letteratura

Democrazia Futura. Italo Calvino, il colore del vuoto

di Sara Carbone, storica e critica letteraria |

Linee rette e singoli granelli. Il ricordo del grande scrittore nell'anniversario della scomparsa.

Sara Carbone

Esattamente trentotto anni fa, il 19 settembre 1985 moriva a Siena Italo Calvino, di cui celebriamo quest’anno il centenario dalla nascita. Di Calvino Sara Carbone, storica e critica letteraria, fa una presentazione originale in un breve scritto per Democrazia futura “Italo Calvino. Il colore del vuoto. Linee rette e singoli granelli”. “Calvino è uno scrittore che non è mai morto – scrive la giovane studiosa campana – e questo non perché sopravvive con le sue opere alla stregua degli altri autori presenti sugli scaffali delle nostre biblioteche, quanto per il fatto che, durante la sua vita, ci ha abituati alla sua “assenza” sia di uomo che di intellettuale. Restio a parlare di sé stesso, a condividere i suoi “dati biografici”, forse perché «dichiararli è come affrontare una psicoanalisi» Calvino sa di vivere nell’epoca della tirannia dell’immagine, nel tempo in cui «lo scrittore ha occupato il campo» del visibile a discapito del mondo rappresentato nella sua opera”.

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Pietro Citati racconta che, un paio di anni dopo la sua «caduta al suolo», Italo Calvino gli è apparso in sogno e gli ha detto:

«… Sai, è stato tutto uno sbaglio. I medici non hanno capito. Non sono morto».

Piuttosto che una proiezione onirica del rifiuto della morte di una persona cara, queste parole, secondo il critico fiorentino, sono state un autentico «messaggio dai Campi Elisi». Convinto che «il tragico non è la forma essenziale del mondo, e che non c’è mai un’ultima tragedia»[1], Calvino è uno scrittore che, in effetti, “non è mai morto” e questo non perché sopravvive con le sue opere alla stregua degli altri autori presenti sugli scaffali delle nostre biblioteche, quanto per il fatto che, durante la sua vita, ci ha abituati alla sua “assenza” sia di uomo che di intellettuale. Restio a parlare di sé stesso, a condividere i suoi “dati biografici”, forse perché «dichiararli è come affrontare una psicoanalisi»[2], Calvino sa di vivere nell’epoca della tirannia dell’immagine, nel tempo in cui «lo scrittore ha occupato il campo»[3] del visibile a discapito del mondo rappresentato nella sua opera. A più riprese, nel corso della sua esistenza, a tal proposito, dichiara che si trova a suo agio in quegli ambienti in cui può illudersi di essere invisibile e che agli scrittori non giova essere visti di persona poiché quando ciò accade è come se il mondo, da essi rappresentato sulla pagina, si svuotasse.

Se nell’agosto del 1956 ha scritto, dalla Calabria, a sua madre[4], pregandola di non dare a nessuno il suo indirizzo al fine di non essere importunato, neppure alla casa editrice per la quale, in quegli anni, è diventato il «puledro vincente»[5], già nel 1947, scrivendo al suo amico Eugenio Scalfari, nel parlare delle sue numerose pubblicazioni dell’anno precedente, definisce il 1946, «un anno enorme»[6] cioè un anno in cui da perfetto sconosciuto è diventato «in narrativa uno dei nomi più noti della nuova generazione»[7]. È in quell’aggettivo “enorme” che si manifesta tutto il timore dello scrittore «dalle astratte e avare guance liguri»[8] di essere sommerso dalle logiche incalzanti della visibilità moderna. In una considerazione condivisa con Elsa De’ Giorgi sull’«illuministica favola del Barone rampante»[9], egli afferma che con Cosimo Piovasco di Rondò ha raggiunto un punto di tensione e libertà che non raggiungerà mai più e che, da quel momento in poi, tutto ciò che scriverà sarà solo «un tornare dentro le sue dimensioni»[10].

