il libro

Democrazia Futura. La Luna di Kiev e le ombre della Net-war

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

Effetti della mediamorfosi. Dal 20 ottobre in libreria un nuovo saggio di Michele Mezza "NET-WAR. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra".

Michele Mezza
Michele Mezza

Dal 20 ottobre è in libreria un nuovo saggio di Michele Mezza NET-WAR. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra [1] dedicato all’Infoguerra e all’impatto che essa ha prodotto sulle modalità di fare informazione e quindi sul giornalismo. L’autore, fra i più fedeli collaboratori di Democrazia futura e di Key4biz, ci ha consentito di pubblicare in anteprima la sua Introduzione e per questo lo ringraziamo vivamente unitamente all’editore dell’opera Donzelli.

_____________________

Nella primavera del 2020, di fronte all’insorgere della pandemia da Per la prima volta, le armi con cui viene condotta la guerra coincidono con le infrastrutture digitali dell’informazione: siti web, smartphone, droni, sistemi di geolocalizzazione, piattaforme social hanno costituito il principale arsenale del confronto fra invasori e invasi, permettendo ai secondi di localizzare e colpire con estrema precisione le forze nemiche, anche grazie al supporto diretto della popolazione che rimaneva con-nessa, persino sotto i bombardamenti. Le azioni militari vengono strategicamente studiate e messe in atto proprio pensando al loro effetto comunicativo, perché il modo in cui verranno raccontate determinerà la per- cezione del conflitto e, in ultima analisi, il suo esito. Se non è una novità che la comunicazione della guerra sia un terreno cruciale e delicato, oggi essa è diventata l’oggetto del contendere. La censura applicata ai media russi, dove la stessa parola «guerra» è bandita e va sostituita con l’edulcorata definizione di «operazione militare speciale», è l’esempio più lampante di un giornalismo che ha perso il suo carattere di autonomia.

Ma ciò che accade in Russia, in forme diverse e meno radicali, sta avvenendo anche da noi: come nota l’autore, con la guerra in Ucraina il giornalismo diventa tutto embedded, non solo per un’integrazione di ogni mediatore con una delle due parti, quanto perché l’informazione, per i suoi strumenti e le sue tecnicalità, si confonde e si combina con la cyber security, lo scontro sulla sovranità di memorie e contenuti digitali.

La manomissione dell’evidenza di immagini e news ci dice che siamo oltre il contrasto rispetto a un supposto mainstream ideologico, siamo nel pieno della guerra ibrida teorizzata proprio dalla Russia. In questo scenario, l’informazione che scorre in rete è il prolungamento del perenne conflitto che i due schieramenti animano, attaccando e inibendo le risorse del nemico. Tutto questo porta a un cambiamento epocale nel giornalismo, dove a mutare radicalmente è il rapporto tra la redazione e le fonti: le notizie sono alluvionali testimonianze civili, che affiorano in abbondanza dalla rete e devono essere validate e contestualizzate più che rintracciate. In questo gorgo il giornalista si misura innanzitutto con la sua autonomia da saperi e competenze tecnologiche che tendono a soverchiarlo, trasformandolo in un funzionario del sistema di calcolo che si afferma mediante «interferenza nelle psicologie altrui». La Net-war è dunque «mediamorfosi» che trasforma guerra e giornalismo in una contesa matematica.

Introduzione

Chissà se la luna
di Kiev
è bella
come la luna di Roma,
chissà se è la stessa
o soltanto sua sorella…
(Gianni Rodari)

Forse solo un poeta dall’ispirata e sofisticata leggerezza di Gianni Rodari[2] può suggerirci l’emozione più adeguata per accompagnare i nostri ragionamenti sulla tragedia della guerra  in Ucraina.

Una tragedia che come la luna da Kiev arriva fino a Roma, anzi è identica in Ucraina come in tutta Europa:

Ma son sempre quella!– la luna protesta –
non sono mica un berretto da notte sulla tua testa!”.

Il dolore e la sciagura che quel conflitto ci porta non possono essere alibi per non guardare, con occhi lucidi e ciglia asciutte, a quanto sta accadendo in quella marca d’Europa.

E’ una vera guerra, che sconvolge una popolazione intera, in tutto e per tutto vicino a noi, facendo vittime civili e sbriciolando le case di famiglie pacifiche e causando la morte di migliaia di giovani in entrambi i fronti.

E’ una guerra bianca, recrimina qualcuno, alludendo al dato etnico, alla natura di guerra europea, rimproverando così un coinvolgimento che è mancato in altre occasioni, quando lo strazio colpiva popolazioni lontane, di colore diverso dal nostro.

E’ vero, ci siamo trovati indifferenti mentre in Asia, in Medio Oriente, in America Latina, si sparava sui civili senza pietà. Ma possiamo farla pagare agli ucraini questa nostra colpa? E chi ci rimprovera cosa faceva mentre osservava l’indifferenza se non condividerla?

Come in molte di queste guerre che abbiamo snobbato, anche in Ucraina la distribuzione delle ragioni e dei torti è un esercizio quanto mai capzioso.

Come dimostra quell’avvilente pratica del tirar la tunica bianca di Papa Francesco da una parte e dall’altra.

La cabala delle citazioni del Pontefice, in cui ognuno usa come una clava parte delle sue parole, umilia la sua autorità spirituale e non risolve in alcun modo  il problema.

Come in Medio Oriente, nel conflitto israelo-palestinese, ognuna delle due parti ha una sua esclusiva cronologia: a seconda della data considerata le ragioni si piegano nella propria direzione.

E proprio come in quella parte martoriata di mondo, c’è comunque una evidenza che abbiamo tenuto  ben in vista nel nostro percorso: un paese, il più esteso del mondo, ed uno dei più armati e potenti, ha invaso e devastato un altro paese, largamente inferiore, infierendo sulla popolazione civile. Mentre si discute questo accade a Gaza , in Africa e nel Donbass.

La guerra della lingua

Non è un caso che uno dei campi di battaglia più viscerali sia l’uso della lingua che i due contendenti si rinfacciano, citando divieti e limitazioni che hanno subito.

La lingua è proprio l’emblema più intimo della propria identità, su cui si consuma il contrasto più insolubile. Si parla come si pensa e si pensa come ci fanno parlare.

Come ci diceva alla fine degli anni Ottanta il filosofo di origine rumena  Emile Cioran  “non si abita un paese, si abita una lingua[3]

Ma la lingua è anche oggi il simbolo del totalitario ruolo della comunicazione, delle forme di vita basate appunto sull’informazione , forme di vita e di morte, come questa guerra cibernetica ci sta spietatamente mostrando.

Questo scempio è in ogni caso inaccettabile.

E non dovranno essere le avverse congiunture economiche, causate dalle sanzioni alla Russia, su grano e gas, a poter far cambiare idea agli osservatori in buona fede.

Vale in questo caso l’antica saggezza che Tucidide ci trasmetteva nelle sue cronache della guerra fra Sparta ed Atene. Nel noto dialogo dei meli, lo storico ci riporta nel libro V de La Guerra nel Peloponneso, una riflessione dell’ambasciatore ateniese a Sparta

consapevoli entrambi del fatto che la valutazione fondata sul diritto si pratica, nel ragionare umano, solo quando si è su una base di parità, mentre, se vi è disparità di forze, i più forti esigono quanto è possibile, e i più deboli approvano[4]

Dobbiamo piegarci a questa dura realtà? I più forti esigono e i più deboli approvano? E il fatto che sia stato così in molti altri paesi ci dovrebbe portare, per una sorta di  paradossale equità del dolore, a riprodurre questo orrore anche a Kiev? Che dovremo rispondere alla Luna della capitale ucraina che ci dice che è la stessa di Roma? Tanto più che da tempo siamo sorpresi dell’inversione della regola di Tucidide. I forti continuano ad esigere, è vero. Ma i deboli tendono a non approvare più: anzi resistono, e creano un attrito nella storia che non permette più l’automatica  soddisfazione dei forti.

