il webinar

Democrazia Futura. Prima della fine, il Governo Draghi nella storia d’Italia

di Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei |

Un primo bilancio di 18 mesi di governo Draghi fra crisi politica, maggioranze fluide in parlamento, pandemia, conflitto bellico, nuove povertà e nuove emergenze.

Gianfranco Pasquino

Per una strana coincidenza un webinar di Democrazia futura con il professor Pasquino dedicato ad un bilancio del primo anno e mezzo del Governo Draghi ha avuto luogo il 14 luglio, giorno delle sue dimissioni. Il lettore troverà la trascrizione della relazione introduttiva e delle conclusioni del Professor Pasquino rivista dall’autore nonché del dibattito moderato dal direttore editoriale Bruno Somalvico con gli interventi di Stefano Rolando, Guido Barlozzetti, Michele Mezza, Massimiliano Malvicini e Massimo De Angelis e alcune domandi finali al relatore di Giampaolo Sodano, Raffaele Barberio, Giacomo Mazzone e Pieraugusto Pozzi.

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Bruno Somalvico. Da quanto annunciano i media stiamo vivendo ironia della sorte una giornata campale per il governo Draghi e sempre più insistenti si fanno le voci di possibili dimissioni. Ma a prescindere da quanto sta avvenendo in quello che i francesi chiamerebbero “il microcosmo politico romano” noi siamo riuniti sia pure via web con il massimo politologo italiano  Gianfranco Pasquino per analizzare i primi 18 mesi del  Governo Draghi. Nel ringraziarLa, caro Professor Pasquino, per aver accettato l’invito di Democrazia futura, vorremmo che rispondesse inizialmente nella sua relazione, caro professore, a tre domande:

1 . Dopo 18 mesi che bilancio possiamo fare del Governo Draghi confrontandolo con i governi guidati dai cosiddetti ”tecnici”, da Carlo Azeglio Ciampi a Mario Monti passando per Lamberto Dini

2. Prendendo spunto da una metafora di Guido Barlozzetti espressa sulle colonne di Democrazia futura, Le chiedo: questo governo è una meteora o è una cometa? Ed è bene che rimanga una meteora data la sua eccezionalità e il vulnus che controllando saldamente una “cabina di regia” che li ha relegati in ruoli quasi sempre di secondo piano avrebbe secondo taluni inferto alla democrazia dei partiti dal quale è bene uscire per tornare rapidamente alla normale dialettica democratica fra i partiti? O dopo quasi 18 mesi è meglio che rimanga una cometa che instradi il difficile percorso irto di pericoli (non ultimi quelli legati allo scoppio della guerra in Ucraina e alle sue conseguenze per il nostro approvvigionamento energetico) che sarà chiamato ad affrontare il nostro governo ancora per molto tempo.

3. In fin dei conti possiamo considerarlo un toccasana o un vulnus per la democrazia in Italia ormai prive del ruolo assegnato ai partiti dalla nostra Costituzione?

Gianfranco Pasquino. Viviamo un’estate calda non solo da un punto di vista meteorologico, direi politicamente imprevedibile. Non saprei ancora come definire l’esperimento Draghi. Certamente non è una meteora, ma non saprei davvero ancora come chiamarlo. Non è una cometa e sicuramente è più una meteora che altro, ma è sicuramente il cielo della politica italiana che non consente la comparsa di meteore. Cercherò dunque di collocare la mia analisi del governo Draghi, da un lato, nella storia recente d’Italia, dall’altro, nella storia recente delle democrazie contemporanee. Sbagliamo sempre se continuiamo ad esaminare le vicende di questo paese dimenticando di capire cosa succede fuori, in particolare in paesi vicini come la Francia, la Gran Bretagna, o la Spagna. Sono tutte esperienze importanti che vanno approfondite usate come termini di riferimento comparato.  Vedremo che in nessuno di quei sistemi politici il capo del governo è mai stato un non-politico e rarissimamente un uomo/donna non già parlamentare. Draghi è il prodotto della inadeguatezza dei politici e dei partiti italiani. Supplisce, ma, purtroppo, non potrà essere lui a porvi rimedio.

Bruno Somalvico. Professore, lei racconta nella sua bellissima autobiografia l’incontro che ha avuto con Draghi negli Stati Uniti. Le volevo chiedere: quell’immagine che ebbe allora di Draghi…se l’immaginava già così, era in predicato di diventare un grand commis?

Gianfranco Pasquino. No, io credo che in quel periodo Draghi non ci pensava affatto; pensava a una sua carriera, probabilmente accademica, anche se il suo maestro Franco Modigliani era, come sapete tutti, fortemente interessato alla politica. Draghi era fondamentalmente un accademico; un accademico cauto, riflessivo, un accademico però assolutamente incline a imparare e a studiare. Ma vorrei tornare agli interrogativi iniziali di Somalvico.

Un governo guidato da un primo ministro “no partisan”

Prima di tutto direi rispondendo alla sua prima domanda se nella storia d’Italia il governo Draghi vada considerato come un governo tecnico, rilutto a chiamarlo un governo tecnico. L’espressione migliore – come mi è stato fatto rilevare da un mio allievo, Marco Valbruzzi – è “un governo guidato da un uomo non di partito” quindi un governo con un primo ministro non partitico, ovvero come dicono gli inglesi “no partisan.

Draghi non è il primo intendiamoci bene. Lo sono stati prima del governo Draghi quelli di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993-1994 e di Lamberto Dini nel 1995-1996, e poi, quello di Mario Monti dal novembre 2011 all’aprile 2013 e per certi versi anche quelli di Giuseppe Conte (il primo dal giugno 2018 al settembre 2019, il successivo dal settembre 2019 al febbraio 2021) appartengono a questa categoria, sebbene poi Conte sia diventato leader politico non particolarmente brillante di un movimento – quello pentastellato – non particolarmente brillante. E poi arriva Mario Draghi.

Quindi c’è una sequenza.

Però, dovremmo essere molto preoccupati dalla sequenza, perché la sequenza comincia nel 1994 quando pensavamo che avremmo ristrutturato il sistema politico e invece non abbiamo ristrutturato un bel niente. Quando pensavamo che potesse essere ristrutturato dalle persone piuttosto che dai meccanismi, pensavamo che bastasse cambiare la legge elettorale. E fu giusto cambiare la legge elettorale, per avere una serie di altre conseguenze, dopo di che fin troppi politici e anche giornalisti si sono esibiti su terreni scoscesi e sbagliati.

Noi non siamo affatto nella Seconda o nella Terza Repubblica, né in quella che io auspicherei, che è la Quinta Repubblica: continuiamo a essere nella Prima Repubblica, ma la abbiamo destabilizzata. Abbiamo destabilizzato la Prima Repubblica con le leggi elettorali, per esempio con l’incapacità di costruire partiti, perché è vero – e per questo sono d’accordo col titolo di un importante libro di Pietro Scoppola[1] – che l’Italia è stata una “repubblica dei partiti”, poi dovremmo naturalmente decidere cosa vuol dire “dei partiti” e andare a vedere che tipo di partiti – questo è un punto rilevante che tratto anche ne La Libertà inutile[2] che Somalvico ha molto gentilmente citato.

Quindi Il governo Draghi è in continuità con questi governi, ma è una continuità di crisi. Non credo che sia questo il momento di valutare la sua opera già in confronto a quello che invece fece Lamberto Dini, che era guidato in realtà dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, né di quello che fece Carlo Azeglio Ciampi, che si appoggiò molto a quello che c’era ancora del partito dei Democratici di Sinistra. Mario Monti pensava di essere il più bravo di tutti e non lo dimostrò in nessun modo; Giuseppe Conte era quello che è quindi non lo discuto.

La crisi del governo Draghi

Mario Draghi arriva invece senza eccessivi progetti, però anche senza sufficienti cognizioni di politica italiana. Impara anche perché ha le spalle coperte, perché dietro di lui c’è un uomo di grande esperienza, molto cauto, molto prudente, molto competente che conosce a fondo la politica italiana, che è il presidente Sergio Mattarella. In quest’anno e mezzo credo che Draghi abbia imparato molte cose, purtroppo l’ultima cosa non l’ha imparata: ha commesso l’errore di dire che questo governo con i Cinque Stelle è l’ultimo governo della legislatura e non vi sarà un altro governo Draghi.

Una crisi con un finale segnato? La questione della fiducia in Parlamento

Sarà difficile naturalmente mettere insieme i cocci, di una crisi che dal punto di vista tecnico non esiste: è una crisi politica – quella che stiamo vivendo in questi giorni di metà luglio 2022 – creata dai politici con le loro affermazioni, ma i voti in parlamento non ci sono. Forse, Mattarella poteva rimandare il presidente del Consiglio alle Camere sfidando i partiti a sfiduciarlo.

È il caso di sottolineare questo punto rilevante, perché nelle democrazie parlamentari il criterio per la costruzione di un governo è che il governo deve avere la fiducia del parlamento.

In alcune democrazie parlamentari non c’è nemmeno bisogno della fiducia: il governo non deve avere la sfiducia del parlamento. In Norvegia non c’è un voto di fiducia e così non in Svezia.

Paradossalmente non c’è un voto di fiducia – ma non è una democrazia parlamentare – in Francia, ma è l’opposizione che deve sfiduciare il Primo Ministro. Altrimenti esso entra in carica appena è nominato dal presidente della Repubblica.

E quindi Draghi potrebbe accettare questo? Naturalmente questo è rilevante politicamente, moltissimo perché questo significa avere anche lo slancio per portare a compimento la legislatura. Che è quello che bisognerebbe fare, naturalmente.

Solo un paragone con gli altri Paesi. Da quello che so, nelle democrazie parlamentari europee non c’è mai stato un capo di governo che non avesse una precedente esperienza politica.

Potremmo forse dire che fu il caso di Charles de Gaulle, però dire che de Gaulle non avesse precedenti esperienze politiche mi pare esagerato; e comunque era una democrazia che stava diventando semi presidenziale.

Il caso che qualcuno cita di tanto in tanto, che è quello del ministro dell’economia di Konrad Adenauer, cioè Ludwig Erhard (1963-1966) che divenne Cancelliere nella Repubblica Federale Tedesca, ma era pur sempre stato ministro dell’economia, quindi aveva un’esperienza parlamentare.

Invece nel caso italiano si arriva in qualche caso a Palazzo Chigi senza essere membri del parlamento; che è un problema, naturalmente.

Nel Regno Unito non si potrebbe fare; non c’è la possibilità di un esterno al parlamento che diventi capo del governo.

