L'appello

Democrazia Futura. La RAI come parla agli utenti digitali?

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

Lettera aperta di Michele Mezza alla Presidente Soldi sul rinnovo del contratto di servizio e della Convenzione decennale in scadenza nel 2027.

In previsione del rinnovo non solo del contratto di servizio ma anche della Convenzione decennale in scadenza nel 2027 che dovrà traghettare la Rai nel prossimo decennio credo che l’attuale consiliatura prima della sua scadenza nella primavera 2024 dovrebbe rispondere ad una serie di interrogativi.

·  Quali sono i nodi su cui il Servizio pubblico dovrebbe garantire al Paese un ruolo attivo?

·      Quale la strategia sociale che dovrebbe adottare per ripensare il suo ruolo nell’abbondanza digitale?

·      Ma come la Rai a cento anni dall’inizio della radiofonia in Italia all’inizio del fascismo, superare ogni condizionamento politico?

In questa lettera aperta alla presidente della Rai, dottoressa Marinella Soldi, Michele Mezza, giornalista Rai oggi in pensione e docente dell’Università Federico II di Napoli, sintetizza quelli che ritiene i nodi di un possibile servizio pubblico radiotelevisivo 2030.

L’obiettivo è invertire quell’aforismo che Mezza cosi formula, fotografando la parabola discendente del sistema televisivo generalista: “Ognuno che muore era uno spettatore del servizio pubblico, ognuno che nasce la Rai non la incontrerà mai”.
Democrazia futura rispondendo all’appello di Mezza, intende aprire una riflessione a 360 gradi sui punti qualificanti delle proposte qui rivolte, e sarà felice di ospitare il parere di esperti e professionisti a cominciare dai punti di vista dell’attuale gruppo dirigente aziendale.

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Michele Mezza

Gentile Presidente,

mi permetto di importunarla con una lettera aperta sulle prospettive e i problemi dell’azienda che Lei presiede, anche in virtù di quella sensibile e costante apertura al confronto che ha espresso in numerose occasioni.

Per altro il suo incarico integrativo nel Board della BBC mi consente di ragionare su uno scenario più vasto sapendola interessata ad andare oltre i temi più contingenti.

Ho alle spalle quarant’anni di esperienze alla Rai, prima come giornalista sul campo, poi come parte di progetti di innovazione della fabbrica delle news. In particolare sono stato impegnato nel progetto editoriale di Rainews24, nel 1998, e della sua realizzazione l’anno successivo. Non credo che troverà nel novero dei Suoi collaboratori o più in generale qualcuno che ricordi la mia presenza in azienda, a conferma che sono stato proprio uno dei tanti. Forse con l’unico privilegio di aver potuto, sia al tempo dell’unificazione dei Giornali Radio sia del canale digitale All news, contribuire ai due unici cambiamenti che hanno provato a connettere la Rai a quanto stava accadendo.

In quel tempo, parliamo di 25 anni fa ahimè, avevamo dinanzi esattamente lo stesso problema: come dare un senso e un ruolo ad una fabbrica di informazione nazionale nel processo di socializzazione della produzione e distribuzione di news. La differenza era che allora eravamo nella fase iniziale, e la nostra azienda avrebbe potuto, con la sua massa critica e aura professionale, dare forma a uno stile, a una modalità che potevano condizionare lo sviluppo del fenomeno. Oggi siamo invece in una progressiva evoluzione guidata e determinata dai grandi produttori di intelligenze e di memorie.

Come avrà notato non ho ancora usato il termine digitalizzazione, quanto l’espressione “socializzazione della produzione e distribuzione delle news”. Io, ultimo della fila di ben altri pensatori, aderisco alla visione per cui la tecnologia è essenzialmente forma di relazione e domande sociali e non regia occulta di distorsione e sovrapposizione dei nostri comportamenti. Ovviamente ho ben presente che i proprietari di queste forme relazionali, in mancanza di azioni di contrasto e contenimento da parte di soggetti pubblici, quale la Rai dovrebbe essere, occupano spazi ed esercitano poteri di controllo e indirizzo del tutto indebiti.

Ma il tema che vorrei proporre alla sua attenzione è proprio quello di pensare a una nuova modalità di collocazione di un’impresa editoriale pubblica nei processi di polverizzazione e massificazione della produzione e distribuzione di contenuti, con la conseguenza, su cui spero di tornare, della circolazione di masse di dati che permettono strategie di profilazione e personalizzazione delle offerte.