La storia del dopo guerra ci ha mostrato infiniti esempi di deboli che resistono dinanzi ai più forti: dall’Algeria che si è liberata dal dominio francese, al Vietnam, all’Iraq e all’Afghanistan, per venire ai giorni nostri.

L’Ucraina, che al momento in cui scriviamo è ancora in bilico, e che per molti mesi ha resistito alla spallata della potenza russa, ci sta raccontando una storia ancora diversa.

A differenza di quanto è accaduto nei paesi che abbiamo citato, dove grandi potenze si sono incagliate dinanzi ad una resistenza popolare che mediante una guerriglia diffusa, rendeva impraticabile la guerra convenzionale, nel conflitto ucraino  abbiamo visto, forse per la prima volta con tale evidenza e ripercussioni, in azione una vera  guerra ibrida condotta a colpi di informazione, in cui saperi e abilità tecnologiche hanno sostituito i sistemi d’arma. Questa è l Net-war con cui titoliamo questo lbro: una guerra che rovescia le gerarchie e sposta il campo di battaglia.

In entrambi i casi – i  saperi e le tecnologia – infatti ne abbiamo visto all’opera una versione originale e inedita, in cui non erano gli apparati militari a gestirli, come accadeva normalmente, ma direttamente l’organizzazione sociale, i cittadini, che hanno dato vita ad una forma di open source del combattimento. E’ stata la società civile, le comunità dei vari territori investiti dalla furia della guerra, che, vivendo e collegandosi con i sistemi e i dispositivi che la rete propone, ha potuto opporsi alle forze convenzionali. Più ancora che la  concentrazione delle conoscenze e delle tecnologie militari, ha contato – questa ci pare la straordinaria novità su cui ci siamo focalizzati – l’informazione distribuita sul territorio, l’attitudine ad usarla e condividerla. Potremmo dire che ha combattuto in Ucraina l’istinto digitale di una comunità. La Net-War non è una digitalizzazione dell’informazione del conflitto, ma è il modo con cui si combatte questo conflitto: la rete è luogo, strumento e logistica della guerra.

Da Sun Tzu ad Assange

L’immancabile citazione dello stratega per eccellenza, il cinese Sun Tzu, il cui Trattato risale fra il VI e il V secolo prima di Cristo, ci rassicura su questa circostanza :

“si dice che chi conosce il suo nemico e conosce se stesso potrà affrontare senza timore cento battaglie. Colui che non conosce il suo nemico ma conosce se stesso a volte sarà vittorioso , e a volte conoscerà la sconfitta. Chi non conosce ne il nemico ne se stesso inevitabilmente verrà sconfitto in ogni scontro[5]

Per vincere bisogna conoscere. La chiave di questa saggezza è appunto la conoscenza: le sue declinazioni e modalità di contaminazione della strategia bellica.

Con questo libro ragioneremo e descriveremo il modo in cui il giornalismo cambia la guerra, ma anche la dinamica con cui questa guerra sta cambiando i giornalisti traducendo nei nuovi linguaggi digitali la massima del guru cinese, provando a rispondere a queste domande: che cosa è la conoscenza al tempo della rete e dell’intelligenza artificiale? E come interferisce con la guerra? E come diventa poi giornalismo?

In particolare vedremo, più di 2.500 anni dopo Sun Tzu,  come proprio  la sua visione delle modalità di programmare la guerra  ci porti a reinterpretare il verbo “conoscere”.

Julian Assange, a cui dedichiamo questo libro, insieme ad Anna Stepanovna Politkovskaja, sta subendo la vendetta di un potere che crede di poter rimettere il dentifricio della storia nel tubetto: grazie a lui conoscere sempre e tutto è un’ambizione legittima e plausibile, che identifica la nuova cittadinanza dell’informazione. La key word che apre il nostro ragionamento, proprio grazie alla testimonianza e al sacrificio  di Assange e Politkovskaja, è intelligence: un termine che in inglese identifica sia la comprensione che l’informazione. In italiano, come approfondiamo in un apposito capitolo, solo Nicolò Machiavelli usa una volta il termine intelligenza nella doppia accezione.

Intelligence è oggi gran parte della nostra vita, e non più una funzione riservata a ristretti e riservati apparati di sicurezza. Tutti noi viviamo di intelligence, in particolare, come vedremo dettagliatamente, il giornalismo è intelligence e l’intelligence più professionale si sta traducendo in giornalismo. L’evanescenza di questo confine, con reciproche invasioni di campo, non sempre illegittime, sta cambiando radicalmente la struttura e il meccanismo del mestiere.

Un concetto, questo di un’attività di comprensione che sia automaticamente  comunicazione, che  abilita ogni singola persona sul pianeta ad avere la più larga conoscenza possibile, riuscendo sempre, grazie ad un innovativo sistema di relazioni punto a punto con ogni altro componente l’umanità, a diffondere, integrare e perfezionare il proprio sapere.

La rete come protesi di ogni individuo, crea una potenza che si riproduce ogni momento su un’infinita di temi, permettendo ad ognuno di noi di essere parte di occasionali comunità che interferiscono, molto o poco, su processi deliberativi rilevanti o futili. 

Una realtà che proprio nel teatro di guerra sta confondendo e combinando l’attività di professionisti e dilettanti dell’informazione, proprio perché riduce le differenze fra le due categorie sia nella fase dell’apprendimento – l’accesso alle fonti primarie è sempre più indifferenziato – sia in quella della distribuzione – ognuno di noi è abilitato a trasmettere contenuti a schiere sempre più vaste.

Si  verifica, di conseguenza un sorprendente addensamento, tramite i social o i sistemi di ricerca automatica, di attenzione e di volontà  singole su specifici argomenti, obbiettivi, rivendicazioni, che muta la natura e la geometria delle decisioni, mettendo in campo un protagonismo sconosciuto fino a qualche lustro fa: l’opinione pubblica disintermediata.

La guerra fra verticale e orizzontale

Un grande vecchio del sindacalismo italiano, Vittorio Foa, in Questo Novecento anticipava i tempi annunciando come il conflitto moderno sarebbe divampato fra «verticale» e «orizzontale»[6]. Il leader della sinistra sindacale intuiva come con l’evoluzione degli assetti industriali non mutava solo quantitativamente il peso del lavoro ma era proprio la geometria dei poteri e soprattutto delle forme di intervento e protagonismo sociale, che la sua esperienza di sindacalista rendeva centrale nelle valutazioni politiche e storiche, a cambiare senso e struttura, diventando, appunto, orizzontali e condivise, come la rete.

La variante oggi in questa dialettica, che cambia proprio l’essenza e la dinamica di questo conflitto moderno, è data dall’accesso e dalla padronanza da parte dell’intera popolazione terrestre delle tecnologie digitali, che producono potenze mediante il permanente scambio di informazioni e conoscenze che decentrano la visione globale di ogni fenomeno. Si riducono i gap fra centro e periferia, fra vertice e base nelle informazioni e nella capacità di decidere. Il mondo diventa così piatto, come scrive nel suo omonimo saggio Thomas Lauren Friedman[7].