Qualcuno fa il paragone con il caso britannico e non va bene, perché il paragone deve tener conto che lì c’è un partito di maggioranza assoluta in parlamento e quindi può cambiare il suo capo e automaticamente il suo capo diventa Primo Ministro, non c’è bisogno d’altro se non del riconoscimento della Corona. Ai miei studenti di solito consigliavo di andare al cinema a vedere The Queen. La regina Elisabetta II non nomina Tony Blair, ma è Tony Blair con sua moglie Cherie che va a prendere il tè dalla regina e questo è il riconoscimento che Tony Blair ha vinto le elezioni, che ha una maggioranza assoluta in parlamento, quindi è il Primo Ministro legittimo. È una visita di cortesia, fa parte di quell’apparato di simboli, anche di rituali, che tiene in piedi la democrazia britannica. Però, e questo è un punto assolutamente rilevante: contano i seggi in parlamento e quando si perde la maggioranza ovviamente si perdono le cariche.

Il grande prestigio internazionale

Il secondo punto di rilievo che credo che sia da sottolineare è che con Mario Draghi siamo di fronte per la prima volta a un capo di governo che gode di una straordinaria popolarità, di uno straordinario prestigio, di un’autorità in sede europea guadagnata attraverso le sue azioni, le sue riflessioni, e che quindi ha una rete di conoscenze personali che sono importantissime, molto più di quelle di chiunque altro precedentemente menzionato. Perché, certo, Ciampi acquisì notevole stima europea; in qualche modo Monti aveva fatto il commissario e dunque era sufficientemente noto, però da un punto di vista caratteriale Monti – come sapete – non è che sia particolarmente efficace a mantenere rapporti, e quindi colui che ha dei rapporti personali che vanno oltre qualsiasi tipi di considerazione questo è Draghi.

Si tratta di un elemento importante perché la politica italiana ha bisogno dell’Europa. Oserei dire anche che l’Europa ha bisogno dell’Italia, ma non di un’Italia che sia instabile, che sia un problema, di un’Italia semmai che sia un elemento di soluzione, di compartecipazione alla soluzione dei problemi. Questo punto deve essere sottolineato perché il presidente del Consiglio ha dimostrato di aver imparato delle cose in questo periodo, dimostrando di avere messo la sua esperienza, la sua stessa persona al servizio del Paese. È entrato nella storia del Paese, però può acquisire ancora una statura più elevata se riuscirà a fare ciò che probabilmente in realtà si riprometteva di fare, cioè il massimo uso e nel miglior modo dei fondi europei. Qualora se ne andasse adesso, rinuncerebbe a questa operazione, che può essere decisiva del contesto italiano, anche perché nel frattempo la situazione economica e internazionale appare notevolmente deteriorata.

La carta sbagliata nella partita per il Quirinale

Draghi ripetutamente ci ha detto di non preoccuparsi del suo futuro. Io vorrei preoccuparmi invece del suo passato. Perché credo che l’errore sia stato quello di giocare male le carte per diventare presidente della Repubblica. Credo che pensasse che dal Quirinale avrebbe avuto maggiore influenza sulle modalità con le quali i governi avrebbero trattato il PNRR. Però, non ha giocato bene le sue carte; di certo l’inesperienza politica non gli ha giovato, forse non gli ha giovato neanche qualche ambizione aggiuntiva di Mattarella al quale certamente non è dispiaciuto essere rieletto.

Adesso noi non dobbiamo preoccuparci di quello che farà Draghi quando non sarà più presidente del Consiglio, tranne di un punto rilevante: dobbiamo pensare e sperare che Draghi non commetta l’errore – come si dice – di scendere in politica; che non ci sia un partito di Draghi guidato da Draghi, che non mi parrebbe il modo per ristrutturare il sistema politico italiano. Qui si potrebbe fare anche un’annotazione relativamente al fatto che per creare i partiti in una situazione italiana – ma non solo – oggi è un’operazione di enorme difficoltà, che infatti non sta riuscendo a Conte.

L’unico partito organizzato sostanzialmente è il Partito Democratico, però, a pensarci bene, ci aggiungerei Fratelli d’Italia che è, per così dire, piantato su quelle strutture del Movimento Sociale Italiano che esistevano, strutture spesso notabilari, spesso di figli dei nostalgici, di persone però che facevano politica e che fanno politica e che hanno una presenza nelle associazioni locali.

Ecco, tutto questo non si crea da un momento all’altro e non potrebbe essere Draghi a farlo in questa fase – sconsiglio e spero proprio che non ci pensi. Credo, conoscendolo minimamente, che non ci stia pensando e comunque eventualmente mi auguro che qualcuno lo dissuada.

Qual è il problema adesso? Ne vedo due di problemi. Il primo è che si dice che è un bene che ci sia il governo Draghi e che all’ombra del suo governo i partiti si ristrutturano, si ridefiniscono, si rivitalizzano. Non è stato così per niente.

Lo stato deplorevole dei partiti politici italiani alla fine della Diciottesima legislatura

Nessuno dei partiti si è ristrutturato effettivamente: sono esattamente com’erano quel giorno di febbraio 2021 quando Draghi divenne presidente del Consiglio. Non hanno in nessun modo approfittato della grande occasione per creare presenze vere –qui devo utilizzare le parole del politichese – “sul territorio”. Sono invece come erano prima.

Il PD è leggermente meglio di prima grazie all’impegno di Enrico Letta, ma non molto meglio. L’unica formazione che è meglio di prima –ma non dipende dalla ristrutturazione- è quella di Giorgia Meloni. Dipende naturalmente dall’essere Giorgia Meloni all’opposizione, da un lato e, dall’altro, dall’avere dimostrato di essere una politica più coerente, più capace e senza eccessi, tranne quel discorso infernale che ha tenuto al comizio di Vox.  E Giorgia Meloni è preferibile a Salvini che è un Salvini bifronte, che non ha mai risolto le sue contraddizioni e che, giustamente, perde voti.

I partiti dunque non si sono ristrutturati.

Qualcuno potrebbe dire che questa è la più grave mancanza in questa fase; sono gli stessi partiti del 2018, tranne il fatto che il M5S si è significativamente destrutturato e quasi esploso. Questo significa che il movimento non ha capito nulla, non ha imparato nulla, non ha studiato per niente. Si è goduto il suo successo, le sue cariche ministeriali, ma non ha provveduto in nessun modo a costruire qualcosa di nuovo.

Gli interventi strutturali da affrontare rapidamente nella sfera economica e sociale

L’altro elemento di cui secondo me bisogna tenere conto è che in questa fase abbiamo capito la portata delle crisi e quindi abbiamo capito che ci sono degli interventi strutturali che vanno effettuati comunque da chiunque. Però, non tutti sembrano capirlo: qualcuno pensa che basterebbe cambiare governo perché ciò venga seguito da cambiamenti significativi nella sfera economica e sociale. Naturalmente non è così: c’è l’opportunità – anche perché i fondi europei sono moltissimi – ma questa opportunità deve essere utilizzata al meglio da persone competenti attraverso un impegno che non è l’impegno di 3, 6 o anche 10 mesi, ma è un impegno che deve continuare per un periodo di tempo abbastanza lungo.

Da questo punto di vista certo si poteva pensare a un governo Draghi dopo Draghi, nel 2023, ma sarebbe stata un’operazione molto complicata. Non l’avrei suggerita, perché in questo caso Draghi sarebbe stato più parte del problema di un sistema politico che non riesce a costruire una maggioranza politica attorno alla figura di un leader politico, che parte invece della soluzione.

Oggi sappiamo che neanche lui ci stava pensando: quando ha detto che è in grado di trovarsi un altro lavoro da solo non credo che pensasse a un lavoro politico; eventualmente a un altro lavoro ad altissimo livello. Volendo scherzare potremmo dire che pensava di diventare Segretario Generale delle Nazioni Unite, anche perché l’attuale, Antonio Guterres, che pure è persona abbastanza capace, ha un mandato che sta per terminare.

L’inevitabile riforma elettorale

L’altro elemento che debbo toccare perché è inevitabile riguarda naturalmente la riforma elettorale. Non entro in tutti i particolari, lascio da parte tutti i giornalisti che dicono delle cose stupide, che appendono alla proporzionale degli aggettivi che non c’entrano niente. La proporzionale è semplice, è pura o impura, qualcuno, Francesco Verderami del Corriere, addirittura è arrivato a scrivere che i partiti pensano a una proporzionale a turno unico, che è una bestialità colossale – il problema non è di sapere qualche cosa, il problema è di studiare qualche cosa. Finché i giornalisti e i politici non studieranno avremo delle leggi elettorali che porteranno vantaggi particolaristici solo nel breve tempo, perché nel lungo tempo non vediamo alcun vantaggio sistemico.

Ho detto ripetutamente, con scarsissimo successo, che il criterio dominante per una buona legge elettorale è dare potere agli elettori, non potere ai dirigenti di partito di nominare i loro parlamentari, non il potere ai dirigenti di corrente di scegliersi i seggi sicuri, ma dare semmai potere agli elettori.

Non stiamo andando in questa direzione, debbo dire. Però il punto rilevante sulla legge elettorale è che continua ad esserci un numero cospicuo di parlamentari, di politici e persino di giornalisti che pensando di poter risolvere i problemi della politica con la tecnica!

La tecnica non risolve i problemi; può aiutare, può agevolare, però, qualche volta può anche creare situazioni più complicate se si sbaglia la scelta tecnica, però i problemi politici sono giustappunto politici e non possono essere risolti se non attraverso una ristrutturazione del sistema partitico.

Qui chiudo o quasi, nel senso che quando dico questo, che i partiti italiani sono sostanzialmente spariti e comunque sono strutture deboli, c’è sempre qualcuno che obietta: «ma anche in Europa». No, non è così.

È vero che ci sono situazioni in cui i partiti non sono forti. Il caso francese è tipico, ma il caso francese è tale perché de Gaulle l’ha voluto così. Dovevano essere le istituzioni – e quindi il presidente – più forti dei partiti, quindi il parlamento, con i parlamentari che rappresentano i propri collegi, ad essere più forti dei loro partiti. Anche in Spagna il partito socialista esiste ancora e non dimentichiamoci che esiste il Partito Popolare, che continua a vincere elezioni in qua e in là e che ha una notevole posizione in parlamento. In Germania i partiti ci sono, in Svezia ci sono, in Gran Bretagna i partiti non sono affatto in crisi, anzi continuano a controllare il sistema politico.

E quindi in realtà il problema è come ricostruire i partiti. Una legge elettorale buona dovrebbe naturalmente anche riuscire a dare un impulso alla costruzione di partiti, cioè di organizzazioni – come amo dire – di uomini e donne che presentano candidati alle elezioni, che ottengono voti e poi vincono cariche, e che naturalmente collaborano in maniera leale, cercando di dare l’impressione, ma anche la realtà, di essere solidali e quindi di tradurre ciò che hanno proposto agli elettori in politiche pubbliche.

I partiti rispecchiano  la frammentazione della società italiana

Non sta avvenendo nulla di tutto questo, però  – ed è questa la mia chiusa – è giusto criticare i politici, giusto criticare le leggi elettorali, giusto cercare delle soluzioni sperando che gli uomini e le donne in politica apprendano, che siano capaci di tradurre quello che apprendono in scelte. Però, temo che il problema sia più profondo e credo che troverei in Giovanni Sartori un critico severo.