In questo quadro, confesso che considero persino marginale il fenomeno di strumentalizzazione della politica, che si ripete sempre eguale a sé stesso nell’azione inquinante dell’operatività aziendale. Un’intromissione che oggi appare oltre che grave anche velleitaria, più che altro per la sproporzione che si può misurare fra l’occupazione delle posizioni apicali, che avviene certo da decenni, se non da sempre, e i risultati ottenuti, che ormai sono davvero minimi in termini della misera contabilità di consensi strappati.

Diciamo che le maggioranze di Governo cercano di stressare e di strizzare quelle ultime gocce di consenso che riescono a ottenere, illudendosi di avere un sostitutivo della presenza politica nel Paese e nella società”.

Due sono i problemi paralleli ma non convergenti che, senza indugio, delineerei:

Da una parte c’è lo stadio di adeguamento del sistema professionale e giornalistico italiano, un’evoluzione tecnologica vorticosa che ha cambiato radicalmente lo scenario, “il ruolo e la funzione del mediatore giornalistico” – un processo che può essere sintetizzato nel passaggio dal broadcasting al browsing:

dall’altra c’è l’invadenza del sistema politico che ovviamente “cerca permanentemente di decidere le nomine e strumentalizzare il sistema informativo”, un fenomeno atavico, quest’ultimo, che viene in qualche modo misurato e contenuto dal calo vertiginoso di influenza dei mass media e in particolare della tv generalista.

Risponderei così citando lo slogan di The Post, il noto film di Steven Spielberg, che fa riflettere sulla libertà di stampa

“La libertà di stampa deve servire ai governati e non ai governanti”

Libertà che – Ieri, ma soprattutto – aggiungerei – si afferma “mediante una forza della società civile e della autonomia operativa e produttiva del sistema professionale”.

Cosa che non accade oggi, la società civile tende invece a disancorarsi dalla televisione generalista.  Ecco perché non riesco francamente a vedere molte isole di liberazione nel mondo- prendendo come esempio anche la Francia e l’Inghilterra “se la politica continuerà a farsi rappresentare nella sua dimensione peggiore, di pura occupazione di spazi per propaganda mascherata, il suo destino sarà inevitabilmente la fine”. 

E questo è un aspetto importante che la stessa politica dovrebbe cogliere non tanto nell’uso dell’azienda quanto “nella sua digitalizzazione come trasformazione radicale dei saperi, delle competenze, delle esperienze e delle pratiche di un giornalismo che deve trovare un nuovo modo di rapportarsi ad una platea di utenti che è sempre più emancipata, più informata, più ambiziosa e pretenziosa”.

Proprio l’estensione della platea, l’accesso di milioni di persone a fonti e tecniche editoriali, muta completamente l’economia professionale di una funzione, la mediazione di notizie, basata fino ad ora sui requisiti di riservatezza, penuria, e complessità dei contenuti, che oggi invece sono abbondanti, trasparenti e decifrabili.

In questo scenario, gentile Presidente, mi attendevo dal nuovo Contratto di Servizio una missione proposta all’azienda adeguata ai tempi, con un impegno particolare nella transizione ai linguaggi digitali del sistema paese, a partire dall’irruzione dell’intelligenza artificiale che va vista come capacità di crescita degli utenti prima ancora che dei professionisti. Sono gli utenti che cambiano prima delle tecnologie e di conseguenza mutano le domande che fanno allo Stato, come vediamo, all’economia, e anche alla televisione.

Potremmo dire usando la citazione del Post: l’intelligenza artificiale serve innanzitutto ai governanti prima che ai governati.

Di conseguenza devono cambiare le relazioni fra mediatori e mediati, e deve cambiare il profilo professionale e culturale della figura del giornalista. Tanto più in una struttura pubblica, che cerca nel corredo valoriale che circonda il prodotto la differenza che giustifica la propria esistenza sul mercato.

E’ accaduto con tutte le svolte tecnologiche: dalla scrittura alla stampa, dal telegrafo alla radio, fino alla tv e oggi alla smaterializzazione e ricomposizione di tutti questi codici nel digitale.

E’ accaduto con quello straordinariamente decentramento del sapere che sono stati i motori di ricerca e poi i social.

Ogni svolta ha accorciato la distanza fra mediatore e mediato, costringendo i primi a ridefinirsi, mutando linguaggi, funzioni e organizzazione.