Parallelamente all’appiattimento delle gerarchie sociali si riducono il ruolo e l’importanza delle strutture professionali della comunicazione che assicuravano proprio la circolazione delle notizie unilateralmente dall’alto al basso. Vedremo come quest’inversione del flusso – qualcuno parla di reverse flow dell’informazione – ristrutturi completamente gli equilibri politici, economici e di potere nel mondo. Queste tecniche comunicative che producono valore e spostano equilibri in base proprio alla sussidiarietà informativa, trasformano quel margine di attrito fra Stato e società che abbiamo visto sopra in una forte e strutturata contrattazione, che costringe i poteri di vertice a confrontarsi e misurarsi con lo sciame sociale che li circonda, perfino sul campo di battaglia.

La potenza di calcolo decentrata, intensificata dalle forme di connettività e di collaborazione in real time, irrobustita da intelligenze artificiali e da sistemi di memorie ad ampio raggio, rende quella che era solo la base sociale inerte di un partito o di un Parlamento un soggetto interattivo, che reclama spazio e riconoscimento dal potere centrale, e, tornando all’oggetto della nostra ricerca, in tempo di guerra partecipa alla contesa incrementando geometricamente la forza d’urto del proprio esercito.

In questo nuovo scenario, che definiamo appunto Net-war, prendendo l’espressione direttamente dai paper più riservati degli stati maggiori sia americani che russi in una significativa e singolare convergenza semantica, il conflitto che abbiamo dinanzi ci risulta più utilmente interpretabile con il linguaggio e la cultura dei giornalisti, con le categorie e le logiche del sistema dell’informazione, che ci consente di leggere meglio le nuove dinamiche relazionali basate appunto sullo scambio di informazioni, che oggi consideriamo la materia prima e non più la funzione di mero servizio di ogni attività umana, dalle relazioni emotive alla guerra.

Adotteremo dunque la logica e il senso della società dell’informazione come metro di analisi anche di quanto sta accadendo in Ucraina, piuttosto che rimanere ingabbiati nella rigida e ormai datata metodologia geopolitica, dove gli Stati, intesi sempre come soggetti uniformi e omogeni, determina- no testi e contesti dell’azione militare in base a strategie centralizzate e gerarchiche. Cercheremo invece di cogliere la differenziazione delle attitudini, delle identità e persino delle ap- partenenze che maturano negli Stati attraverso i comportamenti di componenti e configurazioni sociali sulla base dei propri interessi o istinti. Analizzando anche quel processo di condizionamento e suggestione psico-culturale che le tecnologie digitali permettono a Stati e gruppi economici dominanti di attivare.

In realtà ragioneremo su una diversa intermediazione, quella operata dai sistemi intelligenti, dagli algoritmi, che comunque accorciano la catena operativa accostando sempre di più rappresentanti a rappresentati. La consistenza e pregnanza di questa diversa intermediazione rimane materia di contesa.

A fine estate, Giuseppe De Rita, uno dei fondatori del Censis, che è tra i pochi think tank realmente influenti della storia politica italiana, il pioniere delle analisi sociali, che sonda la pancia del paese periodicamente, in un’intervista al quotidiano La Repubblica[8] nel pieno della campagna elettorale per la consultazione del 25 settembre del 2022, si lamentava di una politica ossessionata dalle opinioni dei social e denunciava quella che chiamava la “dittatura dei pari grado”, intendendo un processo di dequalificazione delle leadership la pretesa, più che la pratica, di una sorta di egualitarismo decisionale.

E’ la trasformazione delle vecchie classi industrialiste, come proprio il Censis ci ha insegnato, in un alveare di individui terziari, sempre più affidati all’auto impresa, a cambiare i meccanismi della delega politica. Siamo  esattamente al tempo in cui i social simboleggiano quell’avvicinamento  reale che si verifica nei nuovi ceti professionali e produttivi ,dei rappresentati verso i rappresentanti, che diventano non più personaggi mitici, ma semplici cittadini incaricati occasionalmente di pubblico servizio.

Il mondo si sta appiattendo, diceva Thomas Friedman che re incontreremo, a partire proprio dalla politica.

Ovviamente, ed è questo il luogo della contesa, diventa razionale che consideriamo le infrastrutture digitali come le conseguenze delle nuove geometrie economiche e produttive e non eccentrici luoghi di esibizione smodata.

Questa  nuova e discontinua dinamica con il passato la spiega, con linguaggio tecnico e a volte criptico, ma con una profondità complessiva unica, Bernard Stiegler nel suo tomo La Società Automatica [9] dove scrive

“ a causa dell’effetto di rete, delle masse convenzionali che esso permette di creare, e del crowd sourcing , di cui permette lo sfruttamento attraverso i big data è possibile:

a) suscitare la produzione e l’auto-cattura, da parte di individui, di ritenzioni terziarie chiamate personal data che specializzano le loro temporalità psicosociali.

b)intervenire sui processi di trans-individuazione che si intrecciano tra loro ponendo questi dati personali in rapporto alla velocità della luce attraverso circuiti formati autonomamente e performativamente

c) grazie a dei circuiti e alle ritenzioni secondarie […] diviene possibile teleguidare uno per uno i membri di una rete – lo si denomina personalizzazione-in ciò assoggettandoli a processi mimetici e virali senza precedenti”.

Una guerra è sempre scontro di civiltà, per richiamare il saggio Samuel Huntington del 1996[10], che volendo celebrare il primato dell’Occidente in realtà anticipava i limiti di egemonia e tolleranza che la democrazia liberale cominciava ad avvertire rispetto alle diversità del mondo. Non nel senso etni- co che intendeva il filosofo conservatore americano, ma nell’indole e negli istinti che attraversano le rispettive comunità.

La società civile come arsenale

Ucraini e russi si sono trovati a guerreggiare, nella prima fase del conflitto, mettendo innanzitutto in campo la propria storia, i propri istinti, la propria esperienza nel popolare quel territorio che separa la vita quotidiana di ogni individuo dal potere istituzionale che lo governa.

E poi le proprie intelligence: sul terreno nei primi mesi si sono confrontati due modi diversi di raccogliere, elaborare e finalizzare le informazioni.

Alle spalle dei comandi militari, in un’area di confine dove la logistica delle forze armate si incontra con il tessuto delle competenze e dei saperi sul territorio, affiorano le differenze fra un’articolazione sociale, quale quella ucraina, in cui la conflittualità etnica e linguistica ha potuto comunque disegnare corpi sociali intermedi che si sono cimentati in dialettiche negoziali con gli apparati amministrativi centrali, e invece una coda lunga di un dispositivo statuale, quale quello russo, che non ha lasciato spazio ad alcuna, seppur minima, traccia di autorganizzazione locale.

Siamo in quella terra di nessuno che viene occupata, di volta in volta, da poteri statali o da rivendicazioni comunitarie, a seconda delle capacità e anche delle necessità che affiorano dalla pancia del paese, dove i cittadini cercano di incontrare le istituzioni, e il cui smottamento atavico nel pa- chiderma russo ha sempre annullato le identità delle rivendicazioni sociali.

Per ritrovare una trasformazione della guerra di tale in- tensità, quale appunto la guerra social di cui stiamo parlando, dovremmo risalire alla Rivoluzione francese, o meglio al 1793, quando la nuova Repubblica introdusse la leva obbligatoria, cambiando per sempre i caratteri degli eserciti nazionali e di fatto portando a conclusione quella che Charles Tilly ha definito la «rivoluzione militare» iniziata nel Seicento l’avvento contemporaneo e multiplo di armamenti a fuoco più trasportabili e più potenti.

