TV

Democrazia Futura. Alle origini della riforma del servizio pubblico radiotelevisivo con la nascita di Rai 3 nel 1979

di Bruno Somalvico, Storico dei media e direttore editoriale di Democrazia futura |

Breve storia della Rai dagli anni del miracolo economico alla stagione dei governi di unità nazionale, l'approfondimento di Bruno Somalvico, Storico dei media e direttore editoriale di Democrazia futura.

Bruno Somalvico

Fra due anni, nell’autunno 2024 celebreremo il centenario dall’inizio delle trasmissioni radiofoniche dell’Unione Radiofonica Italiana, e contemporaneamente, il settantesimo anniversario dell’inizio della programmazione regolare dei programmi televisivi della Rai. Iniziamo con questo numero di Democrazia futura a ripercorrere alcune tappe salienti di questa lunga storia del servizio pubblico radiotelevisivo partendo dai due decenni che hanno dapprima negli anni Sessanta la grande crescita della televisione in Italia a partire dagli anni del cosiddetto miracolo economico sino alla riforma del servizio pubblico con l’apporto delle Regioni e all’avvio del decentramento sino al varo della terza rete televisiva negli anni dei governi di unità nazionale.

La riaffermazione nel 1960 del monopolio Rai da parte della Corte Costituzionale e la nascita delle tribune politiche

In Italia, qualche anno dopo l’avvio delle trasmissioni televisive regolari nel 1954, intorno ai primi anni Sessanta, assistiamo ai primi interventi della Corte Costituzionale, che sarà poi costantemente chiamata nel corso degli anni seguenti a decidere della legittimità costituzionale di molte norme in materia radiotelevisiva e influenzerà in maniera determinante l’evoluzione dell’intera disciplina di settore.

Nelle sue prime sentenze, Sentenza del 1960,  del 1961, e  del 1963, la Corte Costituzionale si limita a dichiarare costituzionalmente legittime le norme che prevedono la riserva statale, anche in ragione della limitatezza delle frequenze disponibili, e dunque legittimo il sistema vigente di monopolio statale, sostenendo l’incompetenza delle Regioni a gestire direttamente il servizio radiotelevisivo regionale).

Nella fattispecie, nella prima sentenza, n. 59 del 6 luglio 1960 la Corte Costituzione conferma il diritto di riserva statale e stabilisce l’esistenza di un “monopolio naturale”[1] invitando implicitamente la Rai ad assicurare un miglior rispetto del pluralismo e delle condizioni di accesso dei partiti all’informazione del servizio pubblico osservando come

“Lo Stato monopolista di un servizio destinato alla diffusione del pensiero ha l’obbligo di assicurare in condizione di imparzialità ed oggettività la possibilità potenziale di goderne …a chi sia interessato ad avvalersene per la diffusione dl pensiero”.

Infatti, pur essendo stata approvata nel 1956 una legge che disciplinava minuziosamente la propaganda elettorale disegnando tutti i possibili modi e spazi della competizione, la legge si dimenticava completamente della radio e della neonata televisione. In base all’invito della Corte Costituzionale, il Presidente del Consiglio annuncia nel 1960 la nascita di una “Tribuna elettorale” che viene concessa a tutti i partiti sulla rete nazionale della  radio e della televisione dopo il giornale serale. Raggiungendo mediamente 14 milioni di ascoltatori e una larga risonanza nell’opinione pubblica rappresentata dalla grande carta stampata le conferenze stampa dei partiti proseguiranno anche nel 1961 con la creazione di «Tribuna politica».

Contemporaneamente si decide di rafforzare l’informazione per i cittadini italiani residenti all’estero. Il 30 marzo 1962 una convenzione della Presidenza del consiglio dei ministri affida alla RAI la produzione dei notiziari e servizi Informativi per l’estero. Due anni prima, nel gennaio 1960 era stata costituita la Società Rai Corporation Italian Radio TV System, con sede a New York e con capitale interamente posseduto dalla Rai.

I caratteri della missione del servizio pubblico negli anni del monopolio

Si vengono così a precisare i caratteri che contraddistinguono il servizio pubblico nella sua prima stagione televisiva in regime di monopolio.  Il servizio pubblico radiotelevisivo in Italia è andato via via strutturandosi dal 1954 in poi accentuando talune caratteristiche che vale la pena di ricordare. Esse erano legate alla “missione” affidata alla RAI, titolare del monopolio, che si proponeva di conseguire obiettivi fondati su principi allora difficilmente discutibili.

Innanzitutto la RAI doveva assolvere all’imperativo nazionale di assicurare la distribuzione del segnale su tutto il territorio della Penisola. Titolare di una sorta di “monopolio naturale” giustificato dalla scarsità delle frequenze e dei mezzi fisici di diffusione, il servizio pubblico doveva mirare all’estensione delle trasmissioni a tutto il territorio, senza eccezioni, per offrire pari opportunità di accesso a tutti i cittadini della Repubblica.

In secondo luogo, in nome dello stesso principio costituzionale di uguaglianza fra tutti i cittadini della Repubblica, si attribuiva ai media radiofonici e televisivi un ruolo fondamentale per la democrazia, e cioè la formazione e la manifestazione della pubblica opinione. Da un lato si doveva assicurare il diritto all’informazione, ampliando la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica; dall’altro si pretendeva di garantire l’indipendenza e l’obiettività dell’informazione e il rispetto del pluralismo politico e culturale.

In terzo luogo veniva assegnato al servizio pubblico un obiettivo culturale e nazionale per la formazione “intellettuale e morale” dei cittadini. Per la Rai come per gli altri broadcaster pubblici in Europa si pensò allora di mirare alla formazione e all’intrattenimento dei cittadini, mediante una sorta di moderna agenzia educativa nazionale, incaricata in qualche modo di affiancare e di integrare la pubblica istruzione tradizionale.

Infine la televisione pubblica ha dato voce e risonanza ai cosiddetti settori culturali deboli dell’industria dello spettacolo: dal cinema d’autore al teatro, dalla musica al balletto.

La Rai ha cercato di assolvere all’obbligo di promuovere la lingua italiana, la cultura, l’arte, lo spettacolo, l’informazione per le comunità nazionali residenti all’estero, ed è stata sensibile al dovere di tutelare e garantire l’accesso ai mezzi di informazione e la libertà d’espressione per le minoranze etniche e linguistiche.

Ha cercato poi di assicurare un progressivo decentramento territoriale ideativo e produttivo del servizio pubblico per meglio servire la complessità economica, sociale e culturale del Paese.

C’è qualcosa che certamente contraddistinse i servizi radiotelevisivi pubblici dell’epoca del monopolio rispetto agli operatori televisivi privati successivamente subentrati. Fu allora garantita una larga differenziazione per generi nella programmazione radiofonica e televisiva con maggiore completezza e qualità dell’offerta.

Va altresì ricordata una caratteristica di cui la Rai può beneficiare la Rai se non fino alla fine del monopolio, perlomeno sino all’inizio degli anni Settanta quando cambiano i gusti e i comportamenti soprattutto dei giovani. Le scelte dei programmi sono operate in base ai cosiddetti indici di gradimento e non su dati e valori assoluti di ascolto.

All’eccezione delle aree periferiche dove si potevano ricevere programmi esteri non esisteva infatti nessuna concorrenza con altre televisioni né quindi competizione sugli indici di ascolto. L’alternativa principale rimane ancora quella di andare al cinema.

L’affermazione della missione educativa e pedagogica della televisione e la nascita del secondo canale nei primi anni del miracolo economico (1957-1961)

A partire dalla fine degli anni Cinquanta l’offerta televisiva si rafforza con nuovi programmi che rispondono alle finalità educative e pedagogiche assegnate al servizio pubblico che contribuirà a sconfiggere l’analfabetismo e a favorire l’unificazione linguistica dell’intero territorio nazionale.

Il 25 novembre 1958 iniziano i corsi di “Telescuola”. Essi hanno carattere “sostitutivo”: sono cioè diretti a consentire il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie. Il 15 novembre 1960 ha inizio il corso di “Telescuola” per adulti analfabeti “Non è mai troppo tardi”. Il 16 ottobre 1961 a Roma, nel nuovo edificio del Centro di Telescuola, entrano in funzione due studi televisivi. Hanno inizio i corsi televisivi di Scuola media unificata. La programmazione educativa verrà rafforzata nel febbraio 1967 con l’inizio delle trasmissioni televisive di educazione per gli adulti della serie “Sapere” e l’avvio qualche mese dopo di nuove trasmissioni che svolgono una funzione “integrativa”, anziché sostitutiva, del normale insegnamento scolastico. In questo nuovo quadro dove viene peraltro riaffermata dalla Corte Costituzionale la legittimità del monopolio hanno inizio il 21 novembre 1961 le trasmissioni del secondo canale televisivo irradiate inizialmente da 14 impianti trasmittenti che servono il 52 per cento della popolazione italiana. Una Convenzione aveva stabilito il 21 maggio 1959 l’installazione entro il 31 dicembre 1962 di una seconda rete televisiva in UHF. Il 2 maggio 1960 era entrato in funzione a Monte Penice il primo trasmettitore per la seconda rete televisiva. Il 31 dicembre 1962 la rete del Secondo Programma televisivo, come previsto dalla Convenzione verrà estesa a tutte le regioni italiane e servirà il 70 per cento circa della popolazione. Una nuova Convenzione del 7 febbraio 1963 estenderà la rete in modo da raggiungere  i capoluoghi di provincia e coinvolgere alla fine del 1966 l’80 per cento della popolazione. Il 7 ottobre 1966 hanno inizio le trasmissioni televisive in lingua tedesca per la zona di Bolzano, irradiate dal trasmettitore del Secondo Programma di Monte Paganella e dai ripetitori ad esso collegati, nell’intervallo orario 20:00-21:00.

La centralità della televisione nella società italiana in trasformazione degli anni Sessanta

Alla fine del 1963 circa 25 milioni di persone, ovvero ben i due terzi della popolazione italiani, seguono i programmi televisivi almeno una volta alla settimana, mentre nella media giornaliera i telespettatori superano i 14 milioni. Sinora le classi medie hanno avuto un ruolo di leadership nel consumo radiotelevisivo portando il numero degli abbonati a quasi 5 milioni.

“Lo sviluppo delle comunicazioni di massa, stampa, cinema, radio e la televisione, non fa che correre dietro alle trasformazioni profonde del Paese, alle grandi migrazioni, agli sventramenti e al rivoluzionamento dell’urbanistica delle città e del paesaggio delle campagne. Siamo in pieno miracolo economico […] Lo spettacolo televisivo allarga gli orizzonti di ognuno verso i problemi sociali dell’epoca, porta informazioni su ambienti e modi di vita diversi, scardina valori tradizionali e profondamente radicati”.