Temo che il problema sia la società, cioè che non è vero che i partiti non rappresentano la società italiana, ahimè, la rappresentano fin troppo bene e la società italiana è molto frammentata, divisa, spesso è egoista, incapace di produrre soluzioni durature attraverso collaborazione. Quindi,  bisognerebbe che i partiti si imponessero il compito di ristrutturare anche la società, di darle una maggiore organizzazione, di creare strutture capaci di esprimere al meglio le esigenze della società stessa nel suo insieme.

E vediamo questa frammentazione della società nelle proteste dei taxisti, dei bagnini, di varie categorie sociali di volta in volta.

Temo dunque che dobbiamo fare i conti con una situazione molto più complessa, una società non sufficientemente coesa e soprattutto priva di culture politiche.

Se guardiamo ai Paesi anglosassoni e quindi non solo la Gran Bretagna, questa società esiste e si organizza, oserei dire che spesso è tocquevilliana: quando c’è un problema i cittadini si organizzano e non si aspettano sempre la risposta delle autorità.

Se guardiamo ai Paesi scandinavi le società sono molto più coese. Questo problema dobbiamo quindi porcelo, non pensare che sia tutta colpa dei partiti, ma certamente i partiti dovrebbero a loro volta cercare di riorganizzare la società.

E in coda aggiungerei che questo problema riguarda naturalmente anche i sindacati e i sindacati non possono chiamarsi fuori dalla crisi complessiva della società italiana.

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Effetto Draghi  Una meteora o una cometa? Un toccasana o un vulnus

Quale bilancio per una democrazia priva del ruolo assegnato ai partiti dalla nostra Costituzione?

Webinar promosso da Democrazia futura il 13 luglio 2022

Dibattito con il professor Pasquino. Interventi di Stefano Rolando, Guido Barlozzetti, Michele Mezza, Massimiliano Malvicini e Massimo De Angelis

Bruno Somalvico

Bruno Somalvico. Alla luce delle conclusioni della prolusione del professor Pasquino, mentre sembra profilarsi in questo 14 giugno una crisi di governo, agli interrogativi iniziali aggiungerei per la discussione una quarta domanda relativa al governo Draghi che potrebbe concludersi anticipatamente in questa estate 2022 di guerra. Quale bilancio per una democrazia in affanno, priva del ruolo assegnato i partiti dalla nostra Costituzione? Seguendo il programma io darei la parola a Stefano Rolando.

Stefano Rolando

Stefano Rolando. Ti ringrazio Bruno di avermi dato la parola, saluto Gianfranco Pasquino a cui mi lega lunga stima. Io non ho gran titolo per stare nei binari molto interessanti su cui Gianfranco Pasquino ha posto il tema. È vero che, ripescando nel mio vissuto, ho vissuto dall’interno del quadro istituzionale di governo dieci crisi di governo ogni volta con i problemi, ogni volta con queste storie che riguardano il rapporto tra il politico e il personale in cui avere delle guide che tolgano dall’occasionalità e mettano queste crisi all’interno dei binari della storia aiutano. Aiuta molto perché tolgono di mezzo tutto ciò che nutre invece le pregevoli maratone che noi vediamo intorno a noi, ma che sono un ansioso rincorrere: le nuove dichiarazioni, i nuovi silenzi, gli starnuti del sistema. Mentre noi abbiamo bisogno e forse da questo punto di vista noi svolgiamo un compito di stare, come Gianfranco Pasquino ci ha aiutato a fare, sulla carreggiata dei caratteri strutturali di questa crisi all’interno di quelle che lui ha chiamato gli elementi di continuità della Prima Repubblica naturalmente, aggiungendo, con la variante non da poco dell’aggettivo che ha usato e cioè di una Prima Repubblica destabilizzata, cioè con il pilastro dei partiti che si è afflosciato.

Punti di forza e punti di debolezza del Governo Draghi

Parto anche da due spunti sulla politica, l’operato e in generale su il quadro, la focalizzazione di una valutazione che uno scienziato politico può fare.

Adesso siamo in una fase in cui non ci sono più interpreti se non i giornalisti; ci sono giornalisti che organizzano altri giornalisti per interpretare gli eventi.

C’è una rarefazione di interpretazione impressionante. I politici hanno rinunciato a interpretare per definizione; i professori universitari sono un po’ dei rompiscatole perché intervengono sempre con degli approfondimenti, sguardo al passato, e questo ai media in tanti hanno in sofferenza -vengono sgridati a volte- e quindi naturalmente può esserci che nel giudizio storico ci siano degli elementi anche di un’ottica giornalistica, cioè mettere in breve dei caratteri.

Pasquino ha individuato un elemento di forza e due elementi di debolezza.

L’elemento di forza che mi pare individuato è quello di un’Italia che in tutto il quadro che stiamo attraversando dentro le crisi e le transizioni, ebbene l’Italia ha bisogno dell’Europa. Naturalmente è implicita l’aggiunta: con i garanti giusti. Perché l’Italia che ha bisogno dell’Europa scalmanando e agitandosi o muovendo semplicemente degli auspici non serve all’Italia e non serve all’Europa. Servono i garanti giusti che conoscono linguaggi e procedure che consentano di avere un rapporto in questo momento con valore aggiunto con il quadro europeo.

Gli elementi di debolezza che il professor Pasquino ha osservato sono:

il primo, quello che ha iniziato la fase di crisi, è l’atteggiamento imprudente di Mario Draghi sulla vicenda delle elezioni al Quirinale e non ci tornerò sopra – tutti sappiamo i dettagli, anche Gianfranco Pasquino li ha un po’ sorvolati ma sono elementi noti – quello che riguarda invece più da vicino lo scatenarsi dell’ultima crisi è l’imprudenza sull’ultimatum che legherebbe la soluzione di questa crisi a un’ipotesi negativa. Difficile immaginare con quell’ultimatum quella che una volta si era chiamata la sfiducia costruttiva. Ho l’impressione che la botta di orgoglio sia forte e inevitabile e che di conseguenza fatico a pensare – ma il colloquio in corso con il capo dello Stato non so come è andato perché non ho seguito gli ultimi minuti, forse ha rimesso in gioco uno spirito di servizio – ma mi viene difficile da capire come Mario Draghi possa reggere alcuni mesi in cui i partiti, più di uno per la verità, non solo i Cinque Stelle, hanno interesse a criticare o malmenare l’azione di governo per racimolare, chi un punto sulla propria salvaguardia, chi un punto per non cederlo ad altro, chi un punto per mantenere valore in classifica, insomma valori assolutamente insignificanti in questo momento per lo sforzo che il governo sta facendo. Comunque da tutte le osservazioni, anche quelle storiche, quelle legate all’Europa, sulla vicenda non ho niente da aggiungere, niente da togliere e ringrazio molto per questa cosa. Vi sottopongo tre punti per la discussione.

1.L’esprit républicain di Mario Draghi

Cosa Democrazia Futura” ha fatto all’inizio della crisi per interpretare, a partire dal febbraio 2021, il rapporto tra la crisi della politica e dei partiti e la dichiarazione ufficiale dell’emergenza, quella che il presidente della Repubblica ha posto nel potenziale contenimento della crisi e dell’emergenza stessa nel nome di Mario Draghi. Avevamo parlato a quel tempo che questa corrispondenza del contenimento delle crisi era un inteso soggettivo dal punto di vista di Mario Draghi di una sorta di esprit républicain. Che cos’era questo esprit républicain è tra i paradigmi che dico a raffica:

  • Il mantenimento internazionale della reputazione del Paese, che è un altro modo per parlare del rapporto che l’Italia ha bisogno dell’Europa
  • Le soluzioni concrete sulle tre crisi in atto contemporaneamente: pandemia, guerra (non ancora tuttavia, ma senz’altro il quadro geopolitico che poi avrebbe prodotto la guerra), soprattutto la progettazione del finanziamento europeo e la relativa gestione delle procedure di programmazione e di messa in rete, messa a terra e di garanzia.
  • Il coinvolgimento a suo modo “terapeutico” del quadro politico da intendere, per così dire, in due registri: l’articolazione delle competenze; il modo in cui Draghi ha affrontato l’organizzazione del gabinetto ministeriale o la compagine di governo; l’ordinaria amministrazione affidata ai partiti; le materie di transizione mantenute sotto il suo controllo attraverso i tecnici. Chiamiamola “stimolazione etico-parlamentare”, non uno sprezzo della politica, non un atteggiamento sprezzante nei confronti della crisi dei partiti, nessuno escluso, semmai un tentativo di contaminazione con lo spirito etico di potere portare verso soluzioni di contaminazione migliorativa, di ripensamento sulla capacità strategica delle forze politiche e quindi il tempo che abbiamo chiamato -vedo Giampaolo Sodano, su suo giornale- il “pronto soccorso”.

2.Un’agenda del fare con un ruolo del governo che non si è ancora esaurito

Faccio osservare a Gianfranco Pasquino, che lo sa benissimo, che lui ha citato come primo della filiera dei governi tecnici quello di Lamberto Dini, ebbene fu proprio quello che mi fece a suo tempo decidere di dimettermi, di cambiare vita e mestiere rispetto a dieci anni di presidenza del Consiglio, quando il presidente del Consiglio in persona su delle proposte di iniziativa che avevano un minimo di carattere riformatore mi disse di persona «guardi, le dico la verità, io non posso fare niente», ebbene ricordo di questa battuta che mi gelò e ragionai che se un direttore generale si fa dire dal proprio Primo Ministro che non si può fare niente, lui cosa ci sta a fare? Dunque mentre Lamberto Dini, il quale poi ha fatto comunque delle cose, si proponeva di non fare niente, di non alterare il quadro, Mario Draghi invece ha un’agenda, l’ha esposta ed è un’agenda del fare con due o tre elementi maiuscoli.

Abbiamo quindici mesi alle spalle di governo per parlare di una durata ed è una durata media che, rispetto al quadro dell’Italia repubblicana è non tra le peggiori, di conseguenza una valutazione d’insieme può essere data, ma l’osservazione che noi facciamo rispetto alle tre crisi che hanno giustificato l’emergenza è che le tre crisi sono ancora in gestazione, nessuna è risolta, anzi quella della guerra ha “trasversalizzato” per certi versi le altre e ha lasciato aperto i problemi per i quali la crisi dell’emergenza al Quirinale – credo – venga ancora giudicata tale e rispetto a quella la modalità di approccio non la immagino variabile e variata.