Meno di un anno dopo l’avvio della coscrizione obbligatoria, l’esercito francese contava 800 mila unità, ben quattro volte più di quelle del più esteso esercito di Luigi XIV. Le forze armate diventano un grande spazio pubblico, dove il sentimento nazionale prevale sulla specializzazione tecnica. La nuova struttura dell’esercito comporta anche una diversa strutturazione sociale: mentre gli uomini vengono arruolati, donne e bambini sono mobilitati per la produzione industriale. Le masse diventano i protagonisti della storia, e prende forma quel proletariato urbano che qualche decennio do- po, con Karl Marx incontrerà una teoria che lo renderà co-gestore dello sviluppo economico.

Carl von Clausewitz, il nobile prussiano che rappresenta lo stratega per antonomasia in Occidente, elabora una teoria per questo nuovo codice militare, in cui il popolo diventa una risorsa per il combattimento e impone nuovi tecniche e nuovi modelli organizzativi nella gestione della truppa: la guerra comincia a democratizzarsi, ma soprattutto a diventare una strategia «amministrativa», in cui ottimizzare forze e ragioni che stanno fuori dal ristretto ambito militare. La raffica di vittorie napoleoniche sui temutissimi e agguerriti prussiani, ancora legati a una concezione nobiliare delle arti belliche, propone a Clausewitz una visione del tutto innovativa della pianificazione di un conflitto, dove è ormai indispensabile impegnare l’intero arco delle risorse sociali.

Siamo  insomma dinanzi ad una trasformazione antropologica, che vede ogni individuo costituire micro società operative, masse convenzionali le chiama Stiegler, che amplificano i propri messaggi e identificano distintamente  il  proprio profilo. Ciò avviene in un ambiente dove la stragrande maggioranza degli individui non è più legata a processi di produzione materialmente subordinati e alienati ma in attività prevalentemente più creative e individuali.

Una mutazione genetica che ci costringe a definirci proprio rispetto all’abilità di programmare e adattare le potenze tecnologiche. Come meglio descrive Luciano Floridi nel testo La Quarta rivoluzione[11]

la società dell’informazione è una società neo manifatturiera in cui l’informazione è sia un materiale grezzo che produciamo e manipoliamo sia il prodotto finito che consumiamo. In una società siffatta , allorché si fa riferimento alla capacità, dobbiamo davvero porre più enfasi sulla cosi detta conoscenza del fare, vale a dire sulla conoscenza detenuta da coloro che sanno come disegnare e produrre gli artefatti, ciò è coloro che sanno come creare, elaborare e trasformare l’informazione“.

Si compie così l’evoluzione del concetto di conoscenza che gli ambasciatori ateniesi illustravano agli spartani come fonte del nuovo potere.

Esemplare e concreta appare l’esperienza che fu avviata in Svizzera fin dal 2004 con la costituzione dell’agenzia Melani (centrale d’annuncio e di analisi per la sicurezza dell’informazione), che  vigila sui sistemi di comunicazione e gestione informatica della pubblica amministrazione, basandosi proprio sul concetto di identificazione fra informatica e informazione, come verificheremo con i report che l’agenzia ha elaborato negli anni scorsi[12], in cui l’abilità nella programmazione dei sistemi intelligenti è strettamente connessa ai linguaggi e ai contenuti che vi sono veicolati.

Una conoscenza intelligente, è il campo di azione dell’agenzia svizzera, nella sua doppia etimologia, di comprensione e comunicazione, che oggi ci abilita a riprodurla e perfezionarla mediante condivisione.

Quattro sono le funzioni che ritroviamo in questo passaggio che congiungono e confondono la guerra con il giornalismo, arrivando così al vero oggetto del libro che avete fra le mani:

1) l’informazione come valore produttivo,

2) la circolazione delle notizie che incrementano questo valore,

3) il decentramento della conoscenza che include nella sfera dei sapienti masse fino ad ora escluse

4) l’arbitrato dei sistemi di calcolo, o meglio dei proprietari di questi sistemi, nell’attività manifatturiera dell’informazione di cui parla Floridi.

Sono i quattro snodi del ragionamento che viene proposto nel libro e che caratterizzano come inedita, originale ed esclusiva la guerra in Ucraina come prima  infoguerra, per rimanere nell’ambito dell’infosfera in cui ancora Floridi iscrive le nuove funzioni sociali della comunicazione.

Un infoguerra che abbiamo visto riconosciuta e già combattuta fin dai primi anni del 2000 dall’accorta percezione del governo svizzero con la costituzione dell’Agenzia Melani.

Il primo punto riguarda proprio la natura e il contenuto di quella rivoluzione digitale che dalla fine degli anni Sessanta ha riclassificato ogni aspetto della nostra vita.

Vedremo più avanti, grazie al contributo di Manuel Castells e alla sua fondamentale trilogia de La società in rete, come sia proprio mutata la caratteristica più tipica della specie umana che è appunto la produzione e organizzazione di un linguaggio simbolico.

Il giornalismo come intelligence: il sistema OSINT

La matematica, come ci ricordavano Giordano Bruno, Galileo Galilei, Gottfried Wilhelm von Leibniz, è da sempre il linguaggio della vita. Più specificatamente proprio nel XVII° secolo, quando il calcolo diventa centrale in occidente, Leibniz nel suo De Arte combinatoria anticipa con straordinaria efficacia quella evoluzione dell’aritmetica che sarà l’informatica per l’uomo moderno:

è lei ha dare le parole alle lingue, le lettere alle parole, le cifre all’aritmetica, le note alla musica: è lei che ci fa comprendere il segreto di fissare il ragionamento, e a obbligarlo a lasciare delle tracce visibili su carte in piccolo formato, per essere esaminato a piacere; è infine lei che nci fa ragionare economicamente, sostituire le cose con dei caratteri per alleggerire l’immaginazione “.

Straordinaria la definizione finale del calcolo programmato come forma per “alleggerire l’immaginazione” e dunque sostituire persino le forme della fantasia con figure calcolate. Quattro secoli dopo il padre del Web, Tim Berners-Lee, alla viglia del nuovo millennio, nel 1999, ci annuncia un suo sogno che oggi è cronaca:

Ho un sogno per il web [nel quale i computer]diventino capaci di analizzare tutti i dati del web-i contenuti, i link, e i contenuti fra persone e computer. Un web semantico che dovrebbe rendere ciò possibile deve ancora nascere, ma quando lo farà, i quotidiani meccanismi di commercio, burocrazia e le nostre vite di tutti i giorni saranno trattati da macchine che parlano a macchine. Gli agenti intelligenti che ci hanno promesso da anni finalmente si materializzeranno”.

Vedremo più in dettaglio come questo sogno possa tramutarsi in un incubo se il controllo di queste macchine semantiche rimanesse ancora, come oggi appare, in poche mani, private o pubbliche che esse siano. Ma intanto questa capacità di processare dati, rendendoli disponibili a molti, se non a tutti, ha cambiato la nostra vita, rendendo anche meno programmabile e scontata la guerra che stiamo analizzando.

La potenza di calcolo che diventando, come diceva Leibnitz, descrizione simbolica della realtà, e di conseguenza, alleggerendo l’immaginazione, si propone come forma di giornalismo, integrando, se non proprio sostituendo, le attività redazionali.

E proprio con questa poderosa capacità di calcolare variabili e circostanze in tempo reale, l’informatica diviene, questo è l’intreccio che stiamo indagando, anche logistica militare. Una tecnica di produzione della realtà mediante informazione, intuita da Leibnitz, e descritta da Tim Berners-Lee, dove giornalismo e combattimento si basano sui medesimi linguaggi, metodi e tecnologie.