Gli inserzionisti pubblicitari se ne accorgono presto. Con un accordo tra la FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali), la FIP (Federazione Italiana Pubblicità) e l’UPA (Utenti Pubblicità Associati), viene costituito il 1 febbraio 1964 il Comitato Permanente Interfederale della Pubblicità con lo scopo di coordinare continuativamente gli sforzi delle tre organizzazioni per il migliore sviluppo della pubblicità. Nel gennaio 1966 le organizzazioni aderenti al Comitato Permanente Interfederale della Pubblicità e la Rai ratificano il Codice della lealtà pubblicitaria. Il 30 marzo la Rai aderisce al Comitato Permanente Interfederale della Pubblicità. Il 12 maggio 1966 ufficialmente insediato il Giurì incaricato di vigilare sulla applicazione del Codice della lealtà pubblicitaria. Un anno dopo, il 9 ottobre 1967, con Decreto del Consiglio dei Ministri viene istituita presso la Direzione Generale dei Servizi delle Informazioni e della Proprietà Letteraria, Artistica e Scientifica una Commissione paritetica Rai- FIEG per la ricerca e il raggiungimento d’intese sui problemi della pubblicità e sul coordinamento programmatico dei correlativi servizi. Il 29 novembre 1968 la Commissione paritetica Rai-FIEG per i problemi della pubblicità esprime parere favorevole sui criteri di distribuzione della pubblicità televisiva ai quali dovrà attenersi la SIPRA.

Nel maggio 1969 viene costituito il Comitato Pubblicità Progresso, del quale fanno parte anche la Rai e la SIPRA, ed il cui programma è l’ideazione e la realizzazione di campagne pubblicitarie di pubblico interesse al servizio della collettività. Del nuovo peso della televisione se ne accorgono anche gli esercenti cinematografici di fronte al calo del botteghino. Con la legge del 4 novembre 1965 è istituito un Comitato ministeriale competente a stabilire in difetto di accordi tra le organizzazioni di categorie e la Rai il tempo minimo di trasmissione di film e telefilm italiani in rapporto a quelli stranieri nei programmi televisivi.

La tv entra anch’essa in una nuova fase beneficiando di una sorta di proprio miracolo economico che sembra costituire la premessa per passare dall’epoca artigianale alla sua maturazione industriale.

Per più di un decennio, dal 1961 al 1974, la Rai verrà affidata al democristiano fanfaniano Ettore Bernabei e a un nuovo gruppo dirigente di ispirazione cattolica fra i quali spiccano anche le figure di Gianni Granzotto e Fabiano Fabiani. Obiettivo secondo quanto indicato da alcuni storici della televisione italiana “trasformare l’azienda in una fabbrica del consenso e gestire la centralità che il mezzo televisivo sta acquisendo nella società italiana”.  

La crescita della Rai negli anni centrali della stagione del monopolio è imponente.

Negli anni Sessanta aumentano gli introiti con la crescita degli abbonati. Pur iniziando allora il fenomeno dell’evasione, gli abbonati al canone salgono a 10 milioni nel 1969.

La Rai si consolida nel settore delle partecipazioni statali mantenendo quell’ambivalenza fra sfera pubblica e sfera privata che era stato uno dei tratti distintivi sin dalle origini quasi cent’anni fa delle trasmissioni radiofoniche dell’URI, l’Unione Radiofonica Italiana

Fra il 1961 e il 1969 il fatturato della Rai cresce grazie soprattutto alla crescita degli abbonati al canone che alla fine del decennio saranno superiori ai 10 milioni di famiglie, malgrado l’inizio del fenomeno della cosiddetta evasione.

La Rai diventa così la prima industria culturale del Paese con punte di 11 milioni di telespettatori Con tassi di crescita a due cifre e priva di qualsiasi concorrente la Rai non deve cercare denaro né tanto meno sponsor.

L’ingresso della Stet nel capitale della Rai e gli investimenti per la modernizzazione tecnologica degli apparati di produzione e per l’estensione dell’illuminazione dei segnali (1962-1974).

Una determinazione della Corte dei Conti del 6 febbraio 1962 fissa le modalità di attuazione del controllo della Corte stessa sulla gestione finanziaria della Rai che all’interno del sistema delle partecipazioni statali passerà nel dicembre 1964 sotto l’orbita di controllo della società finanziaria Telefonica STET. La SIP (Società Italiana per l’Esercizio Telefonico), in relazione alla modifica del suo scopo sociale, cederà infatti alla STET il 21 dicembre 1964 la sua partecipazione del 22,90 per cento al capitale della Rai.

Malgrado questi controlli, grazie a risorse abbondanti, la Rai può procedere  senza problemi nella modernizzazione tecnologica dei suoi apparati di produzione e trasmissione.

Fra il 1962 e il 1974 assistiamo a due importanti innovazioni di natura tecnologica che migliorano sensibilmente e progressivamente le condizioni della produzione televisiva.

Nel 1962 con l’introduzione degli Ampex che consentono la registrazione video su nastri magnetici, la televisione si affranca dalla diretta e può separare il momento della produzione da quello della messa in onda. La registrazione videomagnetica consente non solo la registrazione ma anche di montare le immagini elettroniche. Dodici anni dopo, nel 1974, l’apparizione di nuove piccole telecamere, chiamate in inglese camcorder, consente di realizzare riprese esterne prima solo realizzate su pellicola e quindi riversate attraverso il cosiddetto telecinema, riducendo sensibilmente i tempi fra la ripresa e la messa in onda di un servizio trasmesso nell’ambito di un telegiornale.

In questi anni, dopo aver dato vita al Centro di Produzione di Via Teulada la Rai prosegue la propria crescita inaugurando nel marzo 1963 a Napoli un nuovo Centro di Produzione radiofonico e televisivo. Nell’ottobre 1965 viene inaugurato a Milano un nuovo studio televisivo. Un anno dopo entra in funzione un nuovo studio a Roma. Infine nell’ottobre 1968 viene inaugurato il nuovo Centro di Produzione di Torino. Parallelamente nascono a partire dalla fine degli anni Cinquanta le sedi regionali nei capoluoghi delle future Regioni ed entrano in funzione, dopo New York, i primi studi degli uffici di corrispondenza a Londra (1965), Hong Kong (1967),  Parigi e Beirut (1969) e Bonn (1970). Cresce anche l’illuminazione della rete di impianti di trasmissione e di ripetizione dei segnali. Alla fine del 1968 la rete del Programma Nazionale televisivo serve il 98,3 per cento della popolazione italiana, mentre quella del Secondo Programma ne raggiunge oltre il 90 per cento.

Le prime sperimentazioni di trasmissioni televisive a colori.

Nel 1962 inizia la sperimentazione della tv a colori Il 9 luglio 1962 il trasmettitore di Roma – Monte Mario del Secondo Programma televisivo irradia i primi segnali televisivi a colori nello standard americano NTSC. L’anno successivo in via Asiago, viene attrezzato uno studio sperimentale di televisione a colori. Il 15 ottobre 1963 si riunisce a Roma il Gruppo “ad hoc” per la televsione a colori dell’Unione Europea di Radiodiffusione (URER). In questa occasione, presso lo studio P1 di via Asiago e da alcune postazioni campali nell’area urbana di Roma vengono effettuati esperimenti comparativi fra i sistemi NTSC, SECAM e PAL. Il 15 gennaio 1964 i trasmettitori di Torino-Eremo, Milano-Monte Venda, Roma-Monte Mario e Monte Faito, del Secondo Programma TV, irradiano trasmissioni quotidiane di segnali di prova di televisione a colori per l’industria secondo i sistemi NTSC, SECAM e PAL. Il 3 maggio 1966 su invito dell’UER, la Rai organizza a Roma dimostrazioni comparative di televisione a colori con sistemi NTSC, SECAM e PAL per i rappresentanti dei paesi membri dell’UER, dell’OIRT (organismo che riunisce tutte le emittenti pubbliche dei paesi appartenenti all’Europa orientale), e delle Amministrazioni delle Poste e Telecomunicazioni e dell’Industria.

La nascita dei rotocalchi e delle grandi inchieste televisive

La modernizzazione degli apparati di produzione e di montaggio avrà ripercussioni immediate soprattutto nella produzione dell’informazione, non solo dei telegiornali ma anche dei rotocalchi, e in quella dei cosiddetti programmi-inchiesta e dei cosiddetti “speciali” e “viaggi” realizzati dalla redazione del telegiornale.Nel 1963 nasce Tv7 che riprendendo lo stile dei cinegiornali, adottando una struttura che ricorda da vicino il telegiornale, propone 7-8 servizi di approfondimento, trattando gli argomenti in 5 minuti. Ma anche la radio cambia linguaggio e l’informazione si trasforma apparendo più vicina all’interesse degli ascoltatori. In occasione della frana del Vajont che provoca la morte di 2000 persone il 9 ottobre 1963 la radio tiene continuamente aggiornati gli ascoltatori con notiziari e servizi speciali. Gli italiani chiedono alla televisione di partecipare a quella che è stata definita “la cerimonia del video”, ovvero autenticità, immediatezza e partecipazione dal vivo ai programmi. L’inchiesta dilaga in televisione come

“ricerca di una contemporaneità fra emissione e avvenimento, come informazione legata ad una realtà sociale, a una cronaca quotidiana, ad un’istantaneità spazio-temporale”.

Sono le premesse per un nuovo ruolo meno passivo e da protagonista da parte del telespettatore che desidera sempre di più essere messo nelle condizioni, se non ancora di scegliere quali programmi vedere, perlomeno di partecipare ai programmi che sono stati prescelti dalla Rai.

Nel gennaio 1968, si allunga la programmazione del canale televisivo nazionale con una nuova fascia meridiana (12.30-14.00) che, oltre a presentare programmi culturali, ricreativi ed informativi,  si centra sull’edizione di una prima edizione del Telegiornale alle ore 13.30.

Ma soprattutto un evento costituisce la nascita di quello che Marshall Mc Luhan chiamerà allora il “Villaggio globale” della comunicazione: nella notte fra il 20 e il 21 luglio 1969, la Rai trasmette in diretta in mondovisione lo sbarco sulla luna degli astronauti americani dell’Apollo 11

Seguendo quanto avvenuto per la rado dove assistiamo in quegli anni alla prima segmentazione dek pubblico con programmi mirati ai giovani,  anche l’offerta televisiva a cavallo fra anni Sessanta e inizio anni Settanta si andrà razionalizzando alla ricerca di uno speciale rapporto con l’audience. Mentre negli anni Cinquanta le classi alte o medio-alte rappresentano l’asse portante del processo di espansione della televisione, dopo che l’ascolto è quasi raddoppiato da 11 milioni di telespettatori nel 1962 a 20 milioni nel 1970 con un ampliamento che interessa progressivamente sia la fascia precedente (pre prime time) che quella successiva al telegiornale (prime time), a partire dagli anni Settanta si abbassano gli standard scolastico-culturali e crescono nuovi gruppi come le donne e i giovani.