In quell’«audacia di vivere sempre sospeso, senza rimettere i piedi a terra»[11], che è già matura nel 1957, quando lo scrittore ha davanti a sé ancora circa trent’anni di produzione letteraria, lasciandosene alle spalle poco più di dieci, si ravvisa l’atteggiamento di chi, molto presto, ancor prima di raggiungere l’acme della sua parabola artistica, ha preso a concentrarsi sul «potenziamento di sé stesso»[12], a costruirsi quell’identità di «ultimo Marco Aurelio senza impero», come lo definisce Carlo Ossola[13]. Calvino ha edificato la sua coscienza di uomo, prima che di scrittore, ha raggiunto la piena consapevolezza del suo essere, ponendo costantemente il suo sguardo al “cospetto della fine”, dando nutrimento all’ossessione della sottrazione. Per “sottrazione” non si intende il progressivo allontanamento dalla realtà e dalla Storia. Calvino ha fin troppa coscienza storica: dalla parabola mussoliniana[14] all’esperienza della Resistenza, dalle sorti del Partito comunista italiano dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria[15] alla strage di piazza Fontana[16] fino al delitto del Circeo[17], Calvino, nella Storia, “c’è” sempre ma è il come ha deciso di starci che è interessante. Egli ha attraversato il mondo, le superfici del vissuto, non con la rapacità del “collezionista” che vola basso sul reale per possederlo ma con la levità del “consultatore” che attende la manifestazione delle cose. Calvino dichiara che

«il collezionismo è (…) un’avventura esistenziale, una di quelle avventure esistenziali che sono legate al senso di scoperta della giovinezza» mentre «l’atteggiamento della consultazione (…) è proprio della maturità»[18]:

Calvino nella sua dimensione pubblica, dagli esordi alle ultime opere, è uno “scrittore maturo” perché approda alla scrittura da “uomo maturo”, da consultatore, non da collezionista.

Uno scrittore “giovane” non ha bisogno di consultare perché è convinto, da collezionista qual è, di possedere il mondo e di possederlo tutto. Uno scrittore “maturo” ha l’esigenza di consultare molti libri e Calvino è ossessionato dall’idea di non averne a disposizione durante l’operazione di stesura di un testo, temendo che essi siano riposti nello scaffale di una libreria in una sua casa altrove[19]. Intento a trovare “il suo centro di gravità in sé stesso”, a trasformarsi per sempre in «uomo di frontiera»[20], a «raccogliersi nella fine»[21], Calvino approda sulla scena letteraria italiana da autentico flâneur che, attraversando il mondo, si limita a osservarlo come se fosse un’immensa opera di consultazione, senza alcuna pretesa di possederlo. Il Calvino consultatore del mondo lo si ritrova tanto nell’«occhio poco adatto alla vita di città»[22] del Marcovaldo del ‘56 quanto in quello «miope e astigmatico» del Palomar del 1983 che indugia sul seno nudo di una giovane bagnante[23] ma pure in quello del bambino – del 1972 – che, a Raissa, «da una finestra ride a un cane»[24]. Tutti i personaggi di questo scrittore «meraviglioso, leggero»[25] sanno che «le cose si ribellano al destino d’essere significate dalle parole»[26]; esse si ribellano perché sanno che ogni interpretazione è, tutto sommato, inutile sia perché «il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi qualche suo aspetto» sia perché «le cose a volerle spiegare troppo si sciupano»[27]. Tentare di indovinare il significato delle cose, dunque possederle, appropriarsene, è un maldestro atto di presunzione.