Vedremo nei capitoli successivi come siano svelate informazioni strategiche sul terreno di battaglia dai più elementari e accessibili strumenti digitali, e come proprio la cultura della rete spinga una popolazione ad intervenire, senza una mobilitazione particolare o arruolandosi in milizie di resistenza, ma semplicemente continuando la propria vita basata sulla condivisione delle informazioni e le relazioni, punto a punto.

In questa guerra il giornalismo, al di là della sua ordinaria attività di diffusione delle notizie, ma proprio per i suoi comportamenti e abilità tecnici, è diventato un sistema di arma. E viceversa i giornalisti trovandosi direttamente a contatto con pratiche e linguaggi condivisi dagli apparati militari sono oggi figure più spurie e ibride, inevitabilmente embedded, come le definiamo nel proseguo del libro.

Efficace la descrizione che ne fa Antonio Maria Costa, un attentissimo e documentato diplomatico di larga esperienza internazionale, nel suo instant book La Guerra di Putinì[13]:

l’invasione russa è narrata a ritmo vertiginoso sui mezzi di comunicazione sociale, dove un esercito di hobbisti un volontariato a fini (solitamente ma non sempre) di pace. Un’armata di lavoratori, un’auto proclamata comunità di informazione a fonte aperta (Open source intelligence OSINT) che tiene traccia di, e ripercuote in rete, ogni movimento dei combattenti. Cittadini che caricano immagini e video geo referenziati su momenti (anche minuscoli) del conflitto così come li testimoniano in diretta”.

Un mosaico di giornalismi che diventa inevitabilmente intendenza militare.

Proprio la  natura del fenomeno OSINT (Open source Intelligence), ossia di questa pulviscolare azione di raccolta e combinazione di dati che solo fino a qualche anno fa sarebbero stati classificati come segreto militare, muta la tradizionale configurazione professionale del giornalismo e per questo approfondiremo  l’inevitabile impatto di queste modalità informative nelle nuove redazioni digitali.

Così come abbiamo osservato il dispiegarsi di una guerra OSINT,stiamo anche assistendo alla nascita di un giornalismo OSINT, con proprie caratteristiche, abilità, competenze ed esperienze. E inevitabili promiscuità con gli apparati nazionali.

L’analisi della convergenza fra comportamenti del giornalismo e cautele della cybersicurezza, così come emerge anche dal contributo che ci ha offerto Pierguido Iezzi, CEO di Swascan, una delle aziende più accreditate nell’analisi  della Cybersecurity a livello internazionale, inevitabilmente ci suggerisce in quale direzione stia mutando la pratica professionale giornalistica.

 Il tratto inedito, che allarma e provoca anche ripulsa in molti componenti la categoria, è proprio il fatto che la dimestichezza che si acquisisce nel mestiere con tecnologie e apparati tecnologici, oltre che l’uso di soluzioni altamente sofisticate nell’individuazione di profili e attitudini degli utenti, rende l’attività giornalistica molto affine alle strategie di interferenza digitale, come spiega appunto nei suoi report l’agenzia svizzera Melania su cui si soffermiamo nei capitoli seguenti.

Informatica e informazione diventano un’unica espressione, hacker e giornalisti usano le stesse dotazioni, gli stessi programmi, le stesse fonti.

L’ambiente OSINT, come luogo dove le intelligenze e memorie diventano matrici delle informazioni, pone necessariamente problemi specifici al mondo del giornalismo sia per tutelare la propria autonomia, sia per aggiornare saperi e competenze che possono permettere di meglio orientarsi in questo scenario più complesso e variamente frequentato.

La circolazione come produzione

Il secondo punto che affronteremo nel nostro viaggio attraverso l’infoguerra è la circolazione delle informazioni. E’ questa la funzione dove più evidente è la promiscuità, a cui ci siamo riferiti prima, fra giornalismo e cybersecurity.

Non si tratta di considerare solo lo spostamento meccanico di un contenuto nello spazio, secondo la nota definizione di informazione che dava Claude Shannon, dinamica che potremmo meglio analizzare proprio nei capitoli di questo libro.

La vera novità di questa fase della civiltà umana sta nel processo di condivisione e reciproco perfezionamento di idee e soluzioni, che trasferisce potenza cognitiva ad ogni singolo oggetto.

La circolazione delle informazioni, l’istintiva trasmissione di ogni contenuto da un punto all’altro, da parte di ogni singolo utente, tanto sul fronte militare quanto nel mercato giornalistico, è oggi la peculiarità che sostituisce il vecchio mercato segnato dal paradigma da uno a tanti ad un nuovo spazio caratterizzato dal fenomeno da tanti ad ognuno. Il passaggio dal broadcast al browsing.

La diffusione sul web di immagini satellitari, fino a ieri riserva esclusiva dei massimi vertici di uno stato, o la connessione con situazioni estreme – come durante un bombardamento nel Teatro di Mariupol o in una trincea nel Donbass dove un soldato ucraino è accerchiato da numerosi russi – stravolge ogni primato professionale e sfonda i limiti di ogni notizia giornalistica, permettendo ad ogni singolo e comune utente di poter disporre, in diretta, della fonte primaria.

La circolarità trasforma ormai il giornalismo professionale in una pratica di massa.

Basta vedere cosa accade in un qualsiasi viaggio, o nella platea di un qualsiasi spettacolo: si guarda lo scenario e la performance prioritariamente attraverso l’obbiettivo del nostro telefonino, che  trasmette le immagini prima ancora che ognuno di noi le possa assaporare singolarmente  direttamente con i propri occhi.

Non si tratta di una frivola moda, o di un riflesso condizionato da un mercato di consumo.

La circolarità delle informazioni, abilitando masse rilevante a condividere un fenomeno, interferisce direttamente su quel fenomeno, modificandolo, esattamente come ci spiega la fisica quantistica che adotteremo come know how per penetrare proprio questa caratteristica antropologica della condivisione di quanto sappiamo.

 Attraverso questa consapevolezza della proprietà fisica della circolarità, arriviamo ad intendere la circolazione delle notizie non esclusivamente come risultato di un’ottimizzazione della distribuzione editoriale, quanto invece come una modernizzazione della prioritaria fase di produzione dei contenuti, che avviene proprio mediante la trasmissione circolare in rete di un testo o video iniziale e provvisorio.

La provvisorietà della pagina o del servizio televisivo, che non è più considerato chiuso una volta per tutte, ma solo momentaneamente proposto in una prima bozza alla comunità degli utenti, reclama competenze, modelli organizzativi, capacità professionali e qualifiche del tutto diverse da quelle che abbiamo visto sancite dal primato esclusivo dell’autore rispetto al semplice lettore.

Un editore, un autore, un cronista, non può mai più considerare il proprio libro, la propria opera, il proprio reportage, concluso, pubblicato, chiuso. Ma oggi deve continuamente seguirne la scia, integrarne gli aggiornamenti, correggerne gli eventuali errori, coglierne le ulteriori sfumature che affiorano dal brusio digitale.

Così come un ufficiale di intelligence militare segue un argomento, una pista di ricerca, e redige un primo rapporto che sarà permanentemente aggiornato e rifinito.

Vedremo concretamente come i format giornalistici che sono stati forgiati dalle necessità di seguire la guerra in Ucraina suggeriscano questi cambiamenti. Vedremo come la figura dell’inviato tenda ormai a diventare un centro di organizzazione e raccolta di documenti e testimonianze rastrellate nella rete, mediante sistemi di ricerca e di post produzione digitale.