La diretta dello sbarco sulla luna costituisce simbolicamente una sorta di spartiacque fra la vecchia e la nuova televisione ma coincide anche con  la fine di un quindicennio di crescita e l’esaurirsi della formula politica del centro-sinistra che assicura in questi anni una relativa stabilità politica cui seguirà un periodo di forte conflittualità sociale, politica e ideologica che toccherà il culmine con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro all’apice degli anni di piombo.

A questa trasformazione del pubblico la Rai non riesce ancora a dare una risposta soddisfacente. Si passa progressivamente da una televisione di tipo pedagogico-educativo sotto la guida protettiva e paternalistica dello Stato ad un’industria dell’intrattenimento e del divertimento che non ha però ancora i mezzi per soddisfare pienamente il suo pubblico.

Il quinquennio 1969-1974 è caratterizzato dal prevalere dell’intrattenimento, da una netta separazione di generi (fiction, informazione), dalla concorrenza fra il primo e il secondo canale e fra i tre canali radio, da un’accentuata professionalità e dall’incremento costante della pubblicità.

Si guarda al grande pubblico televisivo nel suo nuovo ruolo di consumatore.

La crescita degli introiti pubblicitari diventa un’esigenza di fronte al rallentamento della crescita degli abbonamenti

Nel febbraio 1971, con la partecipazione della FIEG, dell’UPA, dell’ATIPI e della Rai viene costituito l’ISERP – Istituto di Studi e Ricerche sulla Pubblicità il quale si propone lo sviluppo, il controllo e il coordinamento dell’attività di ricerca nell’area dei mezzi pubblicitari. L’Associazione degli Utenti di Pubblicità ritiene insufficiente il tempo destinato dalla Rai agli spot al di sotto del limite del 5 per cento previsto dalla Convenzione precedente del 1952: si determina così uno squilibrio crescente fra la notevole domanda di pubblicità non esaudita da Carosello (il cui avvio risale al 1957) e la scarsa possibilità di soddisfarla dati i limiti degli spazi disponibili. 

La Rai nell’impasse politico-finanziaria e tecnologica degli anni Settanta

Ma soprattutto la Rai priva di quell’autonomia finanziaria che l’aveva caratterizzata nel due decenni precedenti, e dovendo per certi versi subire la cresciuta dell’attenzione del mondo politico verso la televisione, si troverà a fare i conti con una miopia da parte del legislatore.

Tale mancanza impedirà alla Rai di proseguire il processo di modernizzazione tecnologica dei propri apparati, impedendole in primo luogo di entrare sin dall’inizio nel nuovo universo della televisione a colori che trasformando la qualità di fruizione del medium televisivo rappresenta in quegli anni una rivoluzione simile a quella conosciuta dalla radio con l’avvento del transistor  e delle trasmissioni stereofoniche sulle reti a modulazione di frequenza.

La combinazione di questi tre elementi (incapacità di soddisfare il nuovo pubblico desideroso di svago e intrattenimento, mancanza di autonomia finanziaria e di risorse aggiuntive derivanti dai limiti sulla pubblicità e incapacità di guidare, interferenza della sfera politica e nella fattispecie resistenze del mondo politico nei confronti processi dei processi di innovazione tecnologica) unitamente all’acuirsi della forbice esistente fra sistema politico e gestione politica della televisione pubblica da un lato e fermenti, tensioni sociali e contraddizioni vissute dalla società civile, dagli studenti dalle donne e dai movimenti civili a favore della modernizzazione e laicizzazione del paese, dall’altro, creano una sorta di impasse.

Inizia la cosiddetta “stagione dei convegni”. In un incontro del club Turati di Milano sul tema Tv e libertà in Italia: una riforma urgente  tenutosi nell’aprile 1969, per la prima volta alcune forze che si dichiarano riformatrici si scoprono fautrici dell’abolizione del monopolio statale. In ogni caso anche chi a sinistra continua a difendere il monopolio della Rai è convinto che occorra creare un movimento attorno a un progetto di legge di riforma della Rai, come quello presentato dall’ARCI e illustrato in Parlamento da alcuni parlamentari il 3 aprile 1970, una settimana dopo le trasmissioni clandestine di Radio Sicilia Libera dalla valle terremotata del Belice.

Nel frattempo le agitazioni sindacali dell’autunno caldo del 1969 non risparmiano la Rai e ne scuotono l’assetto interno, mentre rimane senza seguito il tentativo di autoriforma preconizzato dal Rapporto sulla Rai degli esperti Gino Martinoli, Salvatore Bruno e Giuseppe De Rita,  commissionato dalla Direzione Generale di Ettore Bernabei per individuare le soluzioni alla crisi interna dell’ente e ai problemi posti dall’innovazione tecnologica, mentre le istituzioni locali entrano nel dibattito sulla riforma e in un convegno a Milano del febbraio 1971 il Psi chiede Una Rai nuova per l’Italia delle Regioni.

Nel gennaio 1973 Il capitale sociale della SIPRA – Società Italiana Pubblicità per Azioni (già suddiviso tra l’IRI per il 70 per cento e la Rai per il 30 per cento) viene assunto interamente dalla Rai. Nonostante una maggior attenzione verso la raccolta pubblicitaria la Rai inaugurerà nel nuovo decennio una nuova fase di indebitamento che si aggraverà dopo lo scoppio della crisi del Petrolio nel 1973 quando l’inflazione in un anno raddoppia dal 6 per cento nel 1972 al 12,4 per cento nel 1973 arrivando a sfiorare il 25 per cento nel 1975.

Il servizio pubblico riuscirà ad uscire da questa impasse solo nella seconda metà degli anni Settanta quando potranno finalmente iniziare nel febbraio 1977 le trasmissioni a colori e farsi sentirsi gli effetti della Legge di riforma approvata nel 1975, di cui peraltro verranno rapidamente messi in luce insieme alle luci, anche le ombre.

Come osservato da uno storico dei media Enrico Menduni

“è lo stesso successo della televisione che crea il divorzio tra la società, il pubblico e le élites politiche e culturali […] portando ad un rivoluzionamento nel modo di pensare e di guardare la tv. La televisione privata, sino ad ora rifiutata in gran parte dei paesi europei sarà auspicata e desiderata” proprio perché portatrice – sull’onda delle nascenti radio libere – di nuove istanze meno paludate e soggette a controllo e censura da parte dei pubblici poteri[2].

Oltre a questo, la televisione privata sarà portatrice di nuovi spazi di libertà e quindi anche di  forme di democrazia in grado di soddisfare le richieste di bisogni e consumi provenienti dai ceti sociali di un terziario avanzato che emerge con nuovi protagonisti sociali e generazionali.

La politica culturale del servizio pubblico non può essere solo una scelta a favore della qualità, ma deve fare i conti con i nuovi processi di comunicazione e di partecipazione del pubblico. L’indice di ascolto diventa l’elemento principe  per valutare  il successo di una trasmissione permettendo di diversificare l’ormai grande massa di pubblico per mezzo di appartenenze demografiche, sociali ed economiche, molto prima dell’avvento dell’Auditel e dell’arrivo massiccio della pubblicità con l’inizio della guerra sugli ascolti con le nascenti televisioni commerciali

In tutta la stagione del monopolio il Servizio Opinioni, nato nel 1954, insieme all’avvio delle trasmissioni televisive, è l’organo aziendale della Rai preposto alla rilevazione scientifica delle reazioni del pubblico ai programmi. Gli apparecchi inizialmente sono pochi ma la RAI si rende subito conto della necessità di conoscere le caratteristiche di questo nuovo strumento di comunicazione in funzione del pubblico al quale era destinato. Fino ad allora la RAI aveva  esaminato le reazioni spontanee degli ascoltatori radiofonici mediante l’esame delle lettere degli utenti che però non avevano alcun valore di rappresentatività statistica. In un primo tempo La Rai si preoccupa di conoscere il gradimento del pubblico relativamente alle principali trasmissioni televisive e radiofoniche attraverso la creazione di gruppi di Ascolto (panels) specializzati; quasi subito nascono anche le inchieste telefoniche che, condotte la sera stessa della messa in onda permettono di avere delle indicazioni utili in breve tempo. Nel 1959, utilizzando le nuove tecniche di ricerche di mercato, indagini statistiche e sociologiche (introdotte in Italia alla fine della guerra), e dopo una serie di esperimenti, il Servizio Opinioni costituisce una propria rete di intervistatori allo scopo di rilevare in modo continuativo (tramite interviste dirette e giornaliere ad un campione della popolazione italiana) l’ascolto delle trasmissioni radio-televisive. Tale indagine si chiama “Barometro d’ascolto”. La tecnica dell’intervista diretta viene scelta perché permette di misurare non solo l’ascolto in casa propria ma anche quello effettuato in locali pubblici o altrove che, all’inizio degli anni Sessanta ammontava al 60 per cento dell’ascolto complessivo. Fin dall’inizio i risultati della dimensione e della composizione dell’audience sono forniti all’UPA (utenti pubblicità associati) che li diffonde agli industriali interessati. Negli anni immediatamente successivi iniziano anche le indagini statistiche volte a rilevare la disponibilità di apparecchi televisivi, le modalità dell’ascolto, i gusti e le preferenze per i vari generi e orari dei programmi.Nel 1965 l’attenzione è poi rivolta ai contenuti, al linguaggio e alla loro comprensione; nel 1968 si dà inizio ad analisi più approfondite riguardanti i ‘messaggi’ che implicitamente o esplicitamente i programmi televisivi trasmettono al pubblico e ciò per rendere meglio consapevole l’Azienda dei valori veicolati e dell’efficacia della sua comunicazione. Tutta l’attività del Servizio Opinioni è supportata dai pareri consultivi e dalle proposte di un Comitato Scientifico composto da cinque docenti delle discipline attinenti alle attività svolte.