Allora il ruolo del governo non è esaurito, non è esaurita nemmeno quella cifra di esprit républicain e in qualche modo si è aggravato dalla certezza che, dati i caratteri di base di un Paese che ha dato la maggioranza tre anni fa nel 2019 al populismo italiano senza batter ciglio, ha ragione Gianfranco Pasquino che dice «e poi al pronto soccorso non c’è solo il quadro politico, ma anche la società italiana», società che ha in effetti un analfabetismo vigoroso per il quale male interpreta la storia e male interpreta l’affidamento delle speranze e in certi momenti ha bisogno di un accompagnamento interpretativo del quadro di responsabilità che deriva a tutti, dal capo dello Stato all’ultimo dei cittadini, se c’è un ultimo fra i cittadini, che è un’espressione effettivamente un po’ pericolosa da dire.

3.La questione delle 117 nomine in posizioni apicali 

Io vorrei dire un’ultima cosa e poi chiudo. Segnalo che, rispetto al problema “governo sì, governo no” su cui siamo tutti tagliati dagli eventi e vedremo a minuti o entro sera il quadro che si sta profilando, io ricordo che ci sono 117 nomine di primissimo ordine sul tavolo del governo da cui dipendono non solo le sorti dell’andamento dell’articolazione delle responsabilità del ministero del Tesoro e dell’Economia, ma anche gli esiti sostanziali di un paio delle crisi che abbiamo in corso. 

Ora, è una partita che i partiti si possono permettere di lanciare al di là del traguardo elettorale? Io non credo proprio e non credo nemmeno che Draghi straveda per l’idea di mettere mano su questi dossier, anche se francamente un uomo della sua esperienza e della sua esperienza di potere sa perfettamente che cosa significa affrontare quei dossier, ma è un passaggio che è una quarta crisi per la situazione del Paese.

Noi dobbiamo considerare che questa partita delle nomine e la legge di bilancio sono due partite che non permetterebbero di giocare col sistema e hanno pochissime scelte a disposizione perché siano fatte nell’interesse del Paese.

Quindi il tema di oggi, “Draghi sì, Draghi no”, “traghettamento”, il rischio di sistema che ne viene fuori o una ricomposizione della base parlamentare è adesso sottoposto a delicatissime valutazioni che partano dalla capacità resilienza e di resistenza di Mario Draghi e dalla possibilità che, comunque, il capo dello Stato ha in questo momento di orientare un contenimento della crisi, ma non vedo come possa essere fatto se non anticipando le elezioni.

Bruno Somalvico. Proseguiamo con il programma. Io darei la parola a Guido Barlozzetti, chiedendogli sostanzialmente il suo titolo, “Una meteora e una cometa”, ecco oggi, 18 mesi dopo, come lo vede questo Governo Draghi che forse si sta concludendo, come il professor Pasquino?

Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

Guido Barlozzetti. Grazie intanto cerco di riprendere un po’ il filo, prima però, ascoltando un po’ anche le considerazioni allarmate e preoccupate sullo stato della nostra società mi veniva da pensare ad alcune preminenze, diciamo così, del sistema mediatico in questi giorni e di alcune concomitanze. Pensiamo all’incendio che ha oscurato il cielo della capitale, che al tempo stesso però è stata attraversata da un dilemma drammatico che ha riguardato la separazione tra Totti e Ilaria Blasi. Be’, adesso io non ho intenzione di fare il moralista, non si tratta di mettere i pesi su una bilancia; il sistema della comunicazione da anni sta andando verso una deriva cronachistica da questo punto di vista, però se vogliamo anche capire certi umori della società e perché la società magari continuiamo ad aspettarci che si risvegli o che qualcuno la formi -perché poi questi sono i dilemmi, di un motore esterno che la rimette in moto o la società che ha un soprassalto di consapevolezza e responsabilità, così, chissà perché -, comunque ci sono alcuni indicatori che ci dicono che la gerarchia delle rilevanze nel nostro Paese è di un certo tipo.

E io gli darei un’occhiata ogni tanto.

Draghi una cometa che assume la continuità del sistema politico in un momento eccezionale

Draghi, meteora o cometa?

Io penso che Draghi sia comunque una cometa, ma cerco comunque di spiegare perché; anche osservando quello che sta accadendo in queste ore, Draghi – è stato sottolineato – non fa parte del sistema, diciamo così, “strutturale” della politica del nostro Paese e sì, entra in questo sistema, ne viene in qualche modo assunto, come un corpo esterno che entra perché questo sistema da solo non ce la fa e quindi Draghi interviene -sappiamo tutti la retorica con la quale è stato accolto: il salvatore del nostro Paese, il nocchiero che arriva con grande esperienza e competenza, un uomo dalle capacità straordinarie, persino provvidenziali in certi momenti è sembrato.

Questa è la retorica, ma non per dire che Draghi sia stato o meno capace, perché dobbiamo sempre tenere presente che c’è sempre questa concomitanza, tra ciò le parole e la retorica che contraddistingue le parole.

Allora, detto questo, perché è una cometa? Perché, se ci pensiamo bene, in questa crisi che in questi momenti e minuti stiamo attraversando, il punto di crisi da dove arriva? Arriva dal M5S. Il M5S, comunque si dia una valutazione sul piano politico, è in ogni caso, nel sistema politico italiano e nel sistema dei partiti, un partito ircocervo, nel senso che sta a metà strada -irrisolta- fra il dento e il fuori del palazzo. Di tutte le formazioni che sostiene il governo è quella che sconta di più questa contraddizione.  Allora qualunque sia la nostra valutazione sulle contorsioni del M5S, sul comportamento di Giuseppe Conte, sulla responsabilità o meno che lui sente nei confronti del Paese, che sta attraversando un momento drammatico, eccetera eccetera, comunque rimane che dal M5S arriva un segnale e il segnale comunque, quale che sia la valutazione, è che c’è un fuori della politica, di cui bisognerebbe cominciare a tenere conto, un fuori della politica che è testimoniato anche dal fatto che fra poco il 50 per cento degli italiani non va più a votare. E questo mi pare un argomento abbastanza rilevante.

A questa osservazione aggiungo un’altra osservazione, in continuità con una riflessione che faceva il professor Pasquino all’inizio del suo intervento, sulla continuità delle crisi, da Dini, Monti, fino a Conte, per certi versi, e fino a Draghi. Ebbene sono tutti governi che escono dalla tecnicalità istituzione, diciamo così. Sono tutti governi “eccezionali”, per così dire. Allora Draghi da questo punto di vista è una cometa nel senso della continuità di questo sistema politico, a cui pone il problema; perché questo sistema politico evidentemente ha un problema strutturale di fondo se da tanti anni e in situazioni anche diverse continua a doversi rivolgere a un motore esterno, a un “salvatore” che interviene e tappa il buco nel quale si trova, tenendo conto che poi, di volta in volta, il buco è sempre più largo, perché nessuno lo rivolve e lo ripropone al suo successore.

Ho l’impressione che in questo momento stiamo arrivando a cottura su questi due piani.

  • Il primo è il rapporto con l’esterno al palazzo,
  • l’altro con il sistema di generazione della politica rispetto alle istituzioni e al meccanismo che governa il ricambio della politica rispetto alla società.

La competenza comunicazione acquisita da Mario Draghi nel corso dell’esperienza di governo

Poi come sapete, nel mio piccolo, ho cercato anche di capire in che modo Draghi abbia affrontato il tema e il problema della comunicazione.

Oggi, dato il momento in cui ci troviamo, questo potrebbe sembrare anche un ragionamento accessorio, non particolarmente rilevante; devo dire che nel percorso che abbiamo osservato Mario Draghi ha acquisito una competenza comunicazionale e anche con episodi recenti che ne hanno dimostrato una particolare vitalità:

  1. mi riferisco ad esempio all’intervento che ha fatto nella cena dell’Associazione della Stampa Estera, che addirittura ha introdotto con una barzelletta, evocando altri illustri narratori di barzellette che fanno parte del nostro passato e presente politico;
  2. mi riferisco ad esempio a una sua partecipazione ad una riunione di studenti di una scuola media nella quale si è lasciato andare a tutta una seria di confessioni sul piano personale -la famiglia, la moglie, gli insegnanti- e quindi sicuramente anche le persone che gli stanno vicino hanno cercato di aggiustare e di assestare un profilo che forse era troppo istituzione, forse era troppo freddo, e hanno cercato di scaldarlo.

Ma a questo punto – si tratta di osservazioni, ovviamente, che possono contribuire ad arricchire un quadro di strategia comunicativa che il presidente ha adottato, di cui è stato soggetto e oggetto al tempo stesso in questo periodo – voglio aggiungere una considerazione di fondo, al di là proprio degli aspetti effimeri, episodici, di contorno, di emozionalità anche occasionale, ebbene se si guardano gli interventi che Draghi ha fatto – basta andare sul sito della Presidenza del Consiglio per ritrovarli tutti – quello che colpisce – e probabilmente non è solo un problema di Draghi in quanto tale- è questa necessità di mantenere una sorta di aplomb istituzionale.

Draghi, in tutti gli interventi che ha fatto, ha sottolineato sempre la forza del governo, la tenuta del governo, il lavoro che si compie, la missione che sta procedendo, eccetera eccetera.

In realtà però – e questo però ci dice la forza e il limite tremendo della comunicazione, perché è vero, oso mettermi nei panni di un Presidente del Consiglio – sarebbe impensabile che il Presidente del Consiglio osasse denunciare le contraddizioni con cui ha a che fare quotidianamente, ma noi che osserviamo la comunicazione ci rendiamo conto di questo: nella comunicazione e nelle strategie di comunicazione è rimosso completamente o quasi, se non strumentalmente, il back della politica; il back della politica non entra nella comunicazione.

Lo scivolone commesso candidandosi indirettamente al Quirinale

Se ci entra lo fa perché in quel momento contingente il Presidente del Consiglio deve affrontare un particolare passaggio che però affronta sempre in termini positivi, in termini di ricucitura, a meno che non esprima degli ultimatum, come quelli che abbiamo osservato in questa ultimissima fase, o per esempio lo scivolone che qualcuno ha ricordato – scivolone in qualche modo sorprendente- sulla presidenza della Repubblica, quando fece la famosa osservazione in cui diceva sostanzialmente che il governo andava bene come andava  e quindi poteva anche fare a meno di quel Presidente del Consiglio, quindi indirettamente si candidava alla presidenza della Repubblica.

Quello, nella strategia della comunicazione di Draghi, secondo me è stato uno scivolone perché porta dentro un elemento di deriva personale che ovviamente ha spiazzato, come poi è avvenuto nei fatti.

Ma questo -e concludo- mi sembra una riflessione da fare.

Noi che ci occupiamo di comunicazione e che capiamo quanto la comunicazione sia importante rispetto anche al destino della nostra democrazia dobbiamo sempre, secondo me, tenere conto di questa apparenza sostanziale con la quale la comunicazione ci si offre, ma dovremmo cominciare a pensare a come “comunicare sulla comunicazione”, cioè a cercare di capire come il retroscena della comunicazione incide, influenza e condiziona profondamente l’apparenza con cui la comunicazione ci si da, altrimenti, ed è una polemica vecchia che risale a qualche anno fa, quando Platone e i sofisti discutevano fra di loro, saremo sempre allo stesso esatto punto.