Vedremo come le regie televisive si colleghino con figure di testimoni sul terreno caratterizzate solo dal fatto di trovarsi sul posto e come attraverso gli occhi di questi occasionali collaboratori sia lo studio ad elaborare visioni e contesti che possano meglio definire il contorno della cronaca.

Appoggeremo queste nostre riflessioni sulle esperienze già consolidate di grandi testate americane ed europee, dove il processo di integrazione fra strutture di produzione e pubblicazione digitale e le redazioni tradizionali ha ormai del tutto rimodulato l’intero profilo dei giornalisti, introducendo abilità e competenze che completano e allungano la capacità redazionale di destreggiarsi in questo mondo di riproduzione artificiale della realtà.

Per questo nel nostro libro sollecitiamo una rivisitazione sostanziale degli assetti organizzativi nelle redazioni, mutuando proprio dalle esperienze maturate nelle principali testate americane  le forme gestionali e i profili professionali. La semplice comparazione degli skills dei redattori assunti in questi ultimi anni nei desk statunitensi rispetto a quelli che sono stati congedati ci mostra con spettacolare evidenza in quale direzione stiamo andando.

Torna essenziale il richiamo di Floridi sulla capacità di padroneggiare le tecnicalità digitali, come premessa e condizione per affermare la propria autonomia e rilevanza professionale.

Ma insieme alle infrastrutture e culture professionali, devono, parimenti, mutare anche le strategie sindacali e di rappresentanza della categoria.

Se la fase di identità professionale, come diceva Umberto Eco, su cui ci soffermeremo più avanti, si sposta dal punto in cui parte l’informazione al punto in cui arriva, allora diventa indispensabile pensare ad un sindacato e un Ordine dei Giornalisti che si affermino e qualificano rispetto ai modelli di utenza e ai nuovi poteri tecnologici che guidano, e condizionano, la relazione fra giornalista e utente.

La Edge Comunication. Anywhere Anybody

La circolarità di cui abbiamo parlato prima è la conseguenza di un’altra innovazione di processo che sta introducendo innovazioni di prodotto nell’informazione, e nella guerra.:Il decentramento.

Usiamo ancora la lucidità di Bernard Stiegler nell’opera che abbiamo già citato per fotografare questa innovazione sociale :

proprio il fatto che Internet, anche prima della comparsa del web, di cui costituisce la trama infrastrutturale, fosse già un milieu associato contributivo e dialogico ha reso possibile lo sviluppo di un nuovo modello industriale di produzione algoritmica di software di cui gli utilizzatori dei programmi sono in linea di principio e di diritto (se non di fatto) dei praticanti, nella misura in cui contribuiscono all’individuazione dei software: sono le loro pratiche – che pertanto non sono dei semplici usi – che fanno evolvere i software stessi[14].

In questo caso il software è l’emblema di tutte le forme di produzione, materiale e immateriale, che vengono realizzate, valorizzate e integrate mediante questa co partecipazione in rete di tutti gli utenti. Un cambio radicale di paradigma, che sottrae ormai ogni attività al controllo e proprietà di ogni singolo produttore, affidandolo ad una continua e incessante azione di ruminazione della Rete che aggiunge, corregge e completa l’opera del promotore artigiano.

Il laboratorio che ha codificato e collaudato questa nuova catena del valore è proprio il giornalismo.

Vedremo in particolare cosa è accaduto nei primi vent’anni del nuovo secolo in quella macchina del tempo dell’informazione che è il mercato americano grazie ad una comparazione analitica con la cronaca che ne fa Jill Abramson, già direttrice del New York Times e vice direttrice del Washington Post, nel suo testo Mercanti di verità[15].  Osserveremo, in controluce su quanto sta accadendo nelle redazioni, sulla scia della guerra in Ucraina, quanto viene praticato sul campo di battaglia nella gestione e condivisione delle informazioni, confrontandolo con il processo di integrazione nella redazione degli utenti, come vera e propria fabbrica di news, e rileveremo la contaminazione che le esperienze più innovative, di cui ci da conto proprio la Abramson nel suo testo, come Buzzfeed e Vice, straordinarie espressioni del nuovo giornalismo digitale, producono rispetto all’evoluzione verso il web delle strutture redazionali più tradizionali.

Ragionando su questo parallelismo, il ciclo della notizia e l’intelligence militare nelle nuove concezioni di guerra ibrida, arriveremo alla conclusione, su cui la discussione rimane ovviamente aperta, della convergenza fra giornalismo e cybersecurity. In particolare rileveremo come anche in altri scacchieri, ad esempio la linea calda rappresentata dal caso di Taiwan, si sta assistendo ad una trasformazione delle logiche belliche alla luce proprio di quanto accade in Ucraina.

I cinesi che hanno accelerato il processo di modernizzazione, sia sul versante materiale del dispositivo militare, sia su quello teorico strategico, come dimostrano le riflessioni di grande pregio proposte dal generale Quiao Liang nel suo ultimo saggio L’Arco dell’Impero[16] che aveva già anticipato in un altro testo, Guerra senza limiti, pubblicato nel 1999 insieme al suo collega Wang Xiangsui[17], stanno ora aggiornando i propri piani operativi, considerando che Taiwan vanta una popolazione con il massimo livello di integrazione e abilità digitale, oltre che predisposizione alla cooperazione in rete, come l’emergenza pandemica ci ha dimostrato.

Il generale Quiao Liang, prima ancora di aver visto in azione i meccanismi di rete nella contesa in Ucraina, insiste infatti molto, rivolgendosi ai suoi superiori, sulla necessità di lavorare sui meccanismi di distribuzione delle informazioni per comprendere le logiche degli schieramenti che si avranno dinanzi e, forze meglio di altri strateghi occidentali, coglie la vera novità del momento quando scrive che Internet è il vettore di mutazione degli equilibri mediante la sua spinta al decentramento.

La più diretta manifestazione di questa inversione produttiva la ricaviamo analizzando il punto di vista su ogni evento. Nel nostro libro dedichiamo uno spazio congruo proprio ad analizzare la diversa visuale che si ottiene oggi sugli eventi bellici come esemplificazione di una nuova prospettiva che caratterizza ogni avvenimento.L’accesso indiscriminato e indifferenziato alla visuale di un fatto ci consegna un’inedita opportunità di intervenire e condizionare quell’evento.  Il giornalismo nasce proprio co me sforzo per estendere, sebbene in tempi assolutamente differiti e rallentati, la visione di un evento, che veniva raccontato, documentato, e poi direttamente riportato o addirittura ripreso. Dalla stampa alla televisione, passando per la radio, abbiamo visto come il singolo utente, sia esso lettore o radio ascoltatore e telespettatore, sia accompagnato a condividere la storia del fatto che viene riportato. Mediante questa diffusione di informazione si crea quello spazio pubblico della comunicazione che ha dato base materiale agli stati nazionali, dopo la pace di Vestfalia del 1648, che vedono identificare una lingua unitaria per un’informazione unitaria. Ritorna così la suggestione di Cioran, che abbiamo citato in apertura, circa il fatto che si abita non un paese ma una lingua. Uno stato, possiamo dire sulla scorta dei grandi filosofi del secolo scorso, è una potenza che insieme al monopolio della violenza assicura anche, come vedremo in dettaglio aveva aggiunto in fin di vita Carl Schmitt, il controllo delle onde elettromagnetiche. Un modo per intendere la trasformazione dei mass media in flussi di comunicazione personalizzata.

La Edge Communication e i suoi pericoli

Ora il decentramento sia della fase distributiva che di quella produttiva rende possibile quella che definiamo Edge Comunication, riprendendo il concetto dall’Edge Computing, versione ultima del cloud computing: un fenomeno in cui l’informazione prende forma e viene depositata esattamente nel punto in cui si realizza, a ridosso dell’evento che racconta.