Il rinnovo annuale della Convenzione nel 1972 e il dibattito sulla libertà d’antenna

Nel nuovo contesto più politicizzato dell’inizio degli anni Settanta è impensabile un rinnovo tacito della vecchia Convenzione come avvenuto nel 1952. Se le forze politiche in un primo momento focalizzano il dibattito principalmente sulla questione della riforma della Rai e sul concorso delle Regioni appena costituite al processo di ridefinizione della missione del servizio pubblico in ambito locale, alla vigilia della scadenza della Convenzione ventennale tra lo Stato e la Rai (15 dicembre 1972, poi prorogata di anno in anno fino al 1975) si riaccende la discussione sulla legittimità del monopolio. Riecheggiando le battaglie del gruppo de Il Mondo, Eugenio Scalfari – allora parlamentare socialista – in un articolo pubblicato sull’Espresso[3]  ne rilancia le tesi auspicando un regime di libera concorrenza tra radiotelevisione pubblica e reti commerciali private, e dà il via a una potente ed efficace campagna stampa. Come vedremo, le discussioni sulla liberalizzazione del mercato radiotelevisivo erano cominciate parecchi anni prima, nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma l’articolo di Scalfari rappresenta un punto di svolta nella qualità del dibattito, anche per la vicina scadenza della concessione della Rai e per il fermento intorno ai progetti di una sua riforma[4]. Dopo un’iniziale ostilità, quindi, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista iniziano a mostrare delle aperture nei confronti della privatizzazione. La dc teme la frantumazione del monopolio e la diminuzione di potere che ne potrebbe conseguire, ma subisce nello stesso tempo la pressione del mondo imprenditoriale e intravede nella presenza di nuovi centri di potere la possibilità di esercitare nuovi spazi di influenza. Il psi è inizialmente contrario alla liberalizzazione del settore, ma Scalfari anticipa quelle che diverranno poi le posizioni di tutto il partito, salutando la comparsa di nuovi soggetti come inevitabile (per la diminuzione dei costi di impianto e per ragioni tecniche legate alla diffusione dei satelliti) e vantaggiosa (per minare quello che fino ad allora era stato l’incontrastato dominio democristiano nell’informazione radiotelevisiva). Il pci rimane, invece, assolutamente contrario alla rottura del monopolio pubblico che vorrebbe però completamente riformato: l’idea portante è che il pluralismo non sia garantito tanto da una presenza di differenti soggetti nel mercato quanto da una diversa gestione del servizio pubblico, a tutela appunto di un’offerta pluralista. La cosiddetta “libertà d’antenna” si risolverebbe, invece, nell’affidare la radio e la televisione ai grossi gruppi industriali del paese, così come sta avvenendo in quegli anni per la carta stampata. La Rai dopo aver concorso all’unificazione linguistica del Paese e alla battaglia a favore dell’alfabetizzazione degli adulti, è diventata la prima industria culturale del Paese e si guarda ad essa con grande attenzione alla ricerca di nuovi orizzonti.

La Rai prende coscienza della sua situazione centrale nell’industria culturale italiana e – come già ricordato – affida ad un gruppo di tre “saggi” il tentativo di proporre una propria auto-riforma che veda progressivamente esaltata la missione imprenditoriale dell’azienda svincolandola dai condizionamenti politici del governo.

Nella fattispecie vede negli accordi contrattuali, promossi con le singole amministrazioni per la realizzazione di determinati servizi, la possibilità di rivedere la sua missione di servizio pubblico secondo modalità che rispettino l’autonomia dei soggetti contraenti. 

Il 21 giugno 1971 è stipulata, tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Rai, una Convenzione relativa alle trasmissioni radiotelevisive a carattere formativo, che pone le basi per una loro ripresa nel biennio 1971-72, volta a fornire nuovi modelli di impostazione didattica secondo un piano di applicazione metodologicamente innovativo.

Il 19 maggio 1973 verrà poi stipulata una Convenzione tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Rai relativa alle trasmissioni radiotelevisive di integrazione scolastica e di educazione permanente.  Ma ben presto con lo scoppio della crisi petrolifera queste spinte innovative rischiano di essere frenate.

La Convenzione fra la Rai e Lo Stato per il rinnovo della concessione viene rinnovata a due riprese, ma solo temporaneamente, per tutto il 1973 e nei primi quattro mesi del 1974, sino all’approvazione l’anno successivo della nuova legge di riforma del sistema radiotelevisivo.

La presa di controllo della Sipra da parte della Rai nel 1973 si produce in ottemperanza a quanto espressamente stabilito nell’art. 6 della Convenzione aggiuntiva Stato-Rai approvata il 15 dicembre 1972. Il 29 marzo 1973 viene approvato il nuovo codice postale e delle telecomunicazioni, nel quale sono raccolte, coordinate e ammodernate le disposizioni legislative in materia, approvate con Regio Decreto il 27 febbraio 1936 e le successive modificazioni ed integrazioni. In materia di radiodiffusione l’art. 441 del nuovo Codice afferma che nulla è innovato nella legislazione vigente.

Apparentemente siamo in una situazione di stallo. In realtà si disegna in questi anni il futuro della Rai. Le forze politiche discutono ampiamente sul futuro della Rai ricercando la cosiddetta “partecipazione”, ovvero la concertazione delle forze sociali e guardando al decentramento e alle autonomie locali.  

Come scrive Giuseppe Richeri

“Si riflette com’era stata la radiotelevisione fino a quel momento e cosa sarebbe stato necessario trasformare. Poi c’è una scadenza relativa all’applicazione della Costituzione e che riguarda l’istituzione delle Regioni, molto importante perché le Regioni non ritengono di essere un mero braccio amministrativo dello Stato, ma parte integrante dello Stato, anche per legiferare”.

Il rinvio della scelta sullo standard televisivo a colori e l’ipoteca sulla crescita della televisione via cavo

In realtà in questi tre anni si producono per miopia politica gravi errori di politica tecnologica che peseranno massicciamente sullo sviluppo industriale delle telecomunicazioni in Italia.

L’assenza di una scelta precisa dell’Italia nell’adozione dello standard per la televisione a colori è certamente il fatto più grave: creerà gravi incertezze non solo nei consumatori che inizieranno a vedere programmi a colori provenienti dall’estero, ma soprattutto fra l’industria elettronica di consumo nazionale che in assenza di scelte precise subirà un collasso con gravissime ricadute sull’intero Sistema-Paese progressivamente colonizzato dalle marche europee e giapponesi.

La Rai, in base alle sperimentazioni compiute nella prima metà degli anni Sessanta aveva chiaramente individuato nello standard tedesco PAL a 625 righe e 60 semi quadri al secondo, quello più adatto per l’Italia anche perché in grado di consentire la trasmissione di un canale audio in modalità stereofonica.

La preferenza per lo standard televisivo a colori Pal è palese e la Rai resiste con giustificate argomentazioni di natura tecnica alle forti pressioni politiche subite dal governo italiano dalla Francia gollista per favorire l’introduzione dello standard SECAM che alla fine verrà adottato per ragioni politiche solo dai Paesi comunisti del blocco orientale.

In un primo tempo gli ingegneri della Rai resistono a tali pressioni e fra il 7 e il 15 febbraio 1970 in occasione dei Campionati mondiali di sci alpino in Val Gardenia, la Rai impiega numerosi impianti mobili e fissi, che consentono la generazione per gli enti televisivi esteri della totalità dei programmi televisivi a colori nello standard tedesco PAL.

Due anni dopo, invece, in occasione dei Giochi Olimpici di Monaco di Baviera, su invito del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, espresso su conforme parere del Consiglio Superiore Tecnico delle Telecomunicazioni, la Rai effettua alternativamente sulla Seconda Rete televisiva il pomeriggio e la sera, trasmissioni a colori con i due sistemi PAL e SECAM, per un totale di 148 ore. Sono inoltre effettuate trasmissioni per prove tecniche per 38 ore, ripartite in parti uguali tra i due sistemi.

Di fronte allo scontro politico che investe anche le forze politiche della coalizione governativa si approfitta infine di un evento come la crisi petrolifera del 1973 per bloccare le sperimentazioni e rinviare la decisione in merito all’adozione dello standard. La Rai potrà confermare la propria scelta iniziale a favore del PAL ed avviare ufficialmente le trasmissioni a colori solo 7 anni dopo nel febbraio 1977.

Le riduzioni delle trasmissioni nel dicembre 1973 in seguito alle disposizioni del governo per limitare i consumi energetici a causa della crisi petrolifera, con l’anticipazione, rispettivamente alle 22.45 e alle 23.00, dell’orario di chiusura delle trasmissioni televisive e di quelle radiofoniche inaugurano la cosiddetta politica dell’austerity che, imponendo forzatamente una riduzione dei consumi voluttuari viene da taluni considerata come il tentativo dirigistico di fare un passo indietro, di voler imporre un ritorno alle abitudini e ai consumi morigerati dei primi anni del monopolio in una fase di grande trasformazione del Paese delle sue mentalità, di evoluzione dei costumi ma anche di presa di coscienza dei diritti dei cittadini e dei consumatori.

La politica dell’Austerity – oltre ad aggravare la recessione con l’aumento del costo dei prodotti derivati dal petrolio –  produce una riduzione delle trasmissioni, ma anche una compressione di quelli che sono considerati – per riprendere alcune analisi sociologiche di quegli anni – “nuovi bisogni” e nuovi diritti dei cittadini[5].

La prima breccia al monopolio radiotelevisivo del servizio pubblico: il caso TeleBiella e la prima crisi di governo sulla questione audiovisiva

Per questa ragione si rendono mature le condizioni per l’avvio di nuove attività da parte di operatori privati.

Nell’aprile 1971 nasceva al di fuori di qualsiasi norma, la prima televisione via cavo Tele Biella: per bloccarne lo sviluppo, il 12 agosto 1972 il ministro delle Poste Giovanni Gioia  dapprima attribuisce in concessione alla STET la posa e la gestione cavo, poi, il 29 marzo 1973, quando scoppia una polemica sulla presenza delle stazioni locali via cavo,  – tramite il decreto n. 156 del Presidente della Repubblica, che approva il nuovo “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e delle telecomunicazioni che modifica il Testo unico del Codice Postale del 1936 per sottoporre ad autorizzazione ogni impianto  di ritrasmissione di segnali sonori e visivi” nel quale, all’art. 195[6] fa inserire la televisione via cavo nell’ambito della previsione relativa al monopolio e ne decreta la illegittimità Il 3 maggio 1973 con un decreto il Ministro delle Poste Gioia dispone la disattivazione dell’impianto di trasmissione di  Tele Biella dato che l’emittente non dispone di nessuna concessione. Il Ministro ordina di disattivare volontariamente gli impianti entro dieci giorni. Subito la questione televisiva causa i primi contrasti in Parlamento: i repubblicani chiedono le dimissioni di Gioia, Enrico Manca e Bettino Craxi per il PSI definiscono a loro volta il decreto incostituzionale. Il 28 maggio 1973 si apre virtualmente la prima crisi politica sull’audiovisivo in Italia. In seguito al voto della Camera sulla questione della televisione via cavo, non essendosi il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti dissociato dall’operato del Ministro Gioia che non si dimette, i repubblicani decidono di togliere la fiducia al governo. Quaranta giorni dopo Mariano Rumor subentrerà ad Andreotti alla guida di un nuovo governo con un nuovo ministro delle Poste e Telecomunicazioni, Giuseppe Togni, A mettere come vedremo nel prossimo paragrafo un poco di ordine nel settore della tv via cavo ci penseranno il 30 aprile 1974 un pronunciamento della Corte di Giustizia del Lussemburgo su un ricorso presentato da Tele Biella il 25 luglio 1973 sulla disattivazione degli impianti e il conseguente oscuramento dell’emittente[7], e tre mesi dopo, il 10 luglio 1974 due sentenze della Corte Costituzionale.

