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Democrazia Futura. Il Governo Draghi, diversa routine o il preannuncio di uno Stato e di un capitalismo diversi?

di Salvatore Sechi, docente universitario di storia contemporanea |

Un primo tentativo di inquadramento nella storia dell’Italia post-unitaria. L'approfondimento di Salvatore Sechi.

Salvatore Sechi

“Penso che la vicenda storica italiana dal primo decennio del Ventesimo secolo a oggi si possa racchiudere in una silloge schematica e perentoria: fu il trionfo della mediazione, cioè nella tessitura del compromesso come principale arte di governo”. Lo scrive lo storico contemporaneista Salvatore Sechi in un articolo per Democrazia futura chiedendosi se “Il governo Draghi [sia stato] diversa routine o il preannuncio di uno Stato e di un capitalismo diversi?”. In “un primo tentativo di inquadramento nella storia dell’Italia post-unitaria” Sechi paragona Draghi ad un suo illustre predecessore: “Alla Camera chiedendo ai deputati l’investitura, Giovanni Giolitti formulò un impegno programmatico reciso e forte, inedito e impensabile: cioè che il suo governo non sarebbe intervenuto nei conflitti di lavoro, nelle controversie tra le imprese e i sindacati. Era l’applicazione della regola del libero mercato, del libero confronto alla sfera dei rapporti tra capitale e lavoro […].  Fu il primo grande successo del compromesso su una materia assai divisiva sia nel mondo industriale sia in quello di estrema sinistra” – ricorda lo studioso sardo.  L’articolo prosegue chiarendo “Perché gli spiriti selvaggi hanno prevalso a scapito di Mario Draghi nella corsa al Quirinale” prima di tentare “Un bilancio a tinte fosche fra successi nella lotta alla pandemia e incremento del debito” dell’esecutivo del premier uscente ed esaminare la sua “concezione dello Stato”: “Non più come imprenditore e neanche come innovatore, perché in entrambi i casi sfrutterebbe il monopolio del prelievo fiscale per dotarsi di risorse infinite di liquidità, limitando-drogando la concorrenza. Draghi – conclude Sechi – ha eretto un argine politico, culturale e istituzionale a questa prassi scellerata dell’invasione di campo dello Stato, configurando il suo ruolo come limitato a erogare regole e deroghe, sanzioni e controlli. In altre parole dello Stato come regolatore”.

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C’è un ciclo lungo della storia politica italiana che, quando nell’analisi ci si concentra sui particolari, su una sosta (nella forma di un governo o un singolo provvedimento legislativo), non si riesce a cogliere.

Questo arco temporale post-unitario è dominato dalla ricerca di politiche che i diversi governi e regimi hanno finito per identificare in soluzioni apparentemente diverse e anche opposte come per esempio il giolittismo, il fascismo o il secondo dopoguerra.

In realtà penso che la vicenda storica italiana dal primo decennio del Ventesimo secolo a oggi si possa racchiudere in una silloge schematica e perentoria: fu il trionfo della mediazione, cioè nella tessitura del compromesso come principale arte di governo.

Mi limito a ricordare come questo processo storico sia nato col primo governo Giolitti.

Alla Camera chiedendo ai deputati l’investitura, Giovanni Giolitti formulò un impegno programmatico reciso e forte, inedito e impensabile: cioè che il suo governo non sarebbe intervenuto nei conflitti di lavoro, nelle controversie tra le imprese e i sindacati. Era l’applicazione della regola del libero mercato, del libero confronto alla sfera dei rapporti tra capitale e lavoro.

L’allarme per questa prassi e cultura politica liberale nuova investì anche il mondo imprenditoriale, insieme a quello socialista dove a prevalere a lungo fu la corrente non di Filippo Turati, ma quella più radicale guidata da Giacinto Menotti Serrati.

Il primo imprenditore al quale Giolitti fece capire che al passato di Francesco Crispi non intendeva tornare fu Giovanni Agnelli. Nel 1920 la Fiat venne occupata dagli operai e il proprietario-senatore se ne lamentò non poco andando a trovare Giolitti nella sua residenza estiva.

Fu lui a toglierlo dall’imbarazzo e dalla lagna dicendogli: “Se Lei vuole far cessare il dominio degli operai, io sono pronto a ordinare all’esercito di sparare su Mirafiori. Vuole che dia domani questa disposizione?”

Giolitti presenterà in parlamento un progetto in qualche modo ispirato al controllo operaio sulla produzione, aumentò i salari, e tutto rientrò. Fu il primo grande successo del compromesso su una materia assai divisiva sia nel mondo industriale sia in quello di estrema sinistra.

Circa sei anni dopo, un giovane economista, anch’egli torinese, di cui ho già avuto modo di scrivere su questa rivista[1], in una conferenza al Keynes Political Economy Club a Cambridge, illustrò un’idea opposta, cioè che la storia dei rapporti tra capitalisti e proletari in Italia si sarebbe svolta all’insegna di un obiettivo preciso, vale a dire la conquista del potere. E nel secondo dopoguerra l’obiettivo politico della sinistra (comunisti e socialisti) fu di identificare l’abbattimento del fascismo con la sostituzione del capitalismo, cioè un governo con in testa la maggioranza dei partiti di sinistra.

