Storia

Democrazia Futura. L’altro Otto Settembre

di Marco Severini, docente di Storia dell’Italia Contemporanea all’Università di Macerata |

I riflessi nelle Marche della situazione politico-militare venutasi a creare dopo l’armistizio raccontati da Marco Severini.

Marco Severini

Marco Severini analizza un episodio marchigiano di resistenza dopo l’occupazione tedesca di Ancona nei giorni successivi alla firma a Cassibile dell’armistizio dell’8 settembre con al centro il coraggio di una donna del popolo. Uno studio utile non solo per ritornare come fa l’autore sul dibattito storiografico sulla morte della patria lanciato negli anni Novanta da Ernesto Galli della Loggia, ma per inquadrare l’atteggiamento della popolazione marchigiana e in particolare pratiche esercitate da donne coraggiose come quelle qui descritte che tessono numerosi episodi di storia locale generalmente rimossi e comunque rimasti a lungo obliati, nella storia più generale nel nostro Paese delle mentalità collettive.

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Via dalla guerra

Nell’ultimo decennio del Novecento, la ricorrenza del 50° anniversario dell’8 settembre 1943 ha suscitato notevoli discussioni e prodotto una serie di ricerche importanti, dalla ricostruzione meticolosa di Elena Aga Rossi[1] al fortunato pamphlet La morte della patria di Ernesto Galli della Loggia[2] che, partendo da un brano poi diventato celebre del De profundis di Salvatore Satta, («La morte della patria è certamente l’avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell’individuo»[3]), ha spiegato il periodo tra l’8 settembre 1943 e la fine della guerra come una crisi che ha segnato irrimediabilmente l’Italia per il resto della sua storia, assestando alla classe politica nazionale una ferita mai più sanata. L’idea secondo cui con l’8 settembre sarebbe venuta meno l’idea stessa di patria e quella per cui la fondazione della Repubblica non riuscì a ricucire le divisioni e le lacerazioni precedenti. dal momento che essa fondò la propria legittimità non tanto su un’idea condivisa di nazione quanto sul rifiuto del fascismo sconfitto, sono state espresse per la prima volta nel 1992 e hanno trovato una sistemazione nel libro omonimo del 1996: Galli Della Loggia ha guardato al dibattito storiografico del 1993-95, senza peraltro attingere né alle interpretazioni di Claudio Pavone sulla moralità resistenziale[4] né al dibattito sulle zone grigie della Resistenza sollevato da Renzo De Felice[5].

Che di catastrofe si fosse effettivamente trattato era stato testimoniato da una celebre pagina vergata nei Diari da Benedetto Croce che, nel vuoto creato dai giorni «senza dignità» successivi all’8 settembre, rifletteva come, venuta meno ogni autorità, si fossero registrati la dissoluzione della comunità civile e l’abbandono degli italiani soli con sè stessi e con le proprie capacità di sopravvivenza:

Sono stato sveglio per alcune ore, […] sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente[6].

Nel 1996 uno dei più autorevoli protagonisti e testimoni della politica novecentesca, Vittorio Foa, ha ricordato con analoghe espressioni quel senso di abbandono, fornendo però un’interpretazione differente:

L’8 settembre del 1943 gran parte dell’Italia si trovò così non solo senza governo, ma senza Stato, priva di un punto di riferimento per l’attività civile e sociale. La paralisi di ogni attività amministrativa e soprattutto la dissoluzione dell’esercito con migliaia di ragazzi in fuga e allo sbaraglio, moltissimi dei quali catturati e deportati dai tedeschi, forniva un’immagine drammatica di vuoto e di dissoluzione. Su quel vuoto di Stato dell’8 settembre 1943 si è discusso molto negli ultimi tempi. Quelle giornate furono vissute come una catastrofe collettiva, la pace illusoriamente sognata alla caduta di Mussolini si allontanava […]. Ma come si può sostenere che in quei giorni si sia dissolta la percezione dell’Italia come nazione, come comunità distinta e omogenea nel costume, nella lingua, nei riti religiosi. È vero l’opposto. La stessa solidarietà fra nord e sud diede in quei giorni una inedita prova di sé. Lo sfascio dello stato era cosa reale. Da esso poteva nascere l’abbandono e poteva invece nascere (come nacque in moltissimi italiani e italiane e non solo nei resistenti) il proposito di ricostruire l’identità nazionale perduta[7].

Sempre nel 1996 è uscito l’ultimo tomo della lunga ricostruzione mussoliniana di Renzo De Felice: pagine penetranti da cui partiamo per introdurre un caso di studio finora ignorato dalla storiografia.

Il secondo capitolo di questo tomo, significativamente intitolato La catastrofe nazionale dell’8 settembre, iniziava trattando del ritorno sulla scena, dopo la liberazione dalla sua breve prigionia, di Mussolini: un ritorno scialbo e dimesso come il suo discorso tenuto da radio Monaco, un discorso «troppo debole politicamente» e pronunciato con una voce così diversa da quella abituale da far pensare a non pochi che non fosse la sua. Ma dopo neanche una pagina, la vicenda del dittatore fascista lasciava posto al vero protagonista del capitolo, il senso di sbigottimento e di paura proprio degli italiani all’indomani dell’annuncio dell’armistizio firmato il 3 settembre a Cassibile, uno stato d’animo di fronte al quale tutto passava in secondo piano, diventando «secondario, irrilevante», e non solo agli occhi delle masse ma anche di una parte della stessa compagine antifascista[8].