Bruno Somalvico Grazie Guido Barlozzetti, abbiamo trovato un tema per il tuo prossimo saggio. Solo una battuta di dieci secondi: è possibile, con l’aplomb di Draghi, che abbia detto «mi sono rotto le scatole»?

Guido Barlozzetti. Sì, è plausibile, ma…non lo so, a questo punto, sinteticamente lo ha detto, lo ha detto, però anche questo…non è che è una risposta, non mi aspetterei da Draghi semplicemente una risposta come quella. Probabilmente qui si misura anche una contraddizione di Draghi, una contraddizione profonda, al di là della battuta che tu sinteticamente hai ricordato, e cioè il fatto che lui entra nella politica in un certo modo e questo modo di entrare nella politica pesa sul modo in cui lui ha governato e le contraddizioni di fronte alle quali si trova –che conosce ovviamente benissimo- sono contraddizioni strutturali però, non solo personali. C’era da aspettarselo che ci fosse comunque un corto circuito che riproponesse la rissosità, la frammentazione del sistema politico, tanto più con una scadenza ravvicinatissima, quale comunque saranno le elezioni. Quindi da questo punto di vista il «mi sono rotto le scatole» sarebbe una deludente risposta da parte di Draghi.

Bruno Somalvico. Grazie. Passiamo a Michele Mezza, secondo Lei, come dice il professor Pasquino, Draghi aspira a fare il segretario generale delle Nazioni Unite o, come ha scritto nel suo articolo per Democrazia futura, Draghi vuole andare a fare il Segretario Generale della Nato?

Michele Mezza
Michele Mezza

Michele Mezza. Ma, vedremo…io penso che quello che stia accadendo in queste ore, in questi minuti, cambia molto l’oggetto della nostra discussione: fra quattro ore noi avremo un Draghi radicalmente diverso, o in una direzione o nell’altra, e questo è fuor di dubbio. Per cui non credo che agli storici non importerà nulla; io credo che gli storici -carta e calamaio- stanno proprio attenti alle sfumature e alle battute. Tra l’altro, a proposito della battuta, Draghi non ha detto «mi sono rotto le scatole» ma «ne ho piene le tasche» che, trattandosi di un banchiere, è sempre attento a quello che è nelle tasche più che a quello che è in altri organi più in basso.

Ad ogni modo io, più che sul futuro di Draghi che si sta decidendo adesso e considerando che non ne uscirà come hombre vertical da questa vicenda: o da una parte o dall’altra avrà ammaccature.

Ma la cosa che mi interessa è il ragionamento che faceva il professor Pasquino e io – ultimo della fila mi permetto di segnalare un diverso approccio, non appartenendo a quella scuola di pensiero per cui “i partiti sono i partiti”- penso sempre più di questi tempi che i partiti siano la conseguenza più indotta delle relazioni sociali e non gli organizzatori e gli ordinatori.

Cambiamenti radicali in corso: crisi della rapprersentanza politica sfarinamento dei conflitti sociali

Io ho questa impronta, tra l’altro vengo da una scuola politica che considerava la sociologia poco più di un crimine – ricordo che György Lukács sosteneva in una straordinaria intervista a Franco Ferrarotti, alla fine degli anni Cinquanta, che un rivoluzionario di professione non si faceva condizionare dai fatti sociali e Ferrarotti gli faceva capire che se non ci si fa condizionare dai fatti sociali si va a sbattere, come in effetti è accaduto.

Vedo però che c’è una tendenza “lukacsana” che si diffonde, cioè quella di tralasciare una dimensione, per così dire, di magma sociale e pensare che delle “intelligentsie” politologiche possano mettere ordine organizzando in maniera più sofisticata la macchina politica. Io non penso che sia così, penso semmai che quanto sta accadendo abbia un’attinenza molto stretta con processi sociali lunghi che, come diceva Zygmunt Bauman, ci fanno passare da lavoro di massa a consumo di massa e media di massa, a lavoro individuale, consumo personalizzato e media on-demand.

Questo significa che cambia radicalmente il gioco delle rappresentanze politiche in base allo sfarinamento delle basi sociali e dei conflitti sociali che i partiti rappresentano e mediano. Per cui non è un caso che oggi noi abbiamo davanti uno scenario: e devo considerare che nessuno finora ha citato o neanche pronunciato la parola America.

Penso che quella sia una delle matrici dello sconvolgimento dell’Occidente: quanto sta accadendo in America, con una separazione radicale tra conflitto sociale e sistema istituzionale e che sta mettendo per la prima volta in discussione seria persino il patto confederale, ebbene è una cosa che dovremmo seguire perché ci parla molto da vicino. E la guerra ne è un fondamento.

La crisi prodotta dalla guerra e la radicalizzazione del centro e dei ceti medi 

In pochi minuti devo parlare per slogan e penso che le crisi che stiamo vivendo sono crisi della guerra, di una guerra che vede riorganizzare la contrapposizione politica tra un’area di sovversivismo dei ceti medi, che vede l’opzione putiniana come il più sistematico e organizzato attacco alla democrazia rappresentativa e un’area molto fragile, molto debole, di sostegno a una contrapposizione all’attacco e all’aggressione russa.

Quello che sta avvenendo in Inghilterra, quello che è avvenuto in Francia, quello che sta avvenendo in Italia, quello che comincia a serpeggiare in Germania io penso che sia l’onda lunga di un distacco di un centro che non è più il luogo del moderatismo silenzioso ma di una sguaiata radicalizzazione di ceti corporativi che combinano -io dicevo, sempre usando uno slogan– “no vax, no tax, no pax”. Questo è un nuovo fronte politico che sta riorganizzando il centro e sta togliendo al draghismo una base di consenso su cui quella opzione tecnocratica contava.

Ma dicevo, questa è un’onda che viene da molto lontano; oggi la scomparsa di Eugenio Scalfari mi dà il destro, insieme alla recente scomparsa di Angelo Guglielmi, di individuare in quei due personaggi, due pionieri della sostituzione del sistema dei partiti col sistema mediatico. Guglielmi e Scalfari sono stati due protagonisti che hanno percepito -io, voglio immaginare, non so con quanta lucida consapevolezza- come il sistema dei partiti non fosse più in grado di attivare e rappresentare processi sociali, mentre il sistema mediatico e l’articolazione del sistema, sia televisivo sia giornalistico, per larga parte è stato supplente di quella debolezza che col tempo è diventata vera disarticolazione.

Draghi, lo sherpa dell’atlantismo

Ebbene io penso che con questo processo Draghi, in qualche modo, va a colmare e lo va a colmare però con una differenza – io leggo – rispetto ad alcuni precedenti, sia Dini che Ciampi su versanti diversi: Draghi è l’uomo che arriva sicuro di poter gestire con la paura della crisi finanziaria -un fenomeno che ci portò Monti quando venne disarcionato Berlusconi nel 2011- e a ingessare il dibattito politico per portarci a un quadro che avrebbe attraversato le elezioni, anzi reso le elezioni una variabile del tutto irrilevante, solo per modificare la composizione parlamentare di un governo che si sapeva dovesse rimanere quello.  Ecco io credo che questa dinamica non trova sostegno e non trova sostegno per la debolezza del suo motore che era un motore atlantico; è da qui l’atlantismo esasperato, tenace e perseverante di Draghi. È uscito un libro molto interessante di Antonio Maria Costa[3] che ricostruisce la fase dei primi giorni della guerra e rivela come Mario Draghi e Janet Yellen, dal 23 febbraio, il giorno prima dell’invasione, fino al 28 febbraio, insieme hanno costruito il sistema delle sanzioni, il sistema modulare delle sanzioni. Draghi è stato lo sherpa dell’atlantismo economico, dicendo che poi il sistema politico italiano, come l’intendenza napoleonica, comunque doveva seguire. Ecco lì si crea una rottura -è vero, qualcuno ha detto in parte una incapacità nella mediazione, nella scarsa flessibilità che si era assicurato, nella “operazione presidente della Repubblica” andata a male- ma il punto vero è -e io lo leggo- in questa scommessa americana che coincide con il momento di massima debolezza della leadership atlantica e statunitense. Noi abbiamo una situazione davvero disperante, con una presidenza Biden che giorno dopo giorno si sta trascinando senza riconoscimento neanche nel proprio campo, con una rancorosa offensiva della destra trumpiana, con o senza Trump, che sta cingendo d’assedio in maniera politica -oltre che averlo fatto fisicamente il 6 gennaio- il Campidoglio.

Verso una campagna elettorale con centro-sinistra ormai azzoppato e isolato

Ecco io credo che lo scenario sia questo e in questo scenario vedo -e chiudo- un quadro politico con un centro-sinistra ormai azzoppato e isolato, con un “campo largo” che è diventato un orticello in cui a mala pena potrebbe stare una quercia, e il resto un campo di una destra varia che si organizzerà in base all’opzione legata alla guerra, tra una destra atlantista e una destra neozarista e putiniana. In questo quadro è chiaro che Draghi fino a questa mattina rappresentava l’opzione di massima a sinistra disponibile sul campo; oggi abbiamo un quadro assolutamente disarcionato in cui probabilmente, immagino, il PD e dintorni cercheranno di ingessare con Mattarella la situazione, rendendo indifferente i balzi d’umore di quello che rimane dei 5 Stelle, ma certo il buco difficilmente potrà essere rattoppato in questo modo.

La campagna elettorale è iniziata e lì probabilmente il gioco è che se non si cambia -come io penso- la legge elettorale, si cambieranno le alleanze politiche e la scommessa sarà nel ridisegno di accordi diversi.

Verso una grande svolta tecnologica

Chiudo con un’ultima considerazione: qualcuno citava il silenzio totale della componente sociale, non solo i sindacati; non c’è dinamismo. Il 13 luglio, l’incontro con il presidente di Confindustria sul salario minimo è stato una penosa scena muta di reciproca commiserazione, ognuno per i guai dell’altro. Dunque questo silenzio della società, della dinamica sociale oppressa da processi di automatizzazione subiti in maniera passiva. Io cito un argomento che mi rendo conto che in questo quadro possa suscitare ilarità, ma mentre si sta consumando la crisi di governo, questo governo sta decidendo la più grande svolta tecnologica dei prossimi vent’anni di questo Paese, cioè l’appalto dell’infrastruttura di memoria, cioè del cloud nazionale, in cui confluiranno i dati della Pubblica Amministrazione e i dati sanitari di tutti gli italiani, a un sistema che sarà gestito a mezzadria da Google e Amazon, e questo senza che nessuno abbia sollevato la minima obiezione, la minima osservazione, la richiesta di un quarto d’ora di discussione in parlamento che non si nega neanche all’agricoltura biodinamica.