L’atto di scrittura in senso tradizionale è un atto di presunzione che contempla sia la smania ossessiva di «grigliare tutto il reale»[28] sia la convinzione di poter conferire senso a ciò che la penna ha catturato[29]. Quello «scrittore ligure di San Remo»[30] opera una rivoluzione copernicana nel mondo della scrittura, arretrando, abdicando, sottraendo e scomparendo proprio come fa nella sua vita di uomo. Liberandosi di quell’«ossessione divorante, distruttrice», quella «vertigine da infinito»[31] che, al pari del collezionista, vorrebbe fargli abbracciare tutto il reale, tutta quella «cattiva infinità» che la scrittura, come la fotografia, ha la presunzione vana di contenere, egli smette di essere “autore” proprio nel senso letterale del termine ossia di “colui che aumenta”; affrancato dal «mondo di fuori troppo assediante»[32], si concentra su una mathesis singularis, una scienza del singolare[33], del dettaglio, del minuscolo granello, che la scrittura persegue praticando “l’arte del levare”[34], del sottrarre.

Infine, questo «solitario eremita»[35], trasforma lo scrittore in lettore. Non potendo esprimere giudizi definitivi sul reale, non potendolo possedere dunque, l’unica via d’uscita per lo scrittore contemporaneo è trasformarsi in lettore e l’unica via d’uscita per la scrittura è quella di proporsi come strumento di registrazione. Lo scrittore tradizionale “domina” il mondo, lo scrittore/lettore “domina la scrittura” perché la «cosiddetta “personalità” dello scrittore è interna all’atto dello scrivere» e questi elabora sulla pagina «una personalità (…) spiccata e inconfondibile» come potrebbe elaborarla una macchina da scrivere[36]. Il solo mezzo di comunicazione efficace e possibile è la “lettura”; solo essa

«apre spazi di interrogazione e di meditazione e di esame critico, insomma di libertà»[37].

Calvino, conscio di questo, resta “lettore” anche mentre scrive: consultatore di altri libri e di libri degli altri in senso proprio; lettore del mondo che lo circonda in senso figurato.

L’attraversamento caleidoscopico del mondo, descrivendo linee rette e trasversali, lo scrittore che smette di essere “autore” e diviene “descrittore”, il linguaggio che non tira mai le somme sui significati, sono patrimonio di chi, pur definendosi «la pecora nera della famiglia»[38] possiede e coltiva, da figlio di scienziati, la prospettiva dello scienziato.

In quest’ottica galileiana della vita così come della scrittura, la Consistency – una coerenza che trasforma la vita in consistenza o una consistenza che rende una biografia coerente – l’ultima “proposta” che Calvino non ha scritto, è il lascito di maggior valore che ci si potesse aspettare dal millennio scorso. Uno spazio vuoto, “con le sue fantasie e i suoi giochi”, affidato agli scrittori/lettori/autori interpreti del futuro:

 «è raro» infatti «che i mutanti riconoscano la mutazione che portano in sé; saranno poi i mutati, divenuta la mutazione un’acquisizione stabile della specie, a riconoscere guardandosi indietro i loro profeti e i loro arcangeli»[39].


[1] “Ricordo di amici”in Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Milano, Mondadori, 2008, 541 p. [il passo citato è a p. 515].

[2] “Nota autobiografica”, Gran Bazaar, 10, settembre – ottobre 1980, p. 133.

[3] “Calvino: un uomo invisibile”, video intervista a Italo Calvino, regia di Nereo Rapetti, Parigi 1974.

[4] “Lettera a Eva Mameli”, in Italo Calvino, Lettere, Milano, Mondadori 2000, 1624 p. [il passo citato è a p. 461].

[5] Fernanda Pivano, Diari 1974 – 2009, Milano, Bompiani, 2010, 1590 p. [il passo citato è a p. 1166]. La casa editrice è, naturalmente, quella di Giulio Einaudi.

[6] “Lettera a Eugenio Scalfari”, in Italo Calvino, Lettere, op. cit. alla nota 4. [il passo citato è a p. 172].

[7] “Lettera a Eugenio Scalfari”, in Italo Calvino, Lettere, ibidem [il passo citato è a p. 172].

[8] “Ricordo di amici”in Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, op. cit. alla nota 1. [il passo citato è a p. 514].

[9] Leonardo Sciascia, “Il barone rampante”, Il Ponte, XIII, 12 dicembre 1957.