Con l’obiettivo di sbrogliare la complessa matassa, il grande storico reatino tornava indietro al 25 luglio, l’inizio dei 45 giorni badogliani, per certificare come le manifestazioni popolari di giubilo avessero avuto solo per una minoranza un carattere «politico», «patriottico e antifascista», mentre per la maggioranza degli italiani si era rivelato «soprattutto un fatto liberatorio». Gli italiani erano stanchi di tre anni di guerra, incrociavano le braccia e anelavano la pace. Ma tale stato d’animo sì trasformò in frustrazione e demoralizzazione a seguito della ripresa dei bombardamenti alleati, interrotti nei giorni successivi al 25 luglio, che si rivelarono particolarmente ingenti su Milano, Torino, Genova e Roma[9].

Dopo aver sottolineato che l’atteggiamento popolare nella penisola tra il 25 luglio e l’8 settembre doveva ancora essere studiato «con criteri storici»[10], De Felice citava un documento inglese del 27 luglio che definiva l’opinione pubblica italiana così «demoralizzata» da escludere che «gli spiriti» potessero risollevarsi. Ancora, gli scoppi di entusiasmo l’8 settembre, tutt’altro che univoci nelle principali città, non dovevano ingannare circa i due sentimenti predominanti tra gli italiani: da una parte il desiderio di pace e, dall’altra, il diffuso sentimento di paura e di incertezza che avrebbe fortemente aumentato la generale tendenza alla passività, al distacco dalle vicende politiche e alla sola preoccupazione di sé stessi. Tale tendenza risultò inizialmente attenuata dalla duplice speranza di un imminente sbarco alleato e del ritiro dei tedeschi «almeno da gran parte del paese». In realtà il corso degli eventi assunse tutt’altra piega nel giro di una decina di giorni: ad una guerra combattuta, ad eccezione della Sicilia, fuori dal territorio nazionale fecero seguito prima la divisione del Paese in due zone di occupazione militare e poi il più tremendo dei conflitti, la guerra civile. Questa nuova congiuntura non fece che aumentare nella maggioranza degli italiani la preoccupazione della propria sopravvivenza e la scelta di «defilarsi» rispetto ai due eserciti occupanti, in attesa della pace[11].

La frettolosa fuga, nelle prime ore del 9 settembre, del sovrano, di Badoglio e dei principali esponenti militari, i retroscena di questo frangente e la mancata difesa di Roma hanno costituito vicende deplorevoli che hanno indubbiamente facilitato il compito di Albert Kesserling. Questi, comandante supremo di tutte le forze tedesche nella Penisola, nel giro di tre giorni ottenne la resa delle truppe italiane e il loro disarmo. Tuttavia se il comportamento dei vertici politici e militari della capitale fu «riprovevole», «assurdo» e «spesso miserabile», la vicenda di Roma, dove sei divisioni italiane furono catturate da due tedesche, si differenziò dalle altre avvenute nella Penisola non tanto per la sproporzione delle forze contrapposte ma quanto per il ruolo che in essa, anche nella fase successiva di “Città aperta”, vi ebbero non solo «militari sfiduciati, politicanti senza principi, preoccupati solo della propria sorte, ma anche figure di tutto rispetto e fedeli monarchici»[12].

In buona sostanza, le vicende che avevano portato all’armistizio non potevano avere che come conseguenza la dissoluzione dell’esercito, dato che la principale preoccupazione della maggior parte dei soldati italiani fu quella di gettare le armi, svestirsi della divisa e procurarsi un abito civile per tornare alle proprie case e alla propria famiglia.

Lo stato psicologico e morale dominante di chi aveva alle spalle un triennio di combattimenti fu la sfiducia, la frustrazione, la stanchezza che originarono una catastrofe nazionale differente da quella subìta dalla Francia nel 1940, una catastrofe che per la maggioranza degli italiani significò «la morte della patria» e della nazione «come vincolo di appartenenza ad una realtà etico-politica» consapevole della propria «ragione storica»[13].

Se non mancarono in alcuni ufficiali il senso dell’onore nazionale e del dovere di non abbandonare i loro uomini, questo però non avvenne nella maggior parte degli ufficiali, dell’esercito e della popolazione stanchi ed esauriti, travolti da una specie di cupio dissolvi e dalla tendenza ad isolarsi e ad estraniarsi dagli avvenimenti.

Eloquenti di questo stato d’animo appaiono la scritta “Abbasso tutti”, comparsa nell’ottobre del ’43 su una spalletta del Lungotevere, e la testimonianza di Curzio Malaparte che definì l’8 settembre «un magnifico giorno» prima di annotare amaramente:

«È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti sono buoni, non tutti sono capaci di perderla»[14].

Dopo aver sottolineato le differenze tra le due parti occupate della Penisola, De Felice ricordava che la realtà psicologica e morale del Nord non subì un radicale mutamento tra 8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 così come l’atteggiamento generale della popolazione, a prescindere dal suo coinvolgimento nella guerra civile[15].

Cambio di strategia

La notizia dell’armistizio firmato cinque giorni prima in un uliveto a Cassibile, in Sicilia, venne radio-trasmessa alle 19.45 dell’8 settembre, ripetuta nel radio-giornale delle 20: subito si registrarono manifestazioni di giubilo in diverse città della Penisola, ma non in tutte.

L’Italia si ritrovò di nuovo nel caos: gioia e feste lungo le strade, tornava a circolare l’idea che guerra e fascismo fossero finiti, anche se il fatto che gli italiani gioissero delle proprie disfatte militari indicava l’evidente dissociazione già avvenuta nelle loro coscienze.