Bruno Somalvico. Mi scusi Michele Mezza, se la interrompo: il mio ruolo è quello di chiederLe su questo di scriverci un j’accuse nella migliore tradizione del giornalismo di Zola sotto forma di articolo da pubblicare sulla nostra rivista. Adesso diamo la parola a una persona che ha collaborato con la rivista e siamo veramente contenti perché ci siamo poco confrontati con le giovani generazioni, ebbene fra le giovani generazioni ci sono degli studiosi molto tradizionali, per certi versi, e molto rigorosi, come il professor Massimiliano Malvicini, che nel 2021 ci aveva scritto la voce “semestre bianco” e adesso su questo stesso numero doppio ci ha scritto una bella recensione di un saggio del professor Pasquino.

Massimiliano Malvicini

Massimiliano Malvicini. Ringrazio lei e il professor Pasquino per l’introduzione e tutti coloro che hanno parlato prima di me. A me spetta  compito di analizzare la vicenda del governo Draghi in ottica retrospettiva, con la lente del costituzionalista. Su questo vi intrattengo per pochi minuti anche perché, anche alla luce della crisi di governo, conviene a mio avviso parlarne in modo un po’ impressionistico ancorché – per quanto possibile . concreto, basato sui fatti e i dati normativi a nostra disposizione.

Un governo politico sotto la tutela del Presidente della Repubblica

Dunque, il governo Draghi nasce – lo sappiamo tutti – per risolvere due grandi problemi: quello delle vaccinazioni, quindi la risoluzione della crisi epidemiologica, quello dell’elaborazione e, successivamente, dell’implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ), ossia il rilancio del Paese post-crisi epidemiologica.

Ora, il governo Draghi è senz’altro un governo che nasce sotto la tutela del presidente della Repubblica, non si tratta però di un governo tecnico, come è stato detto molto chiaramente da chi mi ha preceduto; è senz’altro un governo politico con una componente tecnica, che dal punto di vista organizzativo è più accentuata in alcuni segmenti dell’apparato esecutivo rispetto ad altri.

Ciò posto, benché sia stato anche un po’ definito nel dibattito pubblico come un governo del tutto differente dal governo Conte II, il governo Draghi, in realtà, ha molti punti di convergenza con il suo predecessore, sia dal punto di vista organizzativo, sia dal punto di vista funzionale

Abbiamo detto che il governo Draghi è un governo senz’altro politico: sono solo una decina le figure che, all’interno della compagine governativa, sono classificabili come indipendenti o tecniche, e fra queste almeno quattro avevano già ricoperto incarichi politici: Luciana Lamorgese, Enrico Giovannini, Patrizio Bianchi e Valentina Vezzali a diverso titolo, tutti però con un minimo di esperienza politica.

Più in generale però sono 34 i componenti dell’esecutivo Draghi con esperienze precedenti di governo; la cosa interessante da notare è che è il M5S ad avere il maggior numero di esponenti con alle spalle almeno un’esperienza di governo: 10 su 15. Al secondo posto viene la Lega e subito dietro il PD.  Ora, ci sono all’interno della compagine governativa anche soggetti che hanno un’esperienza di governo di lungo corso: Dario Franceschini ha fatto parte ad esempio di sette governi.

Più in generale sono almeno due terzi, quindi la maggioranza, i soggetti dell’esecutivo Draghi che sono espressione del Parlamento, cioè che sono parlamentari, e questo è un altro elemento che ci conferma la politicità di questo esecutivo.

Un altro elemento interessante è che i partiti politici portano all’interno dell’esecutivo Draghi una differente competenza rispetto alla politica locale: qui è la Lega che la fa un po’ da padrona, perché tutti gli esponenti al governo Draghi della Lega hanno un’esperienza politica nei governi locali, mentre invece il M5S è il soggetto partitico che dimostra ancora una volta un limitatissimo radicamento territoriale; e questo è un altro elemento da tenere in conto, anche per quanto riguarda le vicende dell’attuale crisi politica.

Ciò posto, qui mi piace ricordare anche l’articolo del 13 luglio del professor Pasquino su Domani («Cambiare ora conducente è stupido e costoso») nel quale si rammenta che ogni crisi di governo e, dunque, la possibilità di far cadere anche questo esecutivo porta senz’altro dei costi e porta anche un’incertezza, legata alle possibilità strategiche di determinare le politiche su alcuni dicasteri, mediante non solo la nomina di ministri, viceministri e sottosegretari, ma anche di influenzare mediante l’attività di lobbying alcuni aspetti cruciali di quell’indirizzo politico pur in parte etero-determinato. Anche su questo punto occorrerebbe una riflessione che, in questa sede, non posso che abbozzare: la nuova componente che nasce dal M5S, la componente che aveva più personale politico in questo governo, è posta di fronte a una grande scelta: rimanere in questa compagine governativa e cercare di rafforzarsi dal governo utilizzando le risorse che ci sono sulle politiche pubbliche oppure tentare il salto elettorale? Su questo ci sarebbe molto da riflettere. E questo è l’aspetto organizzativo.

I tanti elementi di continuità con il governo precedente di Giuseppe Conte

Tra il governo Draghi e il Governo Conte II vi è anche una continuità sotto il profilo funzionale; ora, è vero che, con riferimento alla gestione dell’emergenza epidemiologica, il governo Draghi è stato più rispettoso dei paletti costituzionali posti a presidio della libertà di circolazione e di salute rispetto ai primi provvedimenti adottati dal governo Conte I (febbraio 2020); d’altra parte, però, il governo Draghi ha goduto del cambiamento di governance e della razionalizzazione del sistema delle zone rosse, gialle e arancioni, tutte misure che in realtà si sono incardinate in decreti legge che sono stati approvati dal governo Conte II alla fine del 2020- 

Altro esempio, la gestione dell’emergenza migranti: di nuovo un massiccio ricorso al potere di ordinanza della Protezione Civile e in questo lo colloca di nuovo nell’alveo dell’esperienza del governo Conte II.

La centralizzazione del controllo politico con la cabina di regia sul PNRR

Altri esempi che confermano la continuità tra i due esecutivi sotto il profilo funzionale è data dalla governance centralizzata del PNRR: il governo Conte II è stato attaccato nelle sue ultime battute, soprattutto dagli esponenti di Italia Viva e da Matteo Renzi, per il tentativo di centralizzare la gestione del piano – mediante l’inroduzione di quella task force dei manager – anche se in realtà noi sappiamo che, ad oggi, a gestire il PNRR vi è una cabina di regia incardinata all’interno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che gestisce in modo centralizzaypil PNRR, e il MEF ha la centralizzazione del controllo economico e finanziario.

E rispetto ai rapporti con il parlamento? Anche in queso caso vi è una continuità. Addirittura, il governo Draghi è l’esecutivo che ha utilizzato di più la questione di fiducia, ancor più del governo Renzi e del governo Gentiloni.

Questo ci porta ad un altro ambito di grande interesse – che però non abbiamo l’occasione di approfondire in questa sede – che è rappresentato dagli strumenti a disposizione del governo per realizzare gli obiettivi del PNRR e dalla correlativa capacità delle Camere di sindacare in modo efficace il suo operato (come ci insegna il professor Pasquino, sulle orme di W. Bagehot e di Giovanni Sartori, la prima funzione del parlamento non è quella di legiferare o di governare, ma semmai rappresentare e, in secondo luogo, controllare). Sia nel caso del Governo Draghi che nel caso del Governo Conte II gli esecutivi hanno fatto ampio ricorso all’utilizzo dei decreti-legge, lasciando uno spazio di intervento del Parlamento piuttosto limitato.

Lo spazio residuale lasciato al Parlamento per le riforme istituzionali

Infine se è vero che il governo Draghi è il governo delle riforme istituzionali (si badi bene; istituzionali e non costituzionali), dato che si tratta dell’esecutivo che, forse, più di altri ha legato la sua esistenza al tema del riformismo istituzionale, forse anche per il desiderio di Draghi di provare la corsa al Quirinale, esso non è però un governo che si è battuto in prima persona per le riforme costituzionali che sono state invece approvate alla fine della Diciottesima legislatura.

In questo senso, la riduzione del numero dei parlamentari, la riforma dell’elettorato attivo e la riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione sono state riforme che si radicano nel contratto del “governo del cambiamento” all’inizio della legislatura, secondo il metodo del riformismo puntale ed essenziale, in questo differenziandosi con i grandi progetti di riforma del 2016, più simili, invece alle riforme del 2012quelle sul pareggio ed equilibrio di bilancio; si tratta, per il vero, di riforme che sono state approvate su iniziativa del parlamento, e che hanno costituito il suo spazio compensativo residuale, anche considerando che, in queste materie, forse, lo stesso Draghi non ha voluto metterci la faccia, per evitare in qualche modo di compromettere la sua immagine di possibile garante di quell’indirizzo politico e istituzionale che si confà al ruolo del capo dello Stato.

Bruno Somalvico. La ringrazio, caro professor Malvicini, per la Sua ricca analisi che integra e completa le considerazioni iniziali del professor Pasquino.

Do ora la parola a Massimo De Angelis, chiedendogli cortesemente nel suo intervento di presentare anche il tema del seminario che abbiamo in mente di promuovere nei prossimi mesi in collaborazone con l’Associazione Il Cenacolo, partendo naturalmente dalle considerazioni sul governo Draghi, per affrontare soprattutto una delle proposte che da anni Pasquino sottopone all’attenzione della classe politica e dell’opinione pubblica in italia, ovvero quella della proposta di un regime semipresidenziale accompagnato da un sistema elettorale maggioritario uninominale di collegi a doppio turno.

I costi della guerra per l’Europa e lo spostamento del baricentro verso il Pacifico

Massimo De Angelis

Massimo De Angelis. Innanzi tutto sono d’accordo che questo dibattito va messo in connessione alla questione guerra, sulla quale è difficile dire come andrà a finire, ma è facile fare una previsione che conta poi sulle previsioni che si possono fare riguardo all’Italia e cioè che l’Europa pagherà il prezzo più caro.

L’Europa è messa in mezzo a questa guerra per motivi oggettivi e forse non solo oggettivi, la Russia probabilmente non ne uscirà molto bene, ne usciranno sicuramente bene gli Stati Uniti e la nuova alleanza che da tempo gli Stati Uniti stanno configurando, quella dei Five Eyes, che mirano a portare il baricentro ancor più di quanto sia, dall’Europa al Pacifico, e la Cina ne uscirà bene, ma non avrà il retroterra o per lo meno non potrà contare sul retroterra in gran forma continentale, cioè europeo, perché quello è stato terremotato.

Una democrazia sospesa senza possibilità di rinascita per i partiti

La questione essenziale è però che l’Europa ne uscirà malissimo e questo peserà. Io sono sostanzialmente d’accordo con l’analisi di fondo che ha fatto Gianfranco Pasquino, cioè sul fatto che Draghi non è una cometa, e mi pare che anche le osservazioni che sono state fatte in seguito in qualche modo lo confermino, così come era da me -e Somalvico lo sa bene- da tempo previsto, la situazione è quella di una democrazia sospesa nella quale i partiti, messi da canto e quasi sbeffeggiati, non avevano e non hanno alcuna possibilità di rinascita e di ristrutturazione.