[10] Elsa De’ Giorgi, Ho visto il tuo treno partire, Milano, Feltrinelli, 2017, 304 p. [il passo è a p. 212].

[11] Elsa De’ Giorgi, Ho visto il tuo treno partire, op. cit. alla nota 9 [il passo è a p. 73].

[12] Elsa De’ Giorgi, Ho visto il tuo treno partire, ibidem. [il passo è a p. 243].

[13] Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Milano, Vita e Pensiero, 2016, 120 p. [il passo citato è a p. 15].

[14] “I ritratti del Duce”, in Italo Calvino, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori,1974, 312 p. [il passo citato è alle pp. 211-224]. (Intervento pubblicato anche come “Cominciò con un cilindro”,” La Repubblica, 10 – 11 luglio 1983).

[15] “L’estate del ’56”, in Italo Calvino, Saggi, Milano, Mondadori, 2015, 3081 p. [pp. 2849 – 2855].

[16] “I nostri prossimi 500 anni”, Italo Calvino, Saggi, op. cit. alla nota 15 [pp. 2294 – 2299]. Prima ed. 1995.

[17] “Delitto in Europa”, Il Corriere della Sera, 8 ottobre 1975.

[18] “Calvino: un uomo invisibile”, video intervista a Italo Calvino. Vedi nota 3..

[19] “Calvino: un uomo invisibile”, video intervista a Italo Calvino. Vedi nota 3.

[20] “Lettera a Michele Rago”, in Italo Calvino, Lettere, op. cit. alla nota 4. [il passo citato è a p. 512].

[21] Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Milano, Vita e Pensiero, 2016, 120 p. [il passo citato è a p. 15].

[22] Italo Calvino, Marcovaldo, Torino, Einaudi, 1986, 204 p. [il passo citato è a p. 15]. Prima ed. 1963.

[23] Italo Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 2014, 187 p. [il passo citato è a p. 10]. Prima ed. 1983.

[24] Italo Calvino, Le città invisibili, Milano Mondadori, 2006, 228 p. [il passo citato è a p. 148]. Prima ed. 1972.

[25] Fernanda Pivano, Diari 1974 – 2009, Milano, Bompiani, 2010, 1590 p. [il passo citato è a p. 440].

[26] “La forma del tempo. Messico”, in Italo Calvino, Saggi, op. cit. alla nota 15. [il passo citato è a p. 607]. Prima ed. 1995.

[27] “La forma del tempo. Giappone”, in Italo Calvino, Saggi, ibidem. [il passo citato è alle pp. 585 e 586]. Prima ed. 1995.

[28] Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006, 328 p. [il passo citato è a p. 126].

[29] “Mondo scritto e mondo non scritto”, in Italo Calvino, Saggi, op. cit. alla nota 15, pp. 1865 – 1875. Prima ed. 1995.

[30] Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, 288 p. [il passo citato è a p. 15].

[31] Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, op. cit. alla nota 31 [il passo citato è a p. 124].

[32] “Calvino: un uomo invisibile”, video intervista a Italo Calvino. Vedi nota 3.

[33] Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, op. cit. alla nota 28 [il passo citato è a p. 129].

[34] Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, op. cit. alla nota 21 [il passo citato è a p. 15].

[35] “Calvino: un uomo invisibile”, video intervista a Italo Calvino. Vedi nota 3.

[36] “Cibernetica e fantasmi”, in Italo Calvino, Saggi, op. cit. alla nota 15 [il passo citato è alle pp. 215 – 216]. Prima ed. 1995.

[37] “Altri discorsi di Letteratura e Società”, in Italo Calvino, Saggi, ibidem [il passo citato è a p. 1860]. Prima ed. 1995.

[38] Luca Baranelli – Ernesto Ferrero (a cura di), Album Calvino, Milano, Mondadori, 2003, 333 p. [il passo citato è a p. 11].

[39] “Inchiesta 1966”, in Italo Calvino, Saggi, op. cit. alla nota 15 [il passo citato è alle pp. 1537- 1538]. Prima ed. 1995.