Rimasto senza ordini, l’esercito sbandava, i soldati seguivano gli ufficiali in fuga, svestendo le divise, mentre caserme e presìdi venivano abbandonati e saccheggiati. Un mese dopo, l’occupazione tedesca e la dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Badoglio (13 ottobre 1943) infransero qualsiasi dubbio circa l’immediato futuro.

L’ambiguità del comunicato radio di Badoglio suggellò il comportamento dell’alto comando italiano durante il secondo conflitto mondiale: il re fuggì, l’esercito si dissolse, i soldati tentarono di raggiungere le proprie dimore, ma più di mezzo milione di loro vennero catturati dai tedeschi e spediti nei campi di internamento e concentramento del Reich come Internati militari italiani. È il momento più buio della nostra storia. Il quadro militare italiano appariva abbastanza chiaro: con un Mezzogiorno liberato dagli alleati e ospitante il governo del re fuggitivo e un Centro-nord occupato militarmente dai tedeschi, la penisola si apprestava a diventare un enorme campo di battaglia e a chiedere alla popolazione civile i sacrifici e le rinunce più grandi.

La Germania nazista s’impadronì militarmente dell’Italia, un «alleato-occupato» che si era macchiato di tradimento, e poté dar luogo velocemente ai piani di deportazione e sterminio in quanto le procedure preparatorie erano già state approntate dal regime fascista.

Questa situazione politico-militare e questi sentimenti popolari ebbero un riflesso particolare nelle Marche, una periferia composta da tre microcosmi (fascia costiera, area collinare e zona montuosa), che aveva subìto un certo trauma solo durante la Grande guerra ed avrebbe giocato nel 1944 un ruolo-chiave nella vicenda italiana della seconda guerra mondiale[16].

Infatti, la strategia alleata puntava a sfondare la Linea Gustav nel settore occidentale, attaccando dalla testa di ponte di Anzio-Nettuno per tagliare la ritirata dei due Corpi d’armata tedeschi prima che potessero sganciarsi dall’offensiva angloamericana; successivamente gli alleati intendevano avanzare rapidamente fino alla Pianura padana lungo la direttiva Roma-Firenze-Bologna, aprendo così la possibilità di puntare alla sella di Lubiana e portare la guerra sul territorio stesso del Reich. Ma la fiera resistenza tedesca guidata da Albert Kesserling, che poté beneficiare di alcuni rinforzi, il ritardo dell’arrivo delle truppe statunitensi, il ritiro dal teatro italiano di sette divisioni da impiegare in previsione dello sbarco in Provenza, l’arresto dei carri armati della 8a armata che s’impantanarono nel fango del territorio appenninico in un autunno eccezionalmente piovoso, fecero sostanzialmente fallire i due scopi principali della strategia alleata, cioè la distruzione dell’esercito tedesco e l’arrivo sul Po[17]. La Linea Gustav poté essere distrutta solo nel maggio del 44 cosicché la nuova offensiva alleata puntò al territorio marchigiano per sfondare la Linea Gotica, in previsione di raggiungere al più presto il Po: in questo disegno va inserito il contributo prestato dalle forze italiane del Corpo italiano di liberazione che combatté, all’indomani dell’8 settembre 1943, al fianco delle truppe alleate: un contributo subordinato e circoscritto rispetto alle forze alleate, ma che deve essere considerato significativo sul piano politico-militare, ai fini della liberazione della Penisola, nonostante la circoscritta autonomia del Regno del Sud e la sua ridotta capacità militare[18]. Dal settembre del ’43, l’occupazione tedesca del territorio marchigiano comportò sulla popolazione pesanti conseguenze determinate dalla requisizione di tutto ciò che aveva valore; i considerevoli bombardamenti che colpirono soprattutto le località principali e gli insediamenti industriali; la terribile realtà dei campi di internamento, deportazione e concentramento (oltre cento ne vennero attivati e la loro memoria sarebbe andata presto perduta[19]); l’esodo disordinato dall’area costiera e, in particolare, dai centri urbani principali, che presto si trasformò in un’autentica fuga; i combattimenti e le morti causate dagli scontri tra partigiani e nazifascisti; il cumulo di privazioni, morti, sofferenze e distruzioni causato dal transito dell’occupazione tedesca, dagli scontri militari e dalla guerra civile; tutto ciò creò tra i marchigiani profondi sentimenti di spaesamento, inquietudine e rassegnazione.

Un trauma esistenziale frantumò il tradizionale isolamento della civiltà mezzadrile e contadina, inflisse pesanti danni materiali alla periferia adriatica e mise fuori uso il sistema economico-produttivo locale, assestando un colpo ferale alla rete delle comunicazioni e dei trasporti, a buona parte del patrimonio urbanistico pubblico e privato e di quello zootecnico e, soprattutto, alla popolazione civile. La vicenda resistenziale riguardò nelle Marche un territorio prevalentemente collinare e montuoso, difficile da attraversare sia per le asperità morfologiche che per l’arretratezza della rete stradale: ciò, da una parte, facilitò i partigiani nella creazione delle bande e nell’attuazione di attacchi improvvisi nei confronti dei convogli in transito e, dall’altra, comportò seri problemi per i nazifascisti. Tuttavia, in considerazione di una società rurale isolata e frantumata, il movimento resistenziale vide estremamente complicati sia i propri spostamenti verso i centri abitati sia i collegamenti e i rifornimenti[20].