Penso anche -ma in questo ho anche meno speranze di Pasquino – che la democrazia dei partiti sia già defunta da tempo e non possa essere riesumata, e comunque questa legislatura e la volontà coriacea di Sergio Mattarella di portarla avanti fino in fondo sia la pietra tombale su qualsiasi ipotesi di rinascita di una democrazia dei partiti -e non ne ho comunque una particolare nostalgia.

Condivido peraltro il discorso che da tempo Gianfranco Pasquino fa e io sono sempre stato d’accordo sul dare il potere agli elettori, quindi per esempio riforme elettorali che diano sempre attenzione a collegi uninominali, se possibile piccoli, e non ai listoni e però in conclusione, vista la crisi dei partiti, visto tutto e visto quello che dirò adesso fra breve, credo davvero che l’unica soluzione per dare potere agli elettori sia a questo punto una soluzione presidenziale, presidenzialista, con tutti i rischi, perché li vedo ben presenti.

Perché quello che comunque va affrontato -vale in molti Paesi d’Europa, ma da noi ancor di più- è che bisogna riaccendere un meccanismo di rappresentanza, perché noi abbiamo puntato tutto sulla governabilità, sull’emergenza, abbiamo avuto governi tecnici a non finire e ormai ragazzi nati quindici anni fa non ha idea cosa significhi e perché si debba andare a votare, quale sia il senso del voto; e l’astensionismo cresceBisogna che i cittadini possano andare a votare e sapere che eleggono i loro rappresentanti a livello locale e poi il capo del governo a livello nazionale con assoluta certezza, perché questa è la condizione minima per riaccendere il meccanismo; questa è una riflessione sullo stato delle cose.

La crisi della democrazia in Occidente: l separazione fra liberalismo e democrazia

Non mi soffermo sull’esito della crisi. […] Vorrei invece soffermarmi sul punto che può essere il nocciolo di una riflessione da fare anche in seguito, cioè quello che io già dicevo dopo il ritiro dall’Afghanistan, ovvero che si era esaurita la spinta propulsiva della liberaldemocrazia; era un’immagine però credo che colga un punto, perché sta avvenendo una fondamentale crisi della democrazia in Occidente, è inutile nasconderlo, e quindi è a questo livello che dobbiamo proporci, perché le soluzioni istituzionali possono essere pannicelli o comunque cure, ma non risolvono questa malattia.

E perché stiamo arrivando a un esaurimento? Perché -e la metterei così per essere breve e descrivere la situazione e le questioni-  stiamo assistendo da diverso tempo, ormai a livello molto intenso sul piano direi filosofico alla separazione fra il momento liberale, liberal liberista, e il momento democratico; anche la polemica che si fa alle autocrazie, non c’è dubbio che quelli non siano sistemi occidentali che appaiono attraenti, però un punto è vero e cioè che noi non possiamo contestare, come ha fatto anche, in modo sprovveduto, peraltro su un argomento del cavolo, Mario Draghi a Recep Tayyip Erdoğan, col quale peraltro bisogna avere a che fare, descritti come autocrazie e dittatori.

Tutto questo non è vero, ecco, cos’è che le rende per noi inaccettabili, comprendendo anche Viktor Orbán per citarne un altro, cos’è dunque che li rende inaccettabili? Il fatto che non esiste il momento liberale, nel senso che la separazione dei poteri, compreso il potere giudiziario e altre forme di libertà, sono in qualche modo dimidiate e compresse. Ma non vedo la ragione per dire che non sono regimi -alcuni, la maggior parte di loro- democratici.

Io ho partecipato a diverse commissioni che andavano a vedere i risultati elettorali in Ucraina, in Turchia, oppure in Russia o anche in America, ebbene tutto sommato forse c’era un pelino più da vedere in America che non in altri Paesi, quindi non è che la democrazia possa essere messa più di tanto in discussione rispetto a come è ridotta tra l’altro anche da noi; il problema è il regime liberale.

Però qual è il punto? È che in Occidente il meccanismo che rendeva preziosi i nostri sistemi era la congiunzione tra liberalismo e democrazia.

Dal liberalismo al liberismo. La fine dell’interesse generale e della connessione fra libertà e bene comune e la scompasa del popolo e dei corpi intermedi  cominciare dalla famiglia

In Occidente abbiamo avuto il processo opposto in questi vent’anni e cioè il liberalismo, divenuto liberismo molto acceso sta divorando e consumando la democrazia.

Questo fenomeno -anche se in modo molto prudente è costretto a dirlo anche Francis Fukuyama nel suo ultimo libro[4]è la grande spinta di una grande economia liberista che ha creato diseguaglianze, delocalizzazioni, la flessibilità ridotta all’estremo che ha prodotto precarietà, un’emigrazione in qualche modo fuori controllo perché non culturalmente governata. Culturalmente, ma una cultura che fa delle libertà il criterio unico di valore, per cui la società va avanti nella misura in cui garantisce sempre più agli individui di poter fare le scelte che vogliono.

Il tema di una connessione tra questo e il bene comune, di riuscire a tenere insieme libertà e interesse generale, ebbene questo è fuori agenda da almeno dieci o quindici anni, non se ne parla più; si devono poi far tornare i conti, ma il criterio di valore è il criterio di una libertà del tutto sganciata -questo fenomeno Fukuyama lo racconta in modo abbastanza interessante e può essere quindi ripreso.

Tutto ciò ha portato, come dicevo prima all’erosione e allo svuotamento del soggetto che dovrebbe essere cardine della democrazia, cioè il popolo, il popolo come soggetto di democrazia, perché oggi il popolo come tale, in tutte le sue varie articolazioni, corpi intermedi, a partire dalla dimensione della famiglia, è venuto meno.

Da società omogenea a moltitudine

Questo spiega e –diciamo, può dare spiegazione all’inquietudine di Pasquino quando dice «c’è una società che però è quel che è»- che la società è quel che è la politica deve trarne il meglio, però è vero che una serie di scelte politiche e culturali, e sostanzialmente una filosofia che si è affermata in Occidente, hanno portato alla disgregazione di quella che Biagio De Giovanni definisce una “società omogenea” e ha fatto prevalere semmai quella che Toni Negri definisce una moltitudine. Dunque quando si ha una moltitudine si hanno anche una serie di individui in lotta per affermare le loro esigenze a prescindere da quelle degli altri e tutto ciò ha radici filosofiche di fondo.

A me ha colpito un esempio che spiega però questo aspetto filosofico, un esempio che cita Fukuyama, il quale dice che, secondo il pensiero di John Rawls, tra un giovane figlio di papà che sta tutto il giorno al divano a chattare e a compulsare, digitare e a vedere film e una ragazza che invece studia e lavora per mantenere sua madre non c’è sul piano di valore, da un punto di vista di un pensiero strettamente liberale, nessuna differenza perché l’importante è non far male al prossimo e di realizzare le proprie aspirazioni, cose che sono sullo stesso piano. Però questo sul piano della tenuta di un ethos pubblico, di un senso di comunità e quindi alla fine di un popolo che si riconosce in determinati elementi, ebbene fa tutta la differenza di questo mondo.

Allora noi a questo punto siamo entrati in una situazione in cui la composizione sociale si è disgregata e su questo sono d’accordo con quello che dice Gianfranco Pasquino, ma ciò va visto in questa chiave.

Né cometa né meteora. La contrapposizione fra Draghi élite tecnocratiche e populismo

L’ultimo punto riguarda il governo Draghi. Io non lo vedo come una cometa, forse però nemmeno come una meteora perché è l’espressione più sintomatica di qualcosa che aveva già i suoi precedenti -i vari Dini, Monti, eccetera- e che fa parte di un governo delle élite tecnocratiche e finanziarie che da noi conosce una dimensione più evidente perché siamo in qualche modo, per così dire, vincolati da altri poteri europei per i motivi che sappiamo -e mi immagino che se adesso Draghi rassegnerà le dimissioni si urlerà allo spread che già adesso, peraltro con Draghi presente, è già a 220, ma improvvisamente diventerà inarrestabile, quindi, che dire, clima di nuovo di emergenza.

Tutto questo non lo si risolve con le pezze che si pensavano di fare, né con Monti, né con Draghi, né con altri, c’è bisogno invece di una leadership che sia in grado, se lo è, di prendere in mano il Paese e guidarlo, quindi io penso una soluzione istituzionalmente solida e poi vedere che cosa può venir fuori. Però ripeto, la situazione attuale -e questo è tema di riflessione- è che c’è questo governo delle élite, il populismo è stato e rimane un contrappasso rispetto a questo governo delle élite perché una dimensione popolare che si è totalmente frantumata e che non ha oltretutto possibilità di essere rappresentata non può fare altro che fiammate populiste, quindi stiamo attenti perché, come si diceva, siamo già al 50 per cento di astensionismo e questo astensionismo può prendere le forme che prende, però non è che dando addosso ai populisti si risolve il problema, bisogna semmai vedere perché c’è il populismo.

Al fondo io credo che la questione da affrontare sia questa, ovvero la crisi sostanziale della liberaldemocrazia e questa scissione di fondo tra il momento liberale e liberal-liberista e il momento democratico.

Brevi domande al professor Pasquino di Giampaolo Sodano, Raffaele Barberio, Pieraugusto Pozzi e Giacomo Mazzone

Bruno Somalvico. Grazie Massimo De Angelis, allora io avevo promesso al professor Pasquino che fra un minuto lui traesse le conclusioni. Gli chiederei di aspettare cinque minuti e chiederei a tre giornalisti e a un ingegnere di fare una domanda-telegramma al professor Pasquino sapendo che abbiamo solo pochi minuti. La parola di seguito a Giampaolo Sodano, Raffaele Barberio, Giacomo Mazzone e Pieraugusto Pozzi

Giampaolo Sodano. Allora, la domanda al professor Pasquino è se lui non ritenga che la prosecuzione della Prima Repubblica nel sistema dei partiti nasce da un -mi passi la battuta- tradimento della nascita del sistema dei partiti nella democrazia italiana. Nel senso che il sistema dei partiti nella nostra democrazia nasce sulla base della nostra costituzione e sono partiti che si formano su culture e ideologie che tengono insieme le comunità politiche. Negli anni Ottanta, forse anche prima, i fenomeni nella società italiana e nella politica internazionale hanno determinato l’abbandono o la crisi -come la si vuole leggere- delle ideologie e quindi quei partiti che erano nati in quel modo si sono ritrovati ad essere delle scatole vuote, improvvisamente private della loro ragion d’essere e cioè della loro cultura; a seguire questo, il popolo, non la gente, il popolo non ha trovato più la ragione per aggregarsi in una formazione politica o in un’altra e ha inteso la politica come il soggetto per così dire responsabile delle proprie disgrazie. Questo fenomeno è stato interrotto parzialmente da un intervento extra che è stato quello della magistratura sul tema della corruzione, ma in effetti non avendo alcun effetto se non quello di proseguire la deriva del sistema dei partiti italiani. Ecco, a questo la terapia è quella di ridare un forte potere ai cittadini. È sufficiente? E questo maggiore potere, professore, chi glielo conferisce ai cittadini?