Oggi, Le chiedo, possiamo continuare a mantenere inalterata la struttura fordista della redazione e l’articolazione verticale, a canne d’organo, della sua azienda, con reti e testate parallele e eguali fra loro?

Come non costatare che abbiano dinanzi utenti che esprimono una domanda diversa, un modo diverso di rapportarsi alle notizie, perché si pongono il problema innanzitutto di produrle quelle notizie prima che di ascoltarle in televisione: è questa la novità abissale.

In questo quadro, gentile Presidente, chiedo a Lei che ha esperienze e visioni globali, come è possibile che nei perimetri aziendali non sia ancora entrata, se non marginalmente e con funzioni davvero elementari, quella straordinaria risorsa che sta ridisegnando ogni rapporto umano, quali sono i dati?

Si tratta di una materia delicatissima, lo so bene, ma anche irrinunciabile per la opportunità che ti offre di stringere micro patti sociali con ogni singolo utente. Certo che i dati vanno usati con grande delicatezza, trasparenza e maestria. Ma è esattamente quanto un Contratto di Servizio del XXI secolo avrebbe dovuto chiedere alla RAI.

Mentre noi discutiamo il mondo cresce e quello che non fanno le infrastrutture pubbliche inevitabilmente lo praticano gli interessi privati.

La recente vertenza che ha paralizzato a Hollywood, e con essa l’intero mondo dell’audiovisivo, con il blocco di sceneggiatori e attori, potrebbe darci qualche spunto.

Quelle figure professionali, affini alle esperienze televisive, rivendicano dalle piattaforme, quali Netflix e Amazon, la condivisione dei dati. Chiedono di poter accedere a quegli scrigni in cui si raccolgono i tracciamenti di ogni nostra azione per poter valutare come i propri prodotti siano condivisi. In sostanza Hollywood rivendica di poter condividere con le piattaforme il sistema di misurazione nel passaggio dall’audience di massa ai contatti individuali.

Può non essere sperimentato un modo pubblico e trasparente di sviluppare competenze e Qui si gioca una partita fondamentale per l’uso pubblico e condiviso di questa strategica risorsa.

Può mancare un punto di vista della Rai? soluzioni per finalizzare socialmente i dati di tutti?

E qui si pone un altro punto, se mi concede ancora qualche scampolo di attenzione: l’autonomia cognitiva di un’azienda pubblica.

Nei mesi scorsi l’Università di Stanford ha elaborato un documento che afferma che un centro formativo, ma anche una redazione o un ospedale, non può importare linguaggi e modi di pensare, semplicemente adottando dispositivi altrui.

Oggi, come Lei stessa ci ha annunciato, la Rai si sta avviando sulla strada di una implementazione di risorse intelligenti nel ciclo produttivo. Come e con quali obbiettivi e priorità?

l’intelligenza artificiale deve essere l’elemento costitutivo della nuova televisione, perché, fra l’altro, come dicevamo, sono gli utenti che la utilizzano.

Oggi vediamo che banche e perfino giornali, si stanno dotando di soluzioni autonome e sovrane. Come intende muoversi la Rai? Con quale partnership? Le chiedo.

La Rai deve far lavorare il Paese, prima che sé stessa, deve essere uno motore che concorre allo sviluppo e all’autonomia della comunità nazionale nei settori innovativi.

A differenza che in altri contesti, qui il concetto di sovranità trova una valenza positiva, diventando infrastruttura che fiancheggia la società civile e professionale nella transizione ai processi di automatizzazione dei linguaggi, come ci ricordava uno straordinario intellettuale italiano, come Italo Calvino, già nel lontano 1967, con le sue conferenze Cibernetiche e fantasmi, in cui ragionava sul destino di automatizzazione del linguaggio sia nella versione di prosa che di poesia. E credo che pochi possano spiegare a quell’autore il valore dell’ispirazione.

Come in passato l’azienda pubblica è stato fattore di emancipazione del nostro Paese nella capacità di comunicare, intrattenere e informare, assicurando saperi e applicazioni in questi campi, oggi deve adeguarsi alle nuove sfide, garantendo le stesse capacita ed applicazione nei nuovi modi di automatizzare testi ed immagini, con un corredo etico e valoriale non mutuato dai fornitori.

E’ questo il significato più pertinente di sovranità del Paese che si deve esercitare sui nuovi dispositivi concentrandoci proprio su glialgoritmi perché è lì che si introducono valori esterni indotti e imposti dai proprietari di queste tecnologie.

E un servizio pubblico che si rispetti deve ridurre la dipendenza dei calcolati dai calcolanti.