Un dato è certo. Scarsa sino allora era stata l’attenzione sia da parte del servizio pubblico radiotelevisivo sia da parte del suo azionista gestore della telefonia in Italia. L’ingresso della Stet nel capitale della Rai nel dicembre 1964 non aveva attivato un impegno nella costruzione di nuove reti via cavo coassiali o in fibra ottica come avverrà invece negli altri grandi Paesi europei per opera dei gestori telefonici pubblici La collaborazione si limita al rafforzamento della filodiffusione. Il 5 maggio 1971 tra la Rai e la SIP, ognuna nell’ambito della propria concessione, è stipulato un accordo che prevede, tra l’altro, l’elaborazione di un piano tecnico-economico per l’estensione della filodiffusione ai capoluoghi di provincia e ad altre città, dove il servizio risulti conveniente da un punto di vista di utilizzazione ottimale delle risorse. Insieme al rinvio dell’adozione della televisione a colori, il secondo grave errore sarà certamente la politica adottata nei primi anni Settanta in materia di televisione via cavo che relegherà l’Italia nel fanalino di coda fra i Paesi della Comunità europea. Né le cose miglioreranno in questa materia con l’approvazione della legge di riforma ella Rai L’imposizione nell’aprile 1975 del cosiddetto “cavo monocanale, attribuendo al gestore del circuito la possibilità di trasmettere esclusivamente il proprio canale, renderà per venti anni inutile il tentativo di sviluppare reti via cavo in Italia.

La seconda breccia al monopolio radiotelevisivo del servizio pubblico: la ripetizione di programmi esteri radiodiffusi a colori in occasione dei mondiali di calcio dell’estate del 1974.

Nella primavera del 1974 si produce un secondo fenomeno di destabilizzazione del monopolio: i segnali di due emittenti estere, la Televisione della Svizzera Italiana e TeleCapodistria, che trasmettono ormai regolarmente programmi televisivi a colori nello standard Pal, captati nelle zone di frontiera per debordamento hertziano, vengono ritrasmessi attraverso una rete di trasmettitori e ripetitori terrestri in tutto il Nord Italia e in parte dell’Italia centrale sino ad arrivare alla capitale. De facto il monopolio viene così messo in crisi.

Il 7 giugno 1974 un decreto del nuovo Ministro delle Poste Giuseppe Togni  ordina di smantellare entro tre giorni tutti i ripetitori abusivi istallati sul territorio italiano al fine di irradiare i programmi televisivi a colori dei pasi confinanti, ovvero della Svizzera e di Capodistria. L’imposizione di disattivare anche gli impianti abusivi di ripetizione dei segnali delle teleisioni estere provoca subito la reazione dell’Anie, l’Associazione Nazionale dell’Industria elettronica di Consumo secondo la quale ciò potrebbe determinare alla vigilia dei mondiali di calcio un crollo della vendita dei televisori. In questa occasione come per la scelta dello standard televisivo a colori il sistema politico si rivela incapace di capire le conseguenze dell’abbandono di una tale decisione e che il cavo avrebbe consentito certamente la rottura del monopolio ma contemporaneamente avrebbe sviluppato sotto il controllo statale in maniera ordinata un mercato che di fatto era nascente e contrastava con la politica di austerità.  Questa – in una fase di grande trasformazione del paese, di evoluzione dei costumi (come emerge in occasione della vittoria del fronte laico nel referendum sul divorzio), ma anche di presa di coscienza dei diritti dei cittadini e dei consumatori – aveva imposto forzatamente una riduzione dei consumi voluttuari tentando così di determinare un ritorno alle abitudini e ai consumi morigerati dei primi anni del monopolio. Il crescente malcontento costringe la Rai nel giugno 1974  a posticipare –- sia pure leggermente – alle 23.15 e alle 23.30 l’orario di chiusura delle su trasmissioni radiofoniche e televisive.

Nel luglio 1974, il successo delle trasmissioni a colori dei campionati mondiali di calcio, che vengono captate grazie alla rete dei ripetitoristi delle televisioni estere di lingua italiana trasmesse nello standard Pal, rende particolarmente evidenti i danni della politica dell’austerità. Sull’onda di questo successo il 5 agosto 1974, inizia a trasmettere in italiano l’emittente monegasca Tele Monte-Carlo che, a differenza della Televisione della Svizzera Italiana e di TeleCapodistria si rivolge direttamente ad un pubblico italiano[8].

Le sentenze della Corte e la prima liberalizzazione delle comunicazioni radiotelevisive in Italia

Nel luglio 1974 la Corte Costituzionale pronuncia le sentenze n. 225 e n. 226.

La prima Sentenza la n. 225[9] riafferma da un lato la legittimità della riserva allo Stato dei servizi di televisione circolare a condizione che le trasmissioni offrano al pubblico

“una gamma di servizi caratterizzata da obiettività e completezza di informazione” e che venga favorito e reso effettivo “il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici”,

ma chiarisce che essa non può abbracciare anche i ripetitori di stazioni trasmittenti estere che non operano sulle bande di trasmissione assegnate all’Italia.

La seconda sentenza, la n. 226[10], delibera, invece, la legittimità dell’istallazione delle reti e dell’esercizio privato di servizi radiotelevisivi locali via cavo “a raggio limitato”. 

In particolare viene ribadita la riserva allo Stato per la radiodiffusione terrestre, subordinata però alla definizione di nuove regole in grado di garantire imparzialità, obiettività e pluralismo, necessarie per non contraddire i dettami della Costituzione (si pongono così le premesse della futura riforma della Rai).

Contemporaneamente vengono definitivamente liberalizzate le trasmissioni via cavo in ambito locale e si dichiara altresì illegittima l’interruzione – ordinata un mese prima dal Ministro delle Poste – dei programmi della Televisione della Svizzera Italiana (TSI) e di Tele Capodistria, irradiate in Italia per iniziativa dei fratelli Marcucci in nome della libera circolazione delle idee.  Questo atto sancisce implicitamente la fine del monopolio per le trasmissioni terrestri.

A sorreggere la sentenza interviene, tra le altre cose, la convinzione che l’esiguità dei costi di impianto, gestione e trasmissione di una stazione radiotelevisiva scongiuri il rischio di concentrazioni oligopolistiche. In questo modo si conclude sul nascere l’avventura della televisione via cavo.  A questa crisi concorrono anche nuove iniziative da parte dei primi operatori televisivi via cavo.

La prima sentenza, dichiarando illegittimo il decreto del 1973 del Ministero delle Poste che imponeva lo smantellamento delle emittenti estere, sanciva il diritto dei privati a ripetere i programmi televisivi esteri, mentre la seconda legalizzava la trasmissione via cavo su scala locale.

In realtà, approfittando del nuovo clima post-referendario, alcune emittenti locali iniziano a trasmettere programmi anche via etere – ovvero per essere più precisi su reti di radiodiffusione terrestre – utilizzando le frequenze su cui sono ripetuti programmi esteri.

In questo nuovo quadro, a partire dall’estate 1974 nasceranno migliaia di emittenti su tutto il territorio nazionale: fra le tante emittenti corsare Tele Milano Cavo nel comprensorio residenziale di Milano 2 realizzato dal costruttore milanese Silvio Berlusconi[11].

Contemporaneamente i possessori di nuovi televisori a colori beneficeranno nel Nord e nel Centro Italia della ripetizione dei segnali a colori della Televisione della Svizzera Italia e di Capodistria, cui si aggiunge una terza emittente Tele Montecarlo, in occasione dei campionati mondiali di calcio dell’estate del 1974. Assistiamo in questo modo, in assenza di una legge organica, alla prima liberalizzazione delle radiodiffusioni in Italia.

Il 30 novembre 1974 un decreto legge detta nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva al fine di adeguare la legislazione ai principi indicati nelle sentenze della Corte Costituzionale.

Ma il decreto non viene convertito in legge. Pertanto il 22 gennaio 1975 viene emanato un secondo decreto il 22 gennaio 1975, cui seguirà il 19 marzo un terzo che detta disposizioni urgenti in materia di servizi di telecomunicazioni sino all’approvazione della Legge di riforma del 14 aprile 1975.

Il caso italiano è clamoroso. Le sentenze della Corte Costituzionale pronunciate il 10 luglio 1974, pur non abolendo formalmente il monopolio delle frequenze terrestri, liberalizzano le trasmissioni radiofoniche e televisive sul piano locale,

La legge 103 di Riforma della Rai e la diversificazione dell’offerta televisiva interna al monopolio del servizio radiotelevisivo pubblico

Il 20 dicembre 1973 un decreto legge prevede la proroga della concessione dei servizi radiotelevisivi alla Rai per il periodo 10 gennaio – 30 aprile 1974.

L’anno successivo tre decreti provvedono a recepire le due sentenze della Corte sino all’approvazione il 14 aprile della Legge di riforma della Rai. 

Viene così promulgata la legge che detta “Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva” e segna l’inizio della riforma della Rai (Legge 14.4.1975, n. 103) [12].

La legge di riforma del servizio pubblico radiotelevisivo n. 103 del 1975, conferma la legittimità del monopolio statale sull’attività radiotelevisiva (ad eccezione delle aree già sottratte alla riserva statale con le citate sentenze nn. 225 e 226), ma con finalità di “ampliamento della partecipazione” e principi fondamentali quali “indipendenza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali”.

  • La Rai diventa una società per azioni a totale partecipazione pubblica, dotata di una convenzione con lo Stato della durata di 6 anni. Il monopolio pubblico viene ad essere qualificato dal “pluralismo”.
  • Il controllo politico passa dal Governo al Parlamento. La legge sottrae infatti la Rai al controllo esclusivo dell’esecutivo, attraverso l’attribuzione di nuovi poteri ad una rinnovata Commissione parlamentare bicamerale per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi composta da 40 membri.

Il 9 maggio 1975, l’Assemblea degli azionisti della Rai, in ottemperanza alla legge di riforma n. 103, modifica lo Statuto sociale deliberando, con effetto dal 1° dicembre 1974, il trasferimento della totale proprietà delle azioni in mano pubblica.

Pertanto la partecipazione azionaria della Rai – prima divisa tra l’IRI (75,45 per cento), la STET (22,90 per cento), la SIAE (0,45 per cento) ed altri azionisti (1,20 per cento) – diventa per il 99,55 per cento appartenente all’IRI e per lo 0,45 per cento alla SIAE.

Inoltre l’art. 15 del nuovo Statuto modifica i criteri di nomina e di composizione del Consiglio di Amministrazione.

Il Consiglio è costituito di 16 membri: 10 sono eletti dalla Commissione parlamentare.

Di questi dieci membri, quattro sono eletti sulla base delle designazioni effettuate dai Consigli regionali.

All’assemblea dei soci, ossia all’azionista IRI, oltre a proporre il Direttore Generale, rimane il compito di indicare i rimanenti sei consiglieri di amministrazione.

Con la riforma della Rai, si rafforza la figura del Presidente, scompare la figura dell’Amministratore Delegato, cresce quella del Direttore Generale.

Il Consiglio d’amministrazione elegge Presidente, vicepresidente e, in questa prima fase, sino al 1985, anche il direttore generale. E’ inoltre competente per tutte le nomine dirigenziali. Definisce inoltre la gestione finanziaria e contabile, delibera il piano annuale delle trasmissioni poi trasmesso per approvazione delle linee generali alla Commissione di Vigilanza, e su questa base approva lo schema dei programmi del trimestre successivo.