In questo contesto andò in scena ad Ancona una vicenda eccezionale che per 78 anni sarebbe rimasta avvolta dal silenzio. Una vicenda di resistenza civile femminile, al pari di coloro che nascosero gli ebrei, aiutarono i ricercati politici e i renitenti alla leva, svolsero propaganda contro la guerra o praticarono azioni di sabotaggio e di boicottaggio contro i tedeschi. Nel compiere una o più fra queste scelte si correvano gli stessi pericoli di chi era impegnato in armi o nella lotta clandestina, cioè la cattura, l’eliminazione fisica o l’internamento nei lager tedeschi dove si trovava prigioniero chi, tra ’43 e ’44, aveva manifestato, a vario titolo, la propria ostilità contro il regime nazifascista. Ma proprio in quanto femminile non deve stupire che tale vicenda sia andata dispersa nei rivoli della dimenticanza e di un maschilismo che avrebbe continuato a dominare la scena politica nazionale agli inizi dell’età repubblicana[21]. Prima però è necessario raccontare come uno scalo strategico come Ancona si arrese ai tedeschi senza neanche combattere.

Colpo formidabile

La storia della seconda guerra mondiale è fatta di vicende tragiche ed efferate come quelle riguardanti i bombardamenti che hanno colpito quasi ogni città italiana dall’11 giugno 1940 al maggio 1945. L’Italia centrale non è stata attaccata fino alla primavera del 1943 per diventare, nei quindici mesi seguenti, la parte più bombardata del Paese mentre il fronte, lentamente, si spostava dal sud al nord della penisola. Nei libri di storia solitamente vengono ricordati i principali centri industriali e portuali attaccati, ma poche volte è stata citata Ancona, capoluogo marchigiano situato a metà del mar Adriatico. Ad Ancona i 45 giorni badogliani erano trascorsi all’insegna dell’attesa e del recupero di una certa tranquillità, dopo un prolungato periodo di malessere e di sfiducia che aveva portato nelle vie del centro, nell’aprile precedente, 150 popolane reclamanti pace e pane. Incarcerati i principali esponenti fascisti e liberati gli antifascisti, questi ultimi avevano cercato di riorganizzarsi, gettando le basi per la futura lotta resistenziale, anche se disponevano ancora di scarsi collegamenti con le masse, con i comunisti che risultavano la forza meglio organizzata. Dominò comunque, tra ansie e paure continuamente serpeggianti, un certo spirito unitario e moderato, visto che la popolazione affollava le cerimonie religiose e la Chiesa svolse un ruolo di primo piano di assistenza e penetrazione tra la popolazione; c’era la sensazione che la vita democratica potesse riprendere[22].

Il Comando militare di zona – il capoluogo marchigiano apparteneva alla 24a Zona militare italiana, dipendente dal VI Comando difesa territoriale di Bologna – aveva sede in Piazza del Plebiscito ed era nelle mani del generale di brigata Rodolfo Piazzi, un cinquantasettenne maceratese che aveva fatto una fulminea carriera; c’era anche un altro generale, Gualtiero Santini, fuori città per incarichi ispettivi; una volta rientrato in Ancona, Santini avrebbe fatto proprio il comportamento assunto da Piazzi, perdendosi in un atteggiamento indeterminato e dilatorio[23]. Ad ogni modo, la difesa di Ancona poteva contare su circa 4 mila uomini ben armati ed equipaggiati e su piani di difesa già approntati.

Alla notizia dell’armistizio si registrarono nel capoluogo, come nelle principali località della provincia, manifestazioni di gioia analoghe a quelle verificatesi il 25 luglio precedente. Subito dopo, le forze antifasciste locali si riorganizzarono, strinsero un patto di pacificazione con i fascisti locali, occuparono la sede del Corriere Adriatico, il principale giornale della città e della regione, e chiesero armi ai militari che però opposero un deciso rifiuto. Nessuno aveva ancora fatto i conti con i tedeschi che avevano lasciato in tutta fretta il capoluogo marchigiano tra il 10 e il 12 settembre, diretti verso il nord della penisola; non mancavano peraltro indicazioni che facevano pensare a un’imminente concentrazione di forze tedesche. Come nei 45 giorni badogliani, tornava ad insinuarsi tra gli anconetani l’illusione secondo cui la loro città, magari per la tradizione sovversiva e antifascista o per un accordo tra antichi e nuovi governanti o, ancora, in nome di ritrovati ideali patriottici, potesse venir risparmiata dai bombardamenti dell’aviazione alleata[24].

Ma anche ad Ancona, come a Roma, la paura più grande consisteva nel cadere nelle mani dei tedeschi. Questi ultimi, dopo qualche giorno di silenzio, misero in atto un incredibile colpo di mano: un manipolo di circa 200 unità occupò la città, piazzando una mitragliatrice al porto, marchiando con una croce uncinata alianti e idrovolanti ancorati allo scalo per segnalarne l’avvenuto possesso e installando il proprio quartier generale sul panfilo reale Savoia, ormeggiato in avaria e utilizzato solitamente per cerimonie di rappresentanza.

Guidava i tedeschi un trentasettenne tenente di vascello, Heinz Eberhard Streitenfeld, un marittimo che lavorava per un’importante compagnia armatrice germanica ed era stato poi militarizzato allo scoppio del conflitto[25].

Streitenfeld occupò le sette caserme cittadine, a cominciare dalla principale, Villarey, imprigionò i soldati italiani e prese possesso della città: il contingente militare al suo comando venne raggiunto da lì a poco da consistenti rinforzi.

