e i suoi effetti sulle strategie di consenso delle forze politiche, 18 marzo 2021; Conte e Draghi i segreti della comunicazione di due premier spiegati dal prof. Mario Benedetto, in Lavori in corso, 25 marzo 2021.

(9) Elias Canetti, Masse und Macht, Hamburg, Claassen Verlag, 1960, 560 p. Traduzione italiana di Furio Jesi: Massa e potere, Milano, Rizzoli, 1972, 569 p. Poi nell’edizione pubblicata da Adelphi, 1981, dalla quale cito alle pp. 355-356.

(10) Cfr. Carl Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, München und Leipzig, Duncker & Humblot, 1921.XV-211 p. Traduzione italiana: Carl Schmitt, La dittatura: dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Roma-Bari, Laterza, 1975, XXX-288 p. Oggi nell’edizione a cura di Antonio Caracciolo, Roma, edizioni Settimo Sigillo, 2006, IV-338 p.

(11) Cfr. Giorgio Agamben, Stato d’eccezione. Homo sacer, 2.1., Torino, Bollati Boringhieri, 2003, 120 p.

(12) Giorgio Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020, p. 1

(13) Baldesar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Giulio Preti, Torino, Einaudi 1960, XXXI-441 p. [La citazione è a p. 44]. Il Trattato è stato scritto nel 1528.