La terza Sentenza della Corte Costituzionale del luglio 1976

I primi sforzi di rottura del monopolio pubblico operati da alcuni operatori che avevano dato vita ai primi tentativi di televisione locale via cavo, rimarranno vani nonostante le prime due sentenze della Corte Costituzionale a causa della miopia ribadita dal legislatore.

Il regolamento di attuazione della legge 103 del 1975 conferma infatti l’imposizione del cosiddetto “cavo monocanale”, attribuendo al gestore del circuito la possibilità di trasmettere esclusivamente il proprio canale.

Infine la legge prevede una normativa per la ripetizione dei segnali esteri, ma a condizione di depurarli degli spot[13]. Fatto costoso e che non potrà mai essere applicato

Un primo chiarimento alla situazione venutasi a creare giungerà con una terza sentenza, la n. 202,  pronunciata dalla Corte Costituzionale il 28 luglio 1976[14]. Essa limiterà il monopolio pubblico del servizio alle trasmissioni in ambito nazionale, consentendo agli operatori privati l’istallazione e l’esercizio di impianti di diffusione non eccedente l’ambito locale.

Tale decisione verrà ribadita da una nuova sentenza del Corte nel 1981.

Con la sentenza del 1976, la Corte Costituzionale, appena un anno dopo l’approvazione della legge di riforma della Rai introduce la formula del cosiddetto “pluralismo interno”.

Il pluralismo interno riguarda principalmente la RAI e consiste

“nell’obbligo di dar voce al maggior numero di opinioni politiche, sociali e culturali presenti nel paese”,

secondo l’interpretazione della Corte Costituzionale. Questa forma di pluralismo si applica ai soggetti privati nel caso del principio della “par condicio” nella propaganda elettorale.

Il secondo tipo di pluralismo, cosiddetto esterno, si rivolge a tutti gli operatori del settore radiotelevisivo. Esso, secondo la Corte, riguarda

“la possibilità di ingresso nell’ambito dell’emittenza di quante più voci consentano i mezzi tecnici con la possibilità che nell’emittenza privata i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa di processi di concentrazione”.

Il pluralismo esterno, in termini pratici, consiste nella possibilità per i cittadini di poter disporre di fonti di informazione eterogenee.

L’invito della Corte Costituzione al legislatore a regolamentare l’emittenza radiotelevisiva

Contestualmente, dichiarando incostituzionale il monopolio per quanto concerne la trasmissione terrestre in ambito locale, la Corte Costituzionale invita il legislatore a reintervenire per regolamentare l’esercizio dell’attività privata a livello locale.

In realtà con un parlamento diviso fra fautori del mantenimento del monopolio alla Rai e sostenitori della liberalizzazione totale dell’etere, in assenza di accordi politici occorrerà aspettare 15 anni sino all’approvazione nel 1990 della Legge Mammì che disciplinerà la situazione venutasi a creare nel decennio successivo con la crescita di un polo televisivo commerciale destinato ad assumere rapidamente una posizione preponderante nel mercato pubblicitario.

Queste tre sentenze approvate in Italia avranno grande ripercussione anche fuori d’Italia ed apriranno definitivamente la via della deregulation in Europa. La Legge di Riforma ribadisce la scelta operata nel secondo dopoguerra: monopolio, gestione in regime di concessione in favore di una società formalmente privata, finanziamento misto del canone e della pubblicità.Seguendo i dettami delle due Sentenze del 1974, la Legge prevede un sistema misto via etere e via cavo, con una logica di compromesso fra il sistema pubblico ribadito in quegli anni da tutti gli Stati europei, e un sistema privato definitivamente adottato negli Stati Uniti.

L’Italia appare dunque un laboratorio.

La nuova Sentenza della Corte nel 1976 equiparando il sistema di trasmissione via cavo a quello via etere e creando una fascia liberalizzata in potenziale contrapposizione con il sistema pubblico, crea le premesse per l’apertura del mercato. L’emittenza privata si concentrerà così negli anni successivi verso aree ristrette e densamente popolate dove si possono ottenere maggiori ascolti ed elevati contratti pubblicitari, oltre ad accordi in materia di produzione e controllo delle singole emittenti locali sino a facilitare il loro collegamento su scala nazionale.

Anche per questo il telespettatore negli anni successivi non appena vedono la luce le prime emittenti private, ha l’impressione che, uscendo dal monopolio, potrà finalmente operare una scelta fra più soggetti televisivi, azionando il suo telecomando. In realtà l’offerta, espandendosi sia sotto il profilo del numero dei canali che delle ore di trasmissione che rapidamente scoprono nuove fasce orarie mattutine e notturne sino ad arrivare a coprire l’intero arco della giornata, non conoscerà una vera e propria innovazione qualitativa.

La riorganizzazione della Rai in base alla Legge di Riforma del 1975

Con la nuova Convenzione dell’11 agosto 1975 il Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni concede alla Rai, per sei anni, il servizio pubblico di diffusione radiofonica e televisiva circolare in esclusiva e il servizio di radiofotografia circolare non in esclusiva.

In questo contesto si opera la riorganizzazione interna della Rai.

La Rai come Giano bifronte, metà servizio, metà impresa

La legge di Riforma dell’anno precedente riafferma il carattere storicamente bicefalo dell’azienda. La Rai continua a subire una doppia marcatura sulle entrate: da un lato l’esecutivo mantiene il potere di determinare ogni anno l’ammontare del canone; dall’altro la nuova Commissione bicamerale di Vigilanza fissa un tetto annuo alla raccolta pubblicitaria sino allora limitata al 5 per cento della durata complessiva dei programmi a tutela della carta stampata.

Ma non solo.

L’ampliamento dei poteri della Commissione di Vigilanza favorisce quella che è stata definita una “Polarizzazione politico-istituzionale”. Come chiarisce la Commissione di Vigilanza  il 30 aprile 1976

“il criterio della completezza dell’informazione va inteso nel senso che, entro un arco ragionevole di tempo, tutte le forse parlamentari abbiano occasione di essere intervistate; e quello dell’imparzialità va inteso nel senso di un’alternanza fra le forze stesse, tenendo conto della rappresentatività politica di essere”.

Le richieste di chiarimenti da parte della Commissione saranno sistematiche e continue e porteranno alla creazione presso la segreteria del Consiglio di Amministrazione di un settore ad hoc, la Verifica sui programmi trasmessi, con il compito di verificare la congruenza dell’informazione ai principi di obiettività, di imparzialità e di rappresentanza di tutte le forze politiche e sociali.  

Nel gennaio 1976 si costituiscono le nuove “strutture centrali” della Rai, a seguito della riforma: reti, testate, dipartimento scolastico-educativo, supporti. Alla ideazione e realizzazione dei programmi televisivi sono preposte 2 reti (Raiuno e Raidue) mentre due Testate (TG1 e TG2) assicurano l’informazione del telegiornale; alla ideazione e realizzazione dei programmi radiofonici risultano preposti 3 reti (Radio 1, Radio 2 e Radio 3) mentre 3 testate (GR1, GR2, GR3) realizzano i giornali radio. Per i servizi giornalistici viene dunque a cadere il monolitismo delle gestioni precedenti e si stabilisce l’esistenza di più testate giornalistiche, autonome  e tra l’oro differenziate. Per ogni testata giornalistica viene designato un direttore.

L’attività di trasmissione di reti e testate sarà avviata a partire dal 15 marzo 1976 quando diventano operativi i nuovi Telegiornali e Giornali Radio, riorganizzati a seguito della riforma.

Nonostante l’introduzione di nuovi programmi contenitore lungo tutto l’arco pomeridiano della domenica, la programmazione rimane in questi anni di transizione a forte vocazione culturale, ma sono ormai del tutto evidenti i caratteri del cosiddetto specifico televisivo.

I programmi televisivi sono sempre più distinti da quelli della radio e ormai del tutto affrancati da qualsiasi forma di tutela da parte del cinema, del teatro, della letteratura o, per quanto riguarda la critica e l’informazione, da parte di tutto il giornalismo proveniente dalla carta stampata.

Come tali i programmi televisivi offerti dalla Rai pertanto non costituiscono una mera alternativa agli spettacoli dal vivo offerti al di fuori delle mura domestiche, ma vengono mandati in onda negli orari più appropriati al fine di contendersi gli spettatori sempre più numerosi che possiedono ormai un televisore in casa.

La competizione sugli ascolti all’interno del monopolio riformato

Comincia a precisarsi la competizione sugli ascolti,  una competizione più politico culturale tra le reti e le testate del monopolio riformato, più che sulle risorse pubblicitarie che comunque cominciano ad acquisire un nuovo peso in televisione passando per la Rai in un anno dal 1976 al 1977 da 61,7 a 71,1 miliardi di lire.

Finisce Carosello e si sviluppano i nuovi e brevi spot pubblicitari.

Nel triennio successivo 1977-1980 l’audience televisiva risulta in costante aumento e si confonde ormai con l’intera popolazione procedendo parallelamente al processo di contrazione delle possibilità di consumo e provocando un’esacerbata concorrenzialità con il cinema e un’invasione di ogni minuto del tempo libero.

Paradossalmente la misura del successo della televisione si concretizza nell’usura del suo modello e crea le premesse del divorzio da un pubblico sino ad allora profondamente fedele.

Le strutture di programmazione delle due reti iniziano ad assemblare i programmi seguendo le regole adottate dai palinsesti dei network americani, rispondendo a logiche di differenziazione e in taluni casi persino trovandosi in alternativa l’una con l’altra.

Nel corso degli anni Settanta la televisione cambia dunque sostanzialmente i propri connotati e non più solo il colore delle sue immagini.

Venticinque anni dopo l’avvio dei programmi, la televisione svolge ormai nel 1978 – come dimostra la copertura dei tragici eventi legati al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro nella primavera di quell’anno – un ruolo di leader fra gli strumenti di comunicazione di massa e di formazione dell’opinione pubblica del Paese.

Tuttavia, nonostante questo ampliamento e questa apertura del servizio pubblico e il rafforzamento del pluralismo non si può parlare di vera indipendenza dallo Stato e dai partiti.

L’offerta televisiva della seconda metà degli anni Settanta rimane sostanzialmente quella con cui si era costituito il monopolio, ossia un’offerta verticale, diversificata e autorevole, sebbene meno ufficiale e, nel caso soprattutto della seconda rete, quella diretta in quegli anni da Massimo Fichera, più spregiudicata.

Il telespettatore degli anni Settanta, a sua volta, mantiene un ruolo prevalentemente passivo, malgrado l’alta qualità dei programmi diffusi, che continuano a rispondere ai principi della missione che si attribuiscono gli enti televisivi pubblici. Sul piano dell’illuminazione, la programmazione della televisione del monopolio pubblico riformato rimane – alla stregua peraltro delle nascenti televisioni commerciali che esploderanno negli anni successivi all’inizio della cosiddetta seconda fase mista – un fenomeno meramente nazionale, dotata di palinsesti che continuano prevalentemente ad essere realizzati in casa con un ricorso piuttosto limitato agli acquisti e confezionati con programmi molto seri, forse meno didascalici, e quindi un po’ meno noiosi rispetto a quelli dei due decenni precedenti, ma offerti in un contesto ancora erroneamente giudicato privo di concorrenti insidiosi finché esso rimane confinato all’ambito locale. 