L’autonomia dell’azienda, anche dalla politica, si difende alzando la missione del servizio pubblico, perché è la missione, la sua densità professionale che fa selezione, rendendo più difficile e pacchiana al tempo stesso l’asservimento alla bieca propaganda.

Una missione che io concretizzerei nell’indicazione di occuparsi degli esseri umani e non degli strumenti, fornendo prodotti e servizi adeguati alla loro interattività sociale.

Ritroveremmo così anche l’utilità, anzi l’indispensabilità del servizio pubblico, rendendo più plausibile un sostegno finanziario adeguato.

In un ambiente contrassegnato dall’abbondanza dell’offerta, in cui ognuno incontra programmi televisivi su qualsiasi elettrodomestico, è evidente che la proposta di un servizio pubblico puramente riproduttivo e imitativo di questi programmi non giustifica il canone che deve essere un investimento, non una tassa. Un investimento basato su degli obiettivi identificati, condivisi e negoziabili.

Nuovi programmi, nuovi linguaggi, nuovi modelli organizzativi, implicano anche sperimentazioni e competenze inedite.

In una fase di evidente transizione in cui l’automatizzazione del mestiere sta diventando una realtà, la Rai deve offrire una opportunità per rendere trasparenti questi processi di automazione, che devono rimanere saldamente ancorati ad un protagonismo da artigiani dei suoi professionisti. L’azienda, Le chiedo ancora, non dovrebbe sperimentare nuovi ruoli e funzioni del giornalista? non dovrebbe cercare modalità per disegnare figure professionali che abbiano la piena padronanza di questi saperi innovativi, con una contaminazione continua di informazione e informatica, con capacità che possano gestire in autonomia, senza inseguire modelli e culture esterne?

Mi permetto di avanzare una proposta, solo un banale esempio metodologico: perché Presidente non usa il suo carisma per creare  nel cuore dell’azienda e non ai margini, un laboratorio di giornalismo in cui non ci si addestra, come capita nei migliori dei casi, per altro anch’essi sporadici, a usare meglio le tecnologie che ci sono, ad applicare le istruzioni dei fornitori, ma ad avere una propria visione, ad usare  quelle esperienze che non mancano in azienda, per riorganizzare, riprogrammare e riconfigurare queste tecnologie, ai fini  di un nuovo modello in grado di usare i dati  in maniera sociale e condivisa  e non predatoria e speculativa; bisogna fare in modo che l’addestramento dei sistemi di intelligenza artificiale avvenga con esperienze comunitarie e non in maniera commerciale e privata. Un lavoro che presuppone uno sforzo collettivo per partire dai fini e non dall’esercizio nell’ riprogrammare il modello di calcolo.

Mai come questa volta conta il senso comune di un’azienda, la massa critica del lavoro di migliaia di colleghi per trovare le domande che rendono la macchina non prescrittiva ma problematica.

Si tratta di sudare per trovare percorsi e linguaggi che diano diversa finalità e funzionalità alla potenza di calcolo e alla capacità di processare grandi quantità di dati. Ecco, questi sono i modi con cui una redazione della Rai potrebbe dare un senso al perché pagare il canone”.

Ovviamente il presupposto di tutto questo è l’unificazione della fabbrica delle notizie dell’azienda Rai e quindi di un’architettura aziendale completamente diversa che privilegi lo stile, l’identità diversa del servizio pubblico piuttosto che una competizione interna tra singole testate.  

In sostanza le chiedo di impegnarsi per Intavolare una discussione sulla nuova natura del Servizio Pubblico, a partire dall’esigenza di formare la formazione, di ripensare l’innovazione. Un disegno che coinvolga l’intero universo che ruota attorno alla Rai: le forze territoriali, industriali, gli stakeholder produttivi, che si potranno sedere a quel tavolo e ridiscutere un modello di trascinamento e non di puro inseguimento del nuovo.

Il Servizio pubblico a chi deve servire?

Ai territori; al sistema delle autonomie locali;

al sistema della formazione scuola e università; alle eccellenze italiane nel mondo;

al processo di evoluzione culturale, valoriale di una società come la nostra, sempre più globalizzata e dove la contaminazione sociale, culturale ed etnica è sempre più vasta.

Deve servire a ridurre il deficit di alfabetizzazione nella tecnologia, di piena consapevolezza di quanto sta accadendo.

Se non le sollecito a Lei queste cose a chi? e se non ora quando?

Con stima
Michele Mezza