Promosso capitano, Streitenfeld ricevette il 20 settembre 1943 la Croce d’oro di guerra per un’impresa clamorosa: la conquista di Ancona senza sparare un colpo e la carcerazione di circa 4 mila militari italiani che, subito rinchiusi nelle sette caserme cittadine, iniziarono ad essere trasportati in Germania come Imi. Fu Hitler in persona a classificarli Italienische Militär-Internierte, (Internati militari italiani, Imi) e a imporre la loro veloce traduzione nei campi del Reich: per agevolare tale operazione, il dittatore nazista inviò in Ancona una cinquantina di ferrovieri tedeschi che presero servizio il 18 settembre che furono sistemati all’albergo “Fortuna”, tuttora esistente, davanti alla stazione.

Anche in Ancona gli italiani si arresero senza combattere: il generale Piazzi avrebbe scritto nelle sue memorie e affermato al processo cui sarebbe stato sottoposto, insieme al collega Santini nel dopoguerra, di essersi così comportato per l’assenza di ordini da parte del governo del Sud; in mancanza di comunicazioni telefoniche, Piazzi, che qualche giorno prima aveva diramato l’ordine a sbandati e militari di presentarsi in caserma per essere nuovamente equipaggiati ed inquadrati[26], si sarebbe abboccato al porto con Streitenfeld che avrebbe offerto a lui e ai soldati italiani di passare a combattere con i tedeschi: pochissimi militi italiani accettarono di passare con l’ex alleato, non Piazzi che, insieme agli altri vertici militari, venne arrestato e successivamente deportato a Schokken (l’odierna Skokki), in territorio polacco, insieme ad altri 209 parigrado, tra generali e ammiragli[27].

Due interrogativi s’impongono a questo punto: perché il generale Piazzi non ha fatto valere il suo grado superiore sul capitano Streitenfeld e l’innegabile posizione di forza, facendo affluire al porto truppe che certo non gli mancavano per bloccare qualsiasi manovra tedesca? E, in secondo luogo, quanto ha pesato in Ancona quel generale sentimento di paura, isolamento e passività da cui siamo partiti sulla scia del lavoro di De Felice?

Venti anni dopo i fatti del 1943 il colonnello Giovanni Pascucci, uno dei «principali protagonisti» di quella vicenda e di fatto n. 2 della caserma Villarey, stanco del «lavoro di fantasia» sui drammatici eventi del settembre del ’43 a cui aveva assistito per tanto tempo, metteva a disposizione della stampa locale una propria relazione sugli eventi che, in sintesi, discolpava soldati e ufficiali dalla mancata reazione militare e assegnava allo «stato psicologico» di quel frangente la responsabilità dei fatti. Secondo Pascucci, i soldati rientranti in Ancona avevano recato notizie allarmanti circa la liquefazione in atto da parte dell’esercito nazionale, determinando «uno stato d’animo pericoloso e difficile a dominarsi». Inoltre, lo sconcerto tra la truppa aveva avuto origine nello sconclusionato proclama dell’8 settembre:

Il bando di Badoglio “la guerra continua” creò smarrimento e confusione in tutti. “La guerra continua” contro chi? Io penso che questo bando e la mancanza di precise direttive da parte degli organi superiori sia stata la causa di molti errori commessi[28].

Il formidabile colpo assestato da Streitenfeld, che conosceva molto bene la città avendovi trascorso l’intera estate con incarichi logistici, ribaltò completamente la situazione: come già sopra menzionato, Ancona venne conquistata dai tedeschi, le truppe italiane vennero disarmate e carcerate e, nel giro di un mese, internate nel Reich come Imi, una manodopera molto utile per i disegni bellici della Germania nazista[29].

Si trattò di un dramma anche generazionale: un’intera generazione di italiani si vide rubata, con quella deportazione, la giovinezza; pochissimi internati passarono a vestire la divisa nazista, mentre tutti gli altri affrontarono un destino di privazioni e sofferenze indicibili: 40 mila soldati italiani morirono in terra straniera, tra fame, freddo e violenze. Chi sopravvisse a questo dramma, una volta tornato a casa, avrebbe avuto tante cose da raccontare, ma avrebbe trovato poche persone ad ascoltarli e ancora meno a dare loro conforto[30].

Alda, una rosa tra tante spine

Questa situazione spinosa, con il trasporto quotidiano dei prigionieri italiani verso il Reich fino al 16 ottobre 1943, giorno del primo bombardamento alleato su Ancona e tre giorni dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia alla Germania nazista, venne rischiarata dal coraggio civile di una umile popolana che divenne protagonista di una vicenda eroica.

Alda Renzi era di casa alla principale caserma cittadina Villarey, che si trovava a pochi metri dalla sua umile dimora, in quanto si occupava di rammendare le divise di ufficiali e soldati e di lavare le tovaglie della mensa; era una grande lavoratrice che si faceva in quattro per non far mai mancare da mangiare alle quattro figlie avute da Cesare Lausdei, impiegato nel settore ristorativo, portato via dalla spagnola i primi del novembre 1918. Alda, nata in un quartiere popolare di Ancona il 15 novembre 1890, si era messa, per sbarcare il lunario, a fare tre lavori: si alzava alle 4.00 di mattina per andare ad aiutare il panettiere; poi si recava in caserma a sbrigare le faccende e infine prestava servizio dal calzolaio del quartiere che le offriva una manciata di lire a settimana per cucire suole per le scarpe. Alda non si fermava mai: nessuno svago, nessun riposo e se andava al cinema lo faceva per accompagnarci figlie e nipoti; solo la domenica pomeriggio, quando i negozi erano chiusi, andava a trovare amiche e parenti al rione S. Pietro.