Raffaele Barberio. Professore Pasquino, in un Paese come il nostro che ha una politica mediocre, un livello dei manager sempre più basso, un quadro di interlocuzione con le forze sociali e i sindacati del tutto inesistente, un Paese che maltratta i giovani con contrattini da poche centinaia di euro e li portiamo fino a 40 anni quando entrano definitivamente in depressione, mentre in epoche passate Einstein ha inventato la sua teoria a 24 anni, Leopardi ha scritto l’Infinito a 21 anni, l’età più creativa è proprio quella e noi li mortifichiamo. Un Paese che ha un astensionismo ormai che è destinato a superare il 50 per cento, un Paese che ha una Pubblica Amministrazione che non funziona, un Paese dove non funziona niente, ma dove abbiamo la Cappella Sistina, il Colosseo, Venezia, eccetera eccetera, un Paese del genere, che sta peraltro in un’Europa sempre più debole, ma non è un Paese già morto senza che lo sappia?

Giacomo Mazzone. Visto che siamo in tema di provocazioni per il professor Pasquino, che tanto le spalle le ha larghe, ne aggiungo una anch’io. Lei pensa che la democrazia sia compatibile con la trasformazione digitale?

Pieraugusto Pozzi. Oltre a quello che ha appena chiesto Giacomo Mazzone, vorrei chiedere al professor Pasquino se nella frammentazione da lui descritta non abbia avuto un ruolo determinante il processo di grande trasformazione digitale e, conseguentemente, la disintermediazione che naturalmente ha tolto moltissimo valore a quei mediatori istituzionali e politici che erano i partiti.

Bruno Somalvico. Grazie. Dò quindi la parola per la replica finale al Professor Pasquino

La Replica del professor Pasquino:  Τα Πολιτικά

Bruno Somalvico. Professore, a lei la parola

Gianfranco Pasquino. Chiedo scusa a tutti coloro che sono intervenuti ponendomi i più disparati quesiti perché alcune delle risposte saranno assolutamente schematiche, quasi al limite del sì-no.

Primo: non conosco abbastanza tutti gli elementi della trasformazione digitale, però certamente nella misura in cui le persone possono comunicare senza incontrarsi, questo in qualche modo indebolisce la democrazia, indebolisce la politica e la politica è un incontro fra persone, che si parlano, si criticano, apprendono, magari tornati a casa studiano, acquisiscono altre informazioni. La politica è una conversazione fra persone che intendono governarsi.

Ricordo a tutti che “ta politiká”, come diceva Aristotele, è un plurale, cioè quello che gli uomini e le donne -in questo caso, nel contesto dell’epoca, gli uomini, ma forse anche le donne poi a casa – fanno fra di loro. E se gli uomini e le donne possono fare queste cose da soli, certamente c’è un indebolimento, soprattutto della propensione associativa, della capacità associativa e poi della trasformazione di questa capacità in forza anche politica. Questo è il primo punto.

Il secondo punto è che certamente non fanno un buon lavoro i politici che parlano di disintermediazione; naturalmente è il seguito inevitabile della “rottamazione”, cioè era la spinta plebiscitaria di Matteo Renzi  che sfruttava qualcosa che già esisteva e che è devastante per la democrazia ed è, oserei dire, devastante per tutti i sistemi politici. In verità non per tutti perché in pratica le autocrazie, le dittature, i regimi autoritari vogliono frammentare la cittadinanza, vogliono tenerla separata, vogliono impedire di incontrarsi e quindi di creare una opposizione.

Tornando all’indietro, sì, il problema è che ci sono delle grandissime criticità, come sento che si dice, in questa società, ma l’Italia non è morta perché di tanto in tanto vediamo grandi imprenditori, vediamo grandi banchieri, vediamo talvolta anche dei politici seri, spesso queste persone se ne vanno via naturalmente, Draghi – non dimentichiamolo – ha vissuto molto all’estero prima di tornare in Italia, e così via; ci sono ancora molte potenzialità.

È che non stiamo creando masse critiche per trasformare queste potenzialità in qualcosa di effettivamente rilevante. Qui lo dico, ma so che il problema è più complesso: molte delle energie nuove verranno dagli immigrati che cercheranno di farcela e quindi si impegneranno allo spasimo. Però noi dobbiamo creare le strutture, le modalità che consentono agli immigrati di presentarsi e di agire al meglio.

Per quello che riguarda le culture politiche, il problema è che le culture politiche italiane, che sono splendidamente rappresentate nell’articolo 3 della Costituzione, i cittadini (e cioè la cultura politica liberale), la persona (cioè la cultura politica cattolico-democratica), i lavoratori (qui è difficile stabilire l’aggettivo da usare, forse la cultura socialista, la cultura comunista, la cultura marxista), ebbene quelle culture politiche non sono state innaffiate e alimentate dai partiti e i partiti si trovano oggi quasi privi di cultura politica. Quando crolla il muro di Berlino crolla addosso a tutti ed è ridicolo pensare poi che fosse un duopolista come Berlusconi a fare rivivere una cultura liberale.

Oggi c’è un’unica cultura politica che potremmo utilizzare al meglio ed è la cultura politica europeista, quindi bisogna tornare ad Altiero Spinelli, prendendoci anche il lusso di criticare Spinelli, ma sapendo che c’è una cultura europeista ed è fatta di diritti, è fatta di ambizioni, di mettere insieme Paesi diversi, è fatta della prospettiva di democrazia sovranazionale, di prosperità e anche di pace.

Mi ha molto divertito, se posso dire così, l’espressione di Michele Mezza – “no vax-no tax-no pax”; si può capovolgere il tutto: “vax, tax (non dirò che le tasse sono belle, ma dirò che sono doverose) e pax”, però, non la pax a tutti i costi, la pax solo se è accompagnata da giustizia sociale e la pax ovviamente scelta da coloro che poi debbono pagare il prezzo della pace.

Le conseguenze economiche della pace è un libro straordinario di Keynes su Versailles; noi non siamo in questa situazione, però quel libro merita comunque di essere tuttora letto.

Per il resto francamente la discussione è stata molto ricca, in qualche caso oserei dire -se mi consentite- è stata fin troppo ricca. Qualche volta siete andati in direzioni nelle quali non posso seguirvi e Somalvico non mi ha detto di parlare del mondo, non mi ha detto di parlare dell’America, e l’America non è l’unica chiave di interpretativa; neanche Putin è l’unica chiave interpretativa. Quindi io ero sul governo Draghi e ho cercato di mettere insieme la persona e le istituzioni.

Però fatemi dire ancora due o tre cose.

Democrazie in difficoltà. Ma La democrazia vive!

Credo che sia, da un lato, giusto porre il problema delle difficoltà delle democrazie, in particolare delle democrazie liberali, e su questo concordo con Massimo De Angelis; dove non concordo però è che questa sia una crisi irreversibile, assolutamente no, queste sono difficoltà di funzionamento che possono essere sanate.

Per di più sappiamo che le democrazie sono molte e dunque alcune hanno maggiori difficoltà, alcune minori.

Dobbiamo preoccuparci moltissimo delle modalità di funzionamento della democrazia negli Stati Uniti d’America, ma possiamo preoccuparci della democrazia in Norvegia? Assolutamente no.

E soprattutto, vi propongo l’esercizio mentale all’incontrario, in nome di che cosa combattono gli studenti di Hong Kong, in nome di cosa combatte la signora Aung San Suu Kyi, in nome di cosa le varie opposizioni ai regimi autoritari africani combattono? In nome della democrazia e di quale democrazia? Della democrazia che hanno visto a Oxford, che hanno visto a Cambridge, che hanno visto ad Harvard, che hanno visto persino alla Sorbona.

Cioè la democrazia come la pensiamo noi, la democrazia che Giovanni Sartori chiamerebbe ideale è viva e combatte insieme a noi, se posso dirlo così.

E quindi direi di essere più attenti e più precisi nella critica lasciando le apocalissi ai filosofi del nostro stivale e dell’esagono francese.

Cambiare le istituzioni in senso semi presidenzialista

Più in generale condivido un punto e cioè che bisogna cambiare fondamentalmente le istituzioni. Potremmo cambiarlo non in senso presidenzialista. Meglio il semi-presidenzialismo. Quello è il campo di gioco perché sposta il potere sulle istituzioni e lontano da partiti deboli e inadeguati, incapaci comunque di riuscire a controllarlo e a esibirlo.

Per il resto credo che sono d’accordo con varie cose che avete detto, soprattutto sono d’accordo con chi ha parlato della comunicazione, sia Stefano Rolando, sia, se ho capito bene, Sodano.

A lui dico: dobbiamo approfondire questo argomento, perché la politica è parlare fra persone, è comunicare fra persone e quindi è una buona comunicazione che può sconfiggere le stupidaggini e le superficialità e che argomenta, che presenta una varietà di soluzioni –perché in democrazia non c’è mai un’unica soluzione. Secondo me una comunicazione di questo genere farebbe produrre passi avanti significativi. La situazione è ovviamente molto difficile, però se ci voltiamo indietro diremmo che ci sono stati momenti nella storia delle democrazie del mondo in cui la situazione era molto migliore? Credo proprio di no. Poi possiamo naturalmente discutere, scegliere gli esempi e così via. Però anche se siamo in una situazione difficile, sono convinto che abbiamo gli strumenti analitici e politici, per padroneggiarla, con grande grande impegno, con grande dispendio di energie, però si può fare: “yes, we can”.  Yes, we will.


[1]Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia 1945-1990, Bologna Il Mulino, 449 p.

[2] Si tratta del seguito del Profilo Ideologico del Novecento di Norberto Bobbio (1969): Gianfranco Pasquino, La libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia Repubblicana, Torino, Utet, 2021 223 p. Saggio qui recensito da Massimiliano Malvicini alle pp. 953-955.  . 

[3] Antonio Maria Costa (Mondovì, Cuneo, 1941), economista italiano laureato in scienze politiche all’università di Torino (1963), in economia all’università statale di Mosca “Lomonosov” (1967) e con un dottorato di ricerca conseguito alla University of California, Berkeley (1971). Ha ricoperto le cariche di sottosegretario generale dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), dal 1983 al 1987, di segretario generale della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, dal 1992 al 2002, e di direttore esecutivo dell’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), dal 2002 al 2010.

[4] Francis Fukuyama, Liberalism and Its Discontents, New York, Farrar Straus & Giroux, 2022, 172 p. Traduzione italiana di Bruno Amato e Maria Proggi: Il liberalismo e i suoi oppositori, Torino, Utet, 2022, 186 p.