Questa frammentazione del flusso informativo, che da massa diventa personale, da una parte accentua il protagonismo degli individui, permettendo loro di partecipare al processo di configurazione dei contenuti del giornalismo, dall’altra, però, come vedremo meglio successivamente, apre spazi a larghe e minacciose forme di manipolazione, in cui ogni individuo è bersaglio di canali comunicativi martellanti all’insaputa dell’intera comunità che non è più in grado di intervenire e correggere le eventuali manomissioni, come abbiamo visto nel caso eclatante di Cambridge Analytica.

Questo buco nero della Edge Communication  è l’ambito in cui si attua la guerra ibrida teorizzata dagli stati maggiori russi a cavallo del passaggio di millennio. Ci troveremo nei prossimi capitoli alle prese con  la revisione compiuta dagli stati maggiori dell’idea di guerra alla luce della potenza dell’informazionalismo, quel fenomeno che ancora Manuel Castells ci aiuta a definire come “produzione di informazione mediante informazione[18].

Un’attività che ha portato in particolare i vertici militari russi a riflettere sulle possibilità di piegare processi socio politici, pensiamo alle ondate di populismo estese che hanno investito l’occidente, rendendole vettori di messaggi e contenuti che discreditano le istituzioni dei governi avversari, spingendo i cittadini su percorsi di vera e propria ribellione.

Le esperienze di Cambridge Analytica, l’agenzia che ha giostrato con queste tecniche nel corso della campagna elettorale presidenziale americana del 2016, vinta sorprendentemente da Donald Trump, replicate anche in Europa come è stato verificato nel corso del referendum per la Brexit in Gran Bretagna o in occasione delle elezioni italiane del 2018.

Si tratta ormai, lo spiega meglio, alla luce di un’esclusiva esperienza sul tema il contributo di Pierguido Iezzi, che abbiamo già richiamato, di una pratica che correda strutturalmente le politiche internazionali di super potenze come gli Stati Uniti d’America, la Russia e la Cina.

A ridosso della campagna elettorale italiana del 2022, in corso mentre scriviamo, sono rilevate perturbazioni consistenti in rete. Lo hanno denunciato il Copasir, Comitato parlamentare di sorveglianza dei servizi segreti, e,  con ancora più documentazione, anche il SRC, servizio di informazione della confederazione elvetica, che, sulla base delle analisi dell’agenzia Malica che abbiamo già citato, in un suo rapporto ha parlato di un uso di server allocati in Svizzera da parte di gang russe capaci di interferire nei processi di campagna elettorale anche nella vicina Italia[19].

Paradossalmente, però, proprio chi, come appunto i vertici della forza russa, era riuscito tempestivamente a cogliere le nuove dinamiche cibernetiche della guerra mediante un’azione di pervasiva interferenza nella psicologia dell’avversario, come scrive il capo di stato maggiore russo Valery Gherasimov, viene poi sorpreso dalla faccia social del decentramento che attiva nell’azione di controinformazione e georeferenzazione sul territorio le mille individualità dei cittadini ucraini.

E’ la conferma che la rete, come afferma orgogliosamente il suo riconosciuto architetto Tim Beners-Lee, è innanzitutto un’innovazione sociale prima che tecnologica.

Un’innovazione non insensibile alle articolazioni e filosofie di organizzazione di una società, in cui la componente di autonomia civile è sicuramente un fattore essenziale per meglio sfruttare le opportunità di decentramento e circolarità dei contenuti che la rete consente. Lungo questo crinale, che abbiamo tracciato grazie agli strumenti analitici offerta dalle esperienze del giovane Antonio Gramsci a ridosso della prima guerra mondiale, misureremo proprio le diverse attitudini della comunità ucraina rispetto al monolitismo genetico del potere russo.

Tanto la forza di impatto gerarchicamente concepita, quale quella espressa dagli apparati di controinformazione di Mosca mantiene una sua vitalità nel premere sull’opinione pubblica occidentale, tanto però questa stessa rigida verticalità rende più problematica e meno istintiva l’adozione di comportamenti e culture di rete basate sull’autonomia e il decentramento di ogni singolo soggetto .

L’arbitrato degli algoritmi

Sono le mappe che creano gli imperi”, scriveva nel secolo scorso uno dei più grandi storici della cartografia come John B. Harley[20]. Ancora Harley aggiunge

 “le mappe sono rappresentazioni grafiche  che facilitano una comprensione spaziale di oggetti, concetti , condizioni ,processi o eventi nel mondo umano“.

In questo caso la conoscenza, e dunque il pensiero umano, è stato intermediata e guidata dalla capacità di riprodurre in scala il territorio. Questa funzione, aumentata dall’integrazione di ogni altra attività del pensiero e della comunicazione è oggi svolta dagli algoritmi.

Sugli argomenti che abbiamo precedentemente esposto – il valore dell’informazione nella produzione di ricchezza, la funzione della circolazione delle notizie come forma di produzione, e il decentramento delle decisioni come procedura della rete – per indicare la trasformazione dei paradigmi sociali che hanno mutato anche la dinamica della guerra, il filo conduttore, diciamo meglio la materia prima, è la potenza di calcolo.

Si intende, come abbiamo già richiamato, quel processo che rende calcolabili, e dunque programmabili attività della nostra mente e della nostra personalità che come mai in passato sono oggi terra di iniziativa dell’intelligenza artificiale.

In questo processo, incombe la minaccia  per cui “la tecnica cessa di essere uno strumento nelle mani dell’uomo per divenire un apparato che include l’uomo come suo funzionario“ – come scrive Umberto Galimberti nel suo testo Psiche e Techné[21]. Una minaccia che proprio nei meandri della nuova informazione digitale trova gli strumenti per dispiegare un dominio incontrollato da parte di una ristrettissima minoranza che determina proprio la struttura cognitiva e gli obbiettivi di queste potenze intelligenti.

La convergenza fra cybersecurity e giornalismo che trattiamo in questo libro, e che viene assunta come problema strategico dall’Agenzia svizzera di ascolto ed analisi dei circuiti digitali Melania, come abbiamo già scritto, viene arbitrata proprio dalle piattaforme e dai proprietari degli algoritmi, che, lo scrive con il sostegno di una corposa e densa documentazione Shoshanna Zuboff nel suo saggio Il Capitalismo della Sorveglianza su cui torneremo ancora,” non solo conoscono e organizzano i nostri comportamenti ma li formano[22].

Un passaggio che deve vedere i giornalisti in prima linea nella ricerca di procedure ed esperienze per rendere più critico e consapevole l’uso di queste risorse tecniche, rovesciando il detto che orgogliosamente veniva sbandierato dai primi grandi imprenditori meccanici all’esposizione universale di Chicago del 1933, l’anno della presa del potere di Adolf Hitler, che concepiva il progresso come un processo in cui “La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta”.

In questi novant’anni, la scienza è diventata proprietà tecnologica concentrata, l’industria è un sistema di subordinazione ai linguaggi del calcolo, e l’uomo, come dice il filosofo Umberto Galimberti rischia di derubricarsi a funzionario di questi dispositivi intelligenti.

Nel nostro libro, con il linguaggio e il ritmo del cronista non certo l’ambizione dell’esperto, ricaviamo dallo scacchiere di guerra dell’Ucraina tendenze e fenomeni che da una parte segnalano la centralità delle caratteristiche sociali delle tecnologie digitali, come appunto, l’informazione che diventa fabbrica, la circolazione delle notizie che diventa linea di produzione, e il decentramento delle decisioni come inevitabile conseguenza, dall’altra ci mostrano come proprio interpretando queste tendenze – decentramento e circolazione innanzitutto – sia possibile negoziare criticamente le modalità di uso e di riprogrammazione di formule che mirano, appunto come dice la Zuboff, a formare e non solo a conoscere i nostri comportamenti.