La Rai troppo a lungo anche dopo la fine di Carosello e la nascita degli spot ignora la vivace iniziativa delle tv locali che come le tv estere, trasmettono subito i propri programmi a colori e utilizzano in esterno le nuove telecamere portatili Grazie alle nuove videocamere elettroniche la produzione e la programmazione televisiva diventano più flessibili. Se alla vigilia della Riforma 1974 la produzione di filmati supera ancora abbondantemente quella delle riprese elettroniche, negli anni successivi le cose cambiano profondamente anche se permangono strutture produttive pesanti.

A reti e testate si affiancano le strutture radiotelevisive del Dipartimento Trasmissioni Scolastiche ed Educative per Adulti, della Direzione Tribune e Accesso e della Direzione Servizi Giornalistici e Programmi per l’estero.

Il moltiplicarsi delle strutture crea immediata la richiesta di nomine che vadano a coprire le nuove direzioni. Contemporaneamente la competizione interna fra le reti e le testate assorbe energie che avrebbero invece dovuto essere profuse per capire il nuovo mercato che vede avanzare radio e televisioni commerciali senza che ci sia nessun intervento regolatore da parte della politica.

Sin dall’inizio i due canali televisivi della Rai non svolgono più una funzione complementare, ma risultano due proposte editoriali distinte per alcuni versi in competizione l’uno con l’altro.

TV1 e TV2 (poi ribattezzate Rai Uno e Rai Due) devono soprattutto fare i conti con le nuove emittenti ricevibili sui teleschermi degli italiani, in particolare con le quattro tv estere offerte in Italia dai ripetitoristi, tre delle quali trasmettono in lingua italiana, e con le nascenti televisioni locali.

Dall’esplosione delle radio libere in ambito locale alla nascita dei primi network radiofonici commerciali nazionali

In realtà la competizione inizia sin dalla seconda metà degli anni Settanta con l’esplosione delle cosiddette radio libere, quasi tutte a livello locale.  

Tre modelli caratterizzeranno queste nuove emittenti: le radio commerciali, le radio “politiche” e infine le radio informative.

Le radio libere da 150 nel 1975 esploderanno sino a raggiungere le 2600 unità nel 1978.

Nel 1976 nasce a Milano, Rete 103, che diventa presto la prima emittente privata su scala nazionale: si collega con tutto il Paese mediante un sistema di ponti radio. Nello stesso anno a Roma Radio Dimensione Suono in breve diventa il più importante network della capitale e sarà destinato a divenire capofila della radiofonia commerciale.

Come emittente di servizio (radio comunitaria), inizia a trasmettere nel 1976 anche una radio di partito, Radio Radicale. Nel 1977 fioriscono le radio «di movimento» fortemente connotate politicamente: Radio Alice a Bologna, Radio Città Futura a Roma, Radio Popolare a Milano – l’unica che avrà uno sviluppo professionalmente diverso – si rivolgeranno rivolte ad un pubblico prevalentemente giovanile, politicizzato, studentesco.

Grazie alla Riforma, Radio Tre sotto la direzione di Enzo Forcella, avvia il 3 ottobre 1976 «Prima Pagina», nella quale i quotidiani del mattino sono letti e commentati da un giornalista. Un mese dopo, l’8 novembre 1976 comincia, sempre su Radiotre «Un certo discorso», programma pomeridiano rivolto alla realtà giovanile. Due anni dopo il 16 gennaio 1978 nasce su Radiouno «Radio anch’io», nuovo filo informativo quotidiano di approfondimento in diretta con esperti dell’attualità con interventi al telefono dei radioascoltatori. Su Radiotre infine nello stesso anno debutta «Noi, voi, loro donna», sui temi della condizione femminile. Due anni dopo il Giornale Radio 3 organizza il concorso “I giovani incontrano l’Europa”. Contemporaneamente la radio assume una sempre più forte connotazione di servizio: il 23 novembre 1980, le testate radiofoniche realizzeranno otto ore di trasmissioni speciali in diretta in occasione del terremoto nel sud per gli interventi e le attività di soccorso. Il 30 aprile del 1981 Iniziano le trasmissioni di «Onda Verde», informazioni sul tempo e sul traffico, in collaborazione con la Società Autostrade, il Ministero dell’Interno e la rete di gestori Agip. Ma soprattutto per far fronte alla concorrenza delle radio commerciali sono irradiati 2 nuovi canali stereofonici a modulazione di frequenza Raistereouno e Raistereodue, che trasmettono dalle 15 alle 24; ad essi si aggiunge sulle tre reti unificate Raistereonotte, dalle 24 alle 6, format impostati su musica e notizie.

L’avvio del decentramento regionale e la nascita della terza rete sia regionale sia nazionale

La risposta vincente che si delinea sembra essere quella di rafforzare la “partecipazione” e il collegamento con le Regioni che potrebbero far da tramite con la cosiddetta società civile che presenta forti segni di disaffezione nei confronti del sistema pubblico. Le Regioni sin dalla loro costituzione nel 1970 si considerano parte integrante dello Stato (e non vogliono essere considerate alla stregua degli enti locali) e come tali rivendicano una parte importante nel processo di riforma del servizio pubblico al quale partecipano unitamente ai movimenti sindacali e alle associazioni culturali di base presenti nel territorio. Il dibattito sul decentramento televisivo riguarda soprattutto la Rai e il nuovo ruolo delle Regioni, visto soprattutto come occasione di una gestione sociale “dal basso” degli strumenti culturali, di una maggiore “partecipazione” – altra parola chiave di quegli anni – delle grandi masse e di una “democratizzazione” dei mezzi di comunicazione che, secondo le forze politiche di sinistra, verrebbero così sottratti al controllo diretto del potere economico e politico[15]. Forze e culture locali assumerebbero quindi la funzione di tutore di una gestione democratica del servizio pubblico[16].

In gioco vi sono due ipotesi:

  • quella di un “decentramento ideativo-produttivo”, il quale comporta un coinvolgimento di strutture e soggetti locali alla realizzazione di un prodotto nazionale,
  • quella di un “decentramento territoriale” che fa riferimento a un prodotto concepito specificamente per un pubblico locale.

Nel dicembre 1976 assistiamo infine all’introduzione, sul piano sperimentale, di trasmissioni televisive regionali. Un gruppo di lavoro coordinato da Fabiano Fabiani elabora un progetto molto ambizioso che – un po’ come avviene in Germania per le reti pubbliche regionali affiliate all’ARD che producono il palinsesto nazionale ARD 1 – ipotizza un ruolo centrale delle sedi regionali non solo nel campo dell’informazione ma anche nella produzione televisiva di programmi che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto essere destinati a tutte le reti della Rai e non solo alla terza rete in fase di progettazione.

Secondo questo progetto le trasmissioni raggiungono, inizialmente, tutti i capoluoghi di regione e il 45 per cento della popolazione italiana.

La nuova testata della terza rete è dotata di 350 giornalisti nelle redazioni locali (che costituiranno successivamente la TGR, Testata Giornalistica Regionale) incaricati non solo di assicurare l’informazione regionale trasmessa nelle edizioni locali battezzate “Rai Regione” del telegiornale della nuova rete, ma anche di “fornire notizie e servizi alle testate nazionali e alle trasmissioni per l’estero”, ovvero di fungere da corrispondenti per TG1, TG2 e per i tre giornali radio. In ogni sede dispone altresì di strutture regionali di programmazione in grado di attuare – nello spirito della Legge di riforma del 1975 –

“quel decentramento ideativi-produttivo che dà alle sedi regionali la possibilità di progettare e realizzare i programmi in maniera autonoma, offrendo così alle comunità regionali l’occasione di partecipare in prima persona al dibattito sulle grandi problematiche regionali e nazionali”.

Il progetto originario di RaiTre prevedeva da una parte il passaggio, in alcuni momenti della giornata, delle trasmissioni nazionali e dei programmi locali realizzati dalle sedi regionali della Rai, e dall’altra la possibilità per le sedi regionali di contribuire alla programmazione nazionale (con una quota minima del 60 per cento della produzione complessiva).

Un anno dopo il 13 ottobre 1977 Il Consiglio di Amministrazione della Rai approva un primo documento di attuazione della ristrutturazione, dedicato a sedi regionali, centri di produzione e rapporti con le reti nel quadro del decentramento.

Nel dicembre 1977, saranno presi provvedimenti riguardanti la Terza rete televisiva che disporrà di un palinsesto realizzato in larga parte dalle redazioni e soprattutto dalle strutture ideativo produttive regionali  con una programmazione trasmessa sia in ambito locale sia in ambito nazionale (ma anch’essa solo in parte prodotta a livello centrale).

Nel giugno 1978 prosegue la ristrutturazione aziendale: tra i vari provvedimenti viene approvato il nuovo palinsesto della Terza Rete che prevede tra l’altro un telegiornale a partire dalle 19.00 seguito da rubriche regionali. Viene così istituita la Testata per l’informazione regionale (TGR) e comincia la fase sperimentale dei modelli produttivi della terza rete televisiva a diffusione sia nazionale sia regionale, che verrà inaugurata il 15 dicembre 1979.  

Le lacune del progetto di decentramento ideativo produttivo del servizio pubblico

Rai 3 inizia le trasmissioni regolari alle ore 18,30 del 15 dicembre 1979, mezz’ora prima dell’esordio del TG3. Direttore della Rete è il democristiano Giuseppe Rossini, mentre il direttore del TG3 (dal quale dipendono le venti redazioni regionali che vanno in onda tutti i giorni) è un altro democristiano Biagio Agnes, condirettore il comunista Sandro Curzi, vicedirettori il socialista Alberto La Volpe e il liberale Orazio Guerra. La programmazione si aggira tra le cinque e le sei ore quotidiane, dedicate perlopiù a programmi “curati dal dipartimento scuola-educazione“. Il Telegiornale ha una sola edizione serale di 30 minuti trasmessa alle 19.00.

La nuova rete che avrebbe dovuto avere un ruolo chiave di apertura alla società civile e che prevedeva una particolare attenzione al rapporto con il pubblico, nasce in realtà monca, priva di risorse adeguate e gestita dal centro, con spazi troppo limitati di programmazione delle sedi regionali, e con strutture e modelli produttivi non articolati in funzione delle dimensioni concrete dei territori interessati. Inoltre, nonostante il grande sforzo progettuale del gruppo di lavoro coordinato da Fabiani, manca un coordinamento fra programmazione regionale e nazionale. I fondi per la programmazione regionale sono gestiti centralmente e, priva di idee innovative sul palinsesto e preoccupata soprattutto di rafforzare gli organici delle sedi regionali, la terza rete non riesce a decollare.