Nel suo quartiere tutti rispettavano Alda, una donna che non smetteva di pensare agli altri e trovava sempre qualcuno da aiutare: Alda non era mai andata a scuola, parlava solo il dialetto, ma aveva un cuore davvero grande; durante il conflitto, si accorse delle peggiorate condizioni di vita della popolazione dalla magrezza dei giovani militari che incontrava quotidianamente in caserma.

Giovedì 16 settembre, Alda trovò al posto delle conosciute sentinelle i tedeschi che, dopo aver imprigionato migliaia di italiani, consentirono ai familiari di andarli a trovare. Alda notò che agli uomini entranti i tedeschi apponevano sulla mano una contromarca, ma non alle donne né ai religiosi o ai fascisti.

Le balenò così un’idea semplice quanto eccezionale che espose alle sue amiche, sarte e casalinghe, del quartiere Pantano in cui viveva: andare in gruppo a far visita ai soldati, travestirne quanti più possibile da donna, prete, suora o fascista e farli così scappare; tutto il quartiere prese parte a quest’opera di salvataggio collettivo che necessitava di collaborazione e supporti logistici ed era altamente rischiosa; anche i muratori che stavano ristrutturando una parte della caserma fecero la loro parte e gli stessi bambini della zona diedero una mano.

L’aiuto maggiore arrivò dal clan familiare, interamente femminile, e da Irma Baldoni Di Cola che, nata a Civitavecchia nel 1893 da umile famiglia, si era trasferita ad Ancona e vi aveva trovato lavoro di sarta, guarda caso nei pressi della caserma Villarey[31].

Il piano di Alda e socie funzionò e circa 300 soldati riuscirono a trovare la libertà. Alcuni di loro, provenienti dalle più disparate periferie italiane, sarebbero tornati a conflitto finito in Ancona per ringraziare la loro benefattrice, ma se ne sarebbero andati via rattristati dopo aver saputo che Alda era morta, insieme a metà della sua famiglia e ad altre 720 persone, durante il bombardamento aereo del 1° novembre 1943.

Tutte queste persone avevano trovato riparo nel rifugio di Santa Palazia che, diviso in due parti, accoglieva sia civili sia militari: si trattava di un ex convento, costruito nel 1590 per volontà di papa Sisto V e consacrato nel 1630, soppresso da Napoleone, poi brevemente riaperto al culto nella prima metà dell’Ottocento, trasformato in istituto carcerario nel 1864, infine adattato durante la seconda guerra mondiale a rifugio antiaereo[32].

Ancona venne bombardata dall’aviazione alleata per la prima volta il 16 ottobre 1943: dall’aeroporto di Grottaglie, in provincia di Taranto, sono decollati 36 B 25 Mitchell, caccia-bombardieri dell’aviazione statunitense, scortati da 48 caccia P-38 Lightning aventi il compito di verificare la potenza delle posizioni contraeree di Ancona e di contrapporsi ad esse per proteggere i Mitchell; al rientro i rapporti dei bombardieri riportarono la mancanza di una concreta opposizione anti-area; il bombardamento ebbe inizio a quasi 3 mila metri di altezza, i velivoli sganciarono 288 bombe da 113 chilogrammi ciascuna che colpirono i principali obiettivi cittadini.  Non è chiaro se i venti rifugi previsti fossero stati tutti approntati, certamente erano pochi per una popolazione come quella di Ancona.

Il vero e proprio dramma si compì il 1° novembre successivo, festa di Ognissanti: altri 37 caccia-bombardieri B 25 Mitchell trafissero, in due diversi momenti, bersagli cruciali come il porto, il Guasco, San Pietro; quattro ordigni squarciarono l’ex carcere di Santa Palazia.

Piovvero bombe ovunque: la prima ostruì l’uscita su via Fanti, una delle arterie più belle della città che scomparve quel giorno; la seconda centrò il cuore del rifugio, facendo crollare tutta la terra del giardino che sovrastava il carcere e intrappolando dentro la galleria centinaia di persone; gli ultimi due ordigni sconquassarono un settore del carcere e il suo ultimo ingresso.

Dopo il bombardamento lo scenario apparve terribile: morti e feriti ovunque, distruzione, un’incredibile puzza di fumo. L’odore acre, insieme alla ferale notizia delle distruzioni, arrivò in tutti i quartieri cittadini; fu un carrettiere a portare la tragica notizia che due bombe avevano colpito proprio Santa Palazia.

Le voci si rincorsero in maniera frenetica, finché il giorno dopo la gente si mise a scavare sotto il cumulo delle macerie: scavarono amici, parenti, chiunque. Il bilancio, come detto, risultò terrificante: morirono ad Ancona, quel 1° novembre, 724 persone: la maggior parte di queste perì a causa dello spostamento d’aria determinato dallo scoppio delle bombe nei pressi dei due ingressi dell’ex carcere.

Le operazioni di riconoscimento durarono ventisei anni, andando incontro a difficoltà di ogni tipo: logistiche, poiché dopo sei giorni le ricerche vennero interrotte a causa di nuovi bombardamenti; strutturali, in quanto era collassato il muro di contenimento di un corridoio delle antiche carceri; burocratiche, dal momento che nonostante le ripetute proteste della gente, le autorità attesero la scadenza del termine legale (dieci anni) per abbattere il muro di protezione del cunicolo e poter quindi accedere.