Sembrò la fine della politica della mediazione.

In realtà, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti negli anni si renderanno conto di non poter fare parte di governi in condizioni di autonomia, cioè di autosufficienza, ma solo a integrazione della Dc e dei partiti intermedi.

I comunisti ebbero una resistenza maggiore.

Rimasero, infatti, ancorati all’idea che in Italia non esistesse una destra liberale idonea a governare, e demonizzarono come impulsi fascisti tutti i tentativi di formare un polo politico moderato, alternativo alla DC, inducendo così ì propri iscritti ed elettori a credere che la sola alternativa esistente fosse la formazione di un governo di sinistra. Ma, nello scorrere degli anni, la partecipazione dei socialisti e comunisti venne contenuta, e accolta, nella forma di soluzioni allargate ad essi.

Fu Silvio Berlusconi nelle elezioni comunali di Roma del 1993 a legittimare un’amministrazione comunale eletta da un blocco di forze moderate avente per leader un dirigente del Msi come Gianfranco Fini.

Forza Italia diede forma nuova, inedita (non direi per la sostanza, che fu per lo più un fallimento), cioè ad un’alternativa di potere. Al centro del sistema politico un movimento-partito moderato, di ispirazione liberale, centrista, con la mission di ricondurre ad unità ogni segmento di destra. Di qui la creazione di un governo formato da un polo unito, anche se non omogeneo, che per la prima volta introduceva nella lotta politica un fattore di divisione netto. Non era solo anti-comunista, in quanto isolava e si contrapponeva senza mediazione, in maniera frontale, all’intera sinistra socialista e comunista.

Le sinistre furono costrette a ripensare radicalmente i loro programmi. L’esito lento e tormentato sarà di restituire alle politiche di riforme la centralità di cui erano state spogliate dagli obiettivi di cambiamento radicali, rivoluzionari. Erano in voga in tutti i paesi governati dai socialdemocratici in Europa, ma Togliatti e Nenni ebbero a lungo occhi e passioni rivolti a Mosca.

Il carattere di politica di mediazione e di compromesso che Berlusconi e il berlusconismo imposero finirà per essere fatto proprio dalle forze di centro-sinistra. Di qui la loro presenza e collaborazione insieme a Forza Italia per sei anni, nell’arco dell’ultimo decennio. Per non parlare dei giri di valzer tra Berlusconi e Massimo D’Alema (nel 1997), Berlusconi e Pier Luigi Bersani (nel 2011), Berlusconi ed Enrico Letta (nel 2011), Berlusconi e Matteo Renzi (nel 2014) su importanti riforme costituzionali o emergenze di unità nazionale.

Perché gli spiriti selvaggi hanno prevalso a scapito di Mario Draghi nella corsa al Quirinale

Anche Mario Draghi ha dimostrato attitudine a mediare in una larga maggioranza senza prevaricare le forze politiche. E’ la ragione per cui è sembrato essere il candidato comune per la Presidenza della Repubblica.

Giampaolo Sodano, sulla scorta dell’interessante saggio di Guido Barlozzetti, lo  ha definito:

“un fluido e connesso viaggio di un uomo formalmente visibilissimo ma che ha mantenuto il controllo della sua prudente visibilità (qualche volta anzi è apparso addirittura invisibile) in ordine agli equilibri tra navigazione e coraggio. In un contesto – quello della politica italiana dei nostri giorni – che è tanto rumoroso quanto poco leggibile in ordine alle sue patologie e ai rischi per lo stesso regime democratico”. 

Ma alla fine, per non dire molto presto, prevalsero gli spiriti selvaggi di controllo e dominio della più alta risorsa istituzionale scatenatisi a fior di pel le nella leadership della Lega, dei Pentastellati e di Forza Italia.

Mario Draghi, che non disdegna la comunicazione al più alto livello[2] si può definire un tecnico?

La stessa domanda vale per Silvio Berlusconi e per Mario Monti. Chi lo pensa ha una concezione del tecnico e del politico molto generica, con differenze inapprezzabili oppure estreme.

Draghi professionalmente è stato un banchiere che Mattarella scopre quand’era al top degli incarichi. Il mestiere corrisponde a quanto il nome sembra evocare. Ma “saghe e mitologie tremende” sono smentite, se non respinte, da un sorriso leggermente tendente all’ironia, da uno stile segnato da pazienza, garbo, vago imbarazzo. Per non dire da un senso sovrano di distacco dalla rissosità e in temperanza incoercibile di un bon a tout faire come il capo leghista Matteo Salvini o l’eterna inconcludenza del capo di Cinque Stelle Giuseppe Conte. Ma alla fine a vincere sarà la volontà di ferro spartitoria di vecchi arnesi della democrazia come i partiti di potere, senza storia, della Seconda Repubblica.

Purtroppo neanche l’attenta analisi di Guido Barlozzetti è riuscita a penetrare, come ha rilevato Gianfranco Pasquino, il volto segreto, o forse anche un po’ demoniaco, della scelta del premier da parte del capo dello Stato, dei contatti attraverso cui arriva a Draghi, delle forze politiche che lo hanno sostenuto e dei