Gli ascolti della prima stagione della terza rete al contempo regionale e nazionale (1980-1986) rimarranno molto bassi e nel frattempo le televisioni locali sono rimaste poche e dotate di scarse risorse dopo la formazione nei primi anni Ottanta dei network televisivi commerciali.

Di fatto il parziale fallimento del decentramento in Rai[17], che si concretizza nella nascita della Terza Rete nel 1979[18], è simbolo di una tensione, non risolta, tra locale e nazionale. Una tensione tra il dover fare i conti con il “locale” inteso come bacino di forze economiche, produttive nonché di consumatori e di elettori, e nello stesso tempo la tentazione di trasformare il locale in nazionale, diluirlo in un amalgama generalista in grado di smussare toni, conflitti, differenze

***

Come vedremo nel seguito di questo articolo nel prossimo numero e nell’articolo-intervista che abbiamo fatto a Giuseppe Richeri, protagonista di quella stagione, in qualità di esperto indicato dalla Regione Emilia Romagna, qualche anno dopo in occasione dell’ennesima ristrutturazione interna della Rai e facendo seguito ad un accordo politico che riconosce la legittimità dei network commerciali, assistiamo ad una profonda ridefinizione della missione della terza rete.

Finisce la prima stagione di Rai Tre e inizia una nuova stagione segnata dalla rinuncia definitiva alla funzione ideativo-produttiva assegnata inizialmente alle sedi regionali che si limiteranno d’ora in poi sostanzialmente a trasmettere le edizioni regionali giornale radio e del telegiornale della TGR

Rai Tre assumerà un compito ben diverso, “combattendo” a fianco della rete ammiraglia Rai Uno, la cui guida rimane affidata al principale partito di governo ovvero la Democrazia Cristiana, e a Rai Due, affidata al Partito Socialista per far fronte anche alla concorrenza dei tre canali televisivi acquisiti nel frattempo dal gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi.

Dopo l’approvazione del decreto Berlusconi[19] la terza rete televisiva verrà “nazionalizzata” e la guida della rete e quella della testata nazionale, verranno assegnate rispettivamente ad un intellettuale manager, Angelo Guglielmi,  e ad un giornalista di lungo corso, Sandro Curzi, indicati dal principale partito di opposizione, il Partito Comunista Italiano e contemporaneamente  vi sarà la definitiva scissione della testata nazionale da quella regionale con la TGR che continuerà a trasmettere l’informazione regionale.


[1] Vedine un estratto tratto da un saggio della collana Zone da me avviata per l’Ufficio Studi Rai, in Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, Roma, Rai Eri Zone, 2007, XVIII-515 p, [l’estratto si trova nella terza appendice “Normativa dell’emittenza radiotelevisiva locale in Italia” alle pp. 233-240].

[2]Enrico Menduni, Televisione e società italiana (1975-2000, Milano, Bompiani, 2002, 224 p,

[3] Eugenio Scalfari, “E ora libertà d’antenna”, L’Espresso, 23 gennaio 1972, oggi reperibile nella raccolta di articoli: Eugenio Scalfari, Articoli. Vol. 5. L’Espresso dal 1969 al 2004, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso – La Biblioteca di Repubblica, 2004, 1150 p. [pp. 366-368].

[4] La rivista bimestrale fondata da Pietro Calamandrei dedica questo numero monografico a Tv 72: materiali interventi proposte per la riforma offrendo un quadro molto esaustivo del dibattito dell’epoca Il Ponte, XXVIII (1-2), 31 gennaio – 29 febbraio 1972.

[5] Ci sia concesso un riferimento su questo al saggio scritto con il compianto Bino Olivi: La fine della comunicazione di massa. Dal “Villaggio globale” alla nuova Babele elettronica, Bologna, Il Mulino, 446 p.

[6]“Chiunque stabilisce ed esercita un impianto di telecomunicazioni, senza prima aver ottenuto la relativa concessione e autorizzazione, è punibile con l’arresto e con l’ammenda da 20mila a 200 mila lire se il fatto riguarda impianti radioelettrici”. Tra di essi la televisione via cavo per cui l’Amministrazione Postale “può provvedere direttamente, a spese del possessore, a sigillare o rimuovere l’impianto ritenuto abusivo e a sequestrare gli impianti”

[7] Il 25 luglio 1973 Tele Biella ricorre alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee perché si pronunci sulla compatibilità del monopolio Rai con l’Art 86 del Trattato di Roma. Pur essendosi espressi favorevolmente, l’8 novembre 1973, i Servizi giuridici della Commissione Europea, il 30 aprile 1974 La Corte di Giustizia CEE respinge il ricorso di Tele Biella contro il decreto Gioia e il monopolio radiotelevisivo, in quanto il monopolio della Rai non contrasta con le norme del Trattato di Roma.

[8] Il 5 agosto 1974 iniziano le trasmissioni in italiano verso Ventimiglia e Bordighera di Tele Monte-Carlo, il cui capitale è suddiviso tra il gruppo francese Europe 1 (27,5 per cento), l’agenzia pubblicitaria Publicis (22 per cento), il Principato di Monaco (18,5 per cento) e il gruppo Marcel Dassault (18,5 per cento). Per i programmi in Italiano tmc cede l’esclusiva a Opus Proclama, filiale del gruppo Società Pubblica Editoriale (spe). Stipulerà alcuni mesi più tardi un accordo con Indro Montanelli e la redazione de Il Giornale nuovo per realizzare il telegiornale della nuova emittente.

[9] Vedine un estratto, in Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, op. cit.  [l’estratto si trova nella terza appendice “Normativa dell’emittenza radiotelevisiva locale in Italia” alle pp. 241-245].

[10] Vedine un estratto in Le Tv invisibili, ibidem [l’estratto si trova alle pp. 247-252].

[11] “Nell’estate del 1974, subito dopo la promulgazione delle due sentenze e incoraggiate dalla convenienza economica dei nuovi impianti e dal nuovo clima politico postreferendario, nascono infatti le prime emittenti private terrestri. Il 10 agosto 1974 l’emittente Firenze Libera celebra il trentennale della Liberazione della città trasmettendo un dibattito con le autorità locali utilizzando le frequenze su cui viene ripetuta TeleCapodistria. Con questo sotterfugio, Firenze Libera e un’emittente genovese, Tele Superba, aprono la strada, presto seguite da numerose altre emittenti televisive, “a somiglianza delle trasmissioni radiofoniche per le quali il cavo è improponibile”[11]. Le televisioni locali terrestri registrano un vero e proprio boom a cavallo tra il 1974 e il 1975, anche a fronte dei bassissimi investimenti necessari per avviare una stazione radiofonica. Ma le circa 50 emittenti televisive indipendenti hanno vita economica difficile e, in un momento in cui il rapporto fra investimenti pubblicitari e pil è molto contenuto e tocca nel 1976 il suo punto più basso (0,26 per cento), raccolgono appena lo 0,4 per cento degli investimenti pubblicitari in un mercato dove la quota dei quotidiani raggiunge invece il suo apice con il 32,4 per cento” in Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, Roma, Rai Eri Zone, 2007, XVIII-515 p. [si vedano nel paragrafo “Dal monopolio all stagione dei Cento Fiori” del primo capitolo le pp. 42-43].

[12] Vedine un estratto in Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, op.it, [l’estratto si trova nella terza appendice “Normativa dell’emittenza radiotelevisiva locale in Italia” alle pp. 253-261]. Essiste peraltro un’ampia letteratura di analisi sia giuridica sia storico-politica sul tema della Legge di Riforma Rai.

[13] La legge 103 autorizza, previa approvazione ministeriale, la ripetizione sul territorio nazionale dei segnali di televisioni estere, che non risultino però costituite allo scopo di diffondere i programmi in Italia e a condizione di depurarli degli spot.

[14] Vedine un estratto in Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, op. cit [l’estratto si trova nella terza appendice “Normativa dell’emittenza radiotelevisiva locale in Italia” alle pp. 263-266].

[15] A proposito del dibattito sul decentramento culturale cfr. Giovanni Bechelloni, Politica culturale e regioni: intervento pubblico e sociologia del campo culturale, Milano, Edizioni di Comunità, 1972, 297 p.

[16] Franco Iseppi, Giuseppe Richeri (a cura di), Il decentramento radiotelevisivo in Europa, Milano, I quaderni di Ikon, Franco Angeli, 1980, 588 p. [in testa al front.: Istituto Agostino Gemelli, Milano, Regione Lombardia, Giunta regionale]. Questo quaderno contiene documenti di due seminari di lavoro: Terza rete tv ed esperienze di decentramento in Europa, Brescia 25-27 settembre 1978; La ristrutturazione della radiofonia pubblica (radiofonia e regioni), Milano, 20 gennaio 1979.

[17] Per una efficace sintesi delle ragioni di questo fallimento vedi Giuseppe Richeri, “Regional Television without a Regional Vocation”, in Miquel De Moragas Spà, Carmelo Garitaonandìa (a cura di), Decentralization in the Global Era Television in the Regions Nationalities and Small Countries of the European Union, London, John Libbey, 1995, V-234 p., pp. 119-134 [si veda in particola la p. 124].

[18] La nascita della Terza Rete gioca un ruolo chiave anche in quanto momento critico di passaggio per l’integrazione del Partito Comunista nelle logiche spartitorie della Rai.

[19]Tra il 13 e il 16 ottobre 1984, a seguito delle denunce della RAI e dell’ANTI (Associazione nazionale teleradio indipendenti), i pretori di TorinoPescara e Roma emanano qualche decreto ingiuntivo ordinando alla Fininvest di sospendere l’interconnessione dei ripetitori di Canale 5Italia 1 e Rete 4 nelle regioni di loro competenza poiché secondo i magistrati il sistema d’interconnessione simultanea regionale, attraverso l’utilizzo di videocassette, avrebbe violato l’articolo 195 del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, che puniva a titolo di contravvenzione chi «stabilisce od esercita un impianto di telecomunicazioni senza aver prima ottenuto la relativa concessione, o l’autorizzazione» amministrativa. Poco dopo Bettino Craxi, amico personale di Silvio Berlusconi, interviene affinché le tre reti Fininvest possano continuare a trasmettere su tutto il territorio nazionale, infatti poco dopo le ordinanze della magistratura italiana il primo provvedimento emanato dal governo Craxi I è un primo decreto legge soprannominato decreto Berlusconi, che verrà tuttavia bocciato dalla Camera dei deputati il 28 novembre 1984 poiché considerato incostituzionale. Qualche giorno dopo l’esecutivo presenta il Berlusconi bis e, ponendo su di esso la questione di fiducia, il 4 febbraio 1985 ne ottiene la conversione in legge. Poiché le norme del secondo decreto ebbero efficacia limitata a sei mesi, il 1º giugno 1985 viene il Berlusconi ter per prorogare il regime transitorio almeno fino al 31 dicembre 1985; il provvedimento viene poi convertito in legge il 1º agosto 1985.