Solo nel 1969 la maggior parte delle vittime trovò sepoltura nel cimitero cittadino, in un monumento funebre edificato per ricordare alla comunità dorica quel tragico evento. Il sacrario, progettato da Augusto Rossini, conteneva peraltro degli errori nei nominativi: tra i tanti, Alda Renzi vi venne indicata come Elda.

All’uscita del libro che ha ricostruito la storia di Alda (25 aprile 2021), in pieno contesto pandemico, alcune associazioni dell’Anconetano si sono mobilitate per far apporre dalle pubbliche autorità una targa in ricordo dell’eroina, morta sotto i bombardamenti alleati del 1° novembre 1943, ma hanno dovuto fare i conti con le lentezze e la trascuratezza della burocrazia; solo il 1° novembre 2022, nel luogo che vide protagonista la coraggiosa popolana (l’ex caserma militare Villarey, oggi polo universitario), la targa è stata inaugurata alla presenza di autorità e folto pubblico[33].

In secondo luogo, i carteggi e la documentazione archivistica su cui si è sostanziata la ricerca si trovavano a disposizione da diversi anni presso l’Archivio di Stato di Ancona, senza però che studiosi e storici se ne fossero occupati: anzi, l’uscita della terza edizione, nel 2020, dell’unica ricostruzione d’insieme sul processo resistenziale marchigiano, mostrava chiaramente di ignorare la suddetta documentazione, mentre una nota, non propriamente esatta, si limitava a menzionare la sopra citata popolana[34].

Una storia nella storia: la salvatrice indomita di tanti soldati, la donna che non smetteva mai di avere un pensiero per gli altri, è morta sotto le bombe di quel funesto 1° novembre, insieme a due figlie Lidia e Liviana, rispettivamente di 31 e 29 anni, al cognato Salvatore Noviello, trentacinquenne, e a quattro nipotini: Elda, di undici anni, Mara, di sei, Paola ed Evandro, rispettivamente di quindici e diciotto mesi[35]. Otto morti. Una famiglia squarciata. La metà del clan superstite era riuscita a sfollare nelle montagne dell’Anconetano: nel dopoguerra si sarebbe tenuto quel lutto enorme tutto per sé e avrebbe preferito non raccontare quello che le carte d’archivio hanno recentemente svelato.

Maria Bagnacani, a cui era morta la nuora incinta nel primo bombardamento alleato su Ancona e che pur con una ragazzina di 13 anni si era rifiutata di entrare a Santa Palazia[36], ha ricordato di aver visto Alda entrare per ultima in quel rifugio poi divenuto una trappola mortale: ha notato che Alda si era portata dietro il lavoro a maglia, dato che spesso vi rimaneva delle ore nella struttura.

Alda Renzi non è stata un’eroina per caso:

È una donna che, consapevole del rischio più grande che si poteva correre in pieno conflitto mondiale, ha dato vita a un caso clamoroso di Resistenza civile. Al femminile, è bene sottolinearlo. Così come non ci si può dimenticare della pena che un simile atteggiamento comportava secondo la legge tedesca, cioè la morte[37].

Una tremenda nemesi. Ma anche l’ennesima testimonianza di come la storia delle italiane abbia molto da insegnare a tutti noi.


[1]Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, il Mulino, 1993, 168 p.

[2] Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1996, 147 p.

[3] Salvatore Satta, De profundis, Milano, Adelphi, 1980, 184 p. [questa citazione si trova a p. 16.

[4] Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, 826 p.

[5] Renzo De Felice, Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini & Castoldi, 1995, 169 p. [si vedano al riguardo le pp. 22-23].

[6] Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, op. cit. alla nota 2, pp. 3-4.

[7] Vittorio Foa, Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996, x-391 p. [la citazione è alle pp. 167-168].

[8] Renzo De Felice, Mussolini l’alleato. II. La guerra civile 1943-1945, Torino, Einaudi, 1997, X-768 p. [si vedano le pp. 72-73].

[9] Renzo De Felice, Mussolini l’alleato. II. La guerra civile 1943-1945, op. cit. alla nota 8, p. 74.

[10] Ibidem, nota 1.

[11] Ibidem, pp. 75-77.

[12] Ibidem, pp. 81-82, 85.

[13] Ibidem, p. 87.

[14] Citato, ibidem, p. 97.

[15] Ibidem, p. 101.

[16] Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008, 198 p. [si vedano le pp. 17-23].  

[17] Roger Absalom, La strategia alleata sul fronte Adriatico, in La guerra nelle Marche 1943-1944, a cura di Sergio Sparapani, Ancona, il lavoro editoriale, 2005, 189 p. [il testo è alle pp. 25-27].

[18] Marco Severini, “Liberazione e Resistenza”, in La Resistenza in una periferia. Senigallia e il suo circondario tra 1943 e 1944, a cura di Marco Severini, Fano, Aras, 2014, 178 p. [il contributo si trova alle pp. 24-25].

[19] Giuseppe Morgese e Daniele Duca, Una regione e i suoi campi. Tra concentramento, internamento, liberazione, deportazione e supplizio (1940-1944), Venezia, Ikona, 2014, 224 p.

[20] Marco Severini, “Liberazione e Resistenza, loc. cit. alla nota 18, p. 18.

[21] Su questi temi mi sia consentito rinviare alla mia monografia, appena uscita, Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni, Venezia, Marsilio, 2023, 440 p.

[22] Massimo Papini, “25 luglio – 8 settembre 1943 La transizione verso la Resistenza”, in Paolo Giovannini (a cura di), L’8 Settembre nelle Marche. Premesse e conseguenze, Ancona, il lavoro editoriale, 2004, 248 p. [il testo è alle pp. 21-43].

[23] I generali Piazzi e Santini vennero arrestati  il 21 settembre 1943 con tre accuse: aver ostacolato la collaborazione di ufficiali e truppa con i tedeschi, aver facilitato il passaggio di armi alla popolazione contro le truppe germaniche, non aver accettato ripetutamente di sostenere queste ultime. Le prime due accuse erano clamorosamente false, la terza vera. Lo storico Santo Peli ha aggiunto ai precedenti un quarto addebito, quello di «aver compilato liste di fascisti da incarcerare». Entrambi sarebbero stati prosciolti in sede processuale. Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2015, p. 33; Lilia Bevilacqua, Attilio Bevilacqua, Ancona cronache di guerra 25 luglio 1943 – 18 luglio 1944, affinità elettive, Ancona 2014, 230 p. [si vedano le pp. 102-103]. Reduce dalla deportazione in Germania e forte di una sentenza in suo favore dal tribunale di Firenze che lo scagionava da ogni responsabilità, il generale Gualtiero Santini querelò e costrinse Massimo Salvadori ad aggiungere nel suo libro (La Resistenza nell’Anconetano e nel Piceno, Opere Nuove, Roma 1962). un «errata corrige» in virtù del quale tutti i riferimenti che riguardavano la sua persona sarebbero stati trasformati in positivo. Santini sosteneva, tra l’altro, di aver ostacolato la collaborazione con i tedeschi e di essersi opposto «per quattro volte» a qualsiasi cooperazione con questi ultimi e con la RSI e di aver ricevuto la piena assoluzione dal tribunale di Firenze e un encomio del ministero della Difesa che, oltre a riconoscerlo «ufficiale generale mutilato ed invalido di guerra, catturato dai tedeschi ed internato in Germania», attestava che si era rifiutato di aderire alla Rsi, preferendo al rimpatrio «il duro sacrificio della prigionia, particolarmente penosa per le sue menomate condizioni fisiche». Ruggero Giacomini, Storia della Resistenza nelle Marche 1943-1944, Ancona, affinità elettive, 2020, 504 p. [si vedano le pp. 33-34].

[24] Per il dettaglio di questi avvenimenti rinvio a Marco Severini, Fuga per la libertà. Storia di Alda Renzi e di un salvataggio collettivo nel 1943, Fano, Aras, 2021, 232 p. [si vedano le pp. 74-89].

[25] Notizie sul personaggio, figlio di Ludwig, l’ultimo pittore di corte del Granducato di Meclemburgo-Strelitz, In Marco Severini, Fuga per la libertà…, op. cit. alla nota 24, pp. 91-106.

[26] Ruggero Giacomini, Storia della Resistenza nelle Marche, op. cit. alla nota 23, p. 28.

[27] Marco Severini, Fuga per la libertà…, op. cit. alla nota 24, p. 123.

[28] Giovanni Pascucci, “La cattura delle truppe italiane alla Caserma Villarey”, in Archivio di Stato di Ancona, Fondo Marinelli, b. 93, fasc. 260, p. 2. Ora interamente riportato in Marco Severini, Fuga per la libertà…, op. cit. alla nota 24, pp. 209-217. Va comunque ricordato che uno dei primi eventi resistenziali italiani avvenne, il 12 settembre 1943, ad Ascoli Piceno dove popolane e popolani supportarono il migliaio di avieri di stanza in città che, ribellatisi ai tedeschi, li cacciarono dalla città. L’esempio positivo di Ancona è stato contrapposto a quello negativo di Ancona, arresasi agli occupanti senza neanche combattere: Ruggero Giacomini, Storia della Resistenza nelle Marche, op. cit. alla nota 23, pp. 32-33.

[29] Lutz Klinkhammer, Zwischen Bündnis und Besatzung: Das Nationalsozialistische Deutschland und Die Republik Von Salò 1943-1945, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2014, 625 p.. Traduzione italiana: L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, 704 p. [si veda p. 423]; David G. Williamson, The Third Reich. London, Wayland, 1988, 64 p. Poi riveduto e ampliato nel 2002: London, Pearson, 20023, 240 p. Traduzione italiana: Il Terzo Reich, Bologna, il Mulino, 2005, 253 p. [si veda p. 183].

[30] Lilia Bevilacqua, Attilio Bevilacqua, Ancona cronache di guerra…, op. cit. alla nota 23, p. 8.

[31] Un profilo di Irma in Dizionario biografico delle donne marchigiane 1815-2022, a cura di Lidia Pupilli e Marco Severini, Ancona, il lavoroeditoriale, 20225, 380 p. [pp. 28-29]. La prima edizione risale al 2018.

[32] Il 1° e 7 novembre 2021 il rifugio dell’ex carcere di Santa Palazia è stato eccezionalmente riaperto alla cittadinanza per ricordare i tragici eventi bellici che colpirono Ancona durante la seconda guerra mondiale: Riapre il rifugio del carcere di Santa Palazia Luogo della memoria della Seconda Guerra, in «il Resto del Carlino» (Ancona), 27 ottobre 2021.

[33] Una targa commemorativa per Alda Renzi Lausdei, in «il Resto del Carlino» (Ancona), 3 novembre 2022.

[34] Ruggero Giacomini, Storia della Resistenza nelle Marche, op. cit. alla nota 23, p. 39.

[35] Marco Severini, Fuga per la libertà…, op. cit. alla nota 24, p. 46.

[36] Ibidem, p. 45.

[37] Ibidem, p. 33.