Il giornalismo è oggi la grande sfida dove la potenza di calcolo trova interfacce e controparti per diventare strumento dei suoi utenti e non dominio sui suoi sudditi.

Ma al fondo poi di tutti questi sforzi analitici rimane il dolore di questa guerra e il timore di un futuro che vede all’orizzonte troppi spettri e poche speranze.

Un grande protagonista del secolo scorso John Maynard Keynes, che non è certo sospetto di cedimenti emotivi o di infatuazioni ideologiche, al termine di un suo lungo viaggio nella Russia sovietica, nel 1925, nelle convulsioni conseguenti alla scomparsa di Lenin, ci diede quella che rimane la più sconsolata conclusione dinanzi allo scempio che si para oggi ai nostri occhi:

Tutto considerato se fossi un russo quanto preferirei contribuire alla Russia sovietica anziché alla Russia degli Zar. Non potrei certo aderire alla nuova fede più che alla vecchia. Detesterei le azioni dei nuovi tiranni non meno di quelle dei precedenti, ma sentirei almeno di avere lo sguardo al futuro, sentirei di non distorglierlo più dalle potenzialità delle cose; perché dalla crudeltà e dalla stupidità della vecchia Russia non sarebbe mai potuto emergere niente, mentre sotto alla crudeltà e alla stupidità della Nuova Russia po- trebbe nascondersi qualche briciola di un nuovo ideale[23].

Cosa aggiungere oggi che al Cremlino accanto all’autocrate non c’è più un sogno ma solo crudeltà e stupidità?


[1] Michele Mezza, NET-WAR. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra. Con un poscritto di Pierguido Iezzi, Roma, Donzelli, 2022, 236 p. 

[2] Gianni Rodari La luna di Kiev (1955) in Filastrocche in cielo e in terra. Disegni di Bruno Munari, Torino, Einaudi, 1960, 147 p. 

[3] Emil Cioran, Aveux et anathèmes Paris, Gallimard, 1986, 145 p. Traduzione italiana di Mario Bortolotto: Confessioni ed Anatemi, Milano Adelphi  2007, 133 p. [il passo citatto è a p. 23].

[4] Il passo è tratto dal libro V in Tucidide, La Guerra del Peloponneso. Si veda l’edizione con testo greco a fronte a cura di Luciano Canfora: Milano, Mondadori, 2007 1629 p (2 volumi).

[5] Sun Tzu, L’arte della guerra, Tattiche e strategie dell’antica Cina, Prefazione a cura di Renato Padoan, Milano, Sugarco, 1980, 111 p. Ora disponibile nella traduzione, con un’introduzione storica e un commento di Ralph D. Sawyer, con la collaborazione di Meichiun Lee Sawyer, saggio introduttivo di Alessandro Corneli, Vicenza, Neri Pozza, 2005, 377 p.  

[6] Vittorio Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Einaudi, Torino 1997.

[7] Thomas Lauren Friedman, Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, trad. it. di A. Piccato, Mondadori, Milano 2006.

[8]Stefano Capellini, “De Rita: ‘I politici sono prigionieri dei social, non mobilitano più. L’astensionismo crescerà’ ”, La Repubblica, 28 agosto 2022. Cfr. https://www.repubblica.it/politica/2022/08/28/news/de_rita_astensionismo-363159045/

[9] Bernard Stiegler, La société automatique. !. L’avenir du travail, Paris, Fayard, 2015, 436 p. Traduzione italiana di Sara Baranzoni, Igor Pelgreffi e Paolo Vignola: La società automatica, 1 L’avvenire del lavoro, Milano, Meltemi, 2019, 447 p,

[10] Samuel Paul Huntington, The clash of civilizations and the remaking of world order. New York, Simon & Schuster, 1996, 367 p. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it. di S. Minucci, Garzanti, Milano 2000, 499 p.; apparso originariamente nel 1993 con il titolo “The Clash of Civilization?”, Foreign Affairs, LXXII, estate 1993, 3, pp. 22-49. Alle critiche suscitate dall’articolo l’autore ribatte nel numero di nmovembre dicembre 1993: “Respons. If not Civilizations, What? Paradigms of the Post-Cold War World”, Foreign Affairs, LXXII, novembre-dicembre 1993, pp. 186-194.Entrambe le versioni sono libramente consultabili in pdf: https://msuweb.montclair.edu/~lebelp/1993SamuelPHuntingtonTheClashOfCivilizationsAndTheRemakingofWorldOrder.pdf.

[11] Luciano Floridi, La Quarta rivoluzione, Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffello Cortina, 2017, XVII-285

[12]Si veda il comunicato stampa del 24 gennaio 2007 del Dipartimento federale delle finanze della Confederazione Svizzera che annuncia che “La Centrale d’annuncio e d’analisi per la sicurezza dell’informazione MELANI è mantenuta” https://www.admin.ch/gov/it/start/dokumentation/medienmitteilungen.msg-id-10361.html. Per le attività e le ricerche dell’agenzia Melani si veda (https://www.admin.ch/gov/it/pagina-iniziale/documentazione/comunicati- stampa.msg-id-80905.html).

[13] Antonio Maria Costa, La Guerra di Putin. Attacco alla democrazia in Europa, Milano, Gribaudo, 2022, 225 p. la citazione è a p. 98].

[14] Bernard Stiegler, La società automatica, 1 L’avvenire del lavoro, op. cit., alla nota 7.

[15] Jill Abramson, Merchants of Truth: Inside the News Revolution, New York, Vintage digital, 532 p. Traduzione italiana di Andrea Grechi e Chiara Rizzuto: Mercanti di verità. I business delle notizie e la grande guerra dell’informazione, Palermo, Sellerio, 2021, 904 p.

[16] Qiao Liang, L’Arco dell’Impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità. Edizione italiana a cura del Generale Fabio Mini, Gorizia, Leg edizioni, 2021, 256 p. Tali riflessioni erano state anticipa- te in un precedente volume, pubblicato nel 1999 insieme a Wang Xiangsui, dal titolo Guerra senza limiti. Vedi nota 14

[17] Quiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione, Edizione italiana a cura di Fabio Mini, Gorizia, Leg edizioni, 2019, 239 p.

[18] Manuel Castells, Communication power., Oxford/New York, Oxford University Press, 2009, 590 p. Traduzione di Bruno Amato e Paola Conversano: Comunicazione e potere, Milano, Università Bocconi Editore, 2009, XXVIII-665 p.

[19] Franco Zantonelli, “Pericolo dai server russi in Svizzera, così Mosca influenza il voto in Italia”, La Repubblica, 29 agosto 2022. Cfr https://www.repubblica.it/politica/2022/08/29/news/spie_russe_server_svizzera_italia_francia_germania-363279497/

[20] Si veda Franco Farinelli, I segni del mondo: immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1992, XII-294 p.

[21] Umberto Galimberti, Psiche e Techné. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli 1999, 818 p.

[22] Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a human Future at the new Frontier of Power, Campus, 2018. Traduzione italiana di Paolo Bssotti: Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, Luiss University Press, 2019, 622 p.

[23] John Maynard Keynes, Qualche impressione sulla Russia. Con un saggio di Paolo Nori. Traduzione di Paolo Bassotti, oma, Luiss University Press, 2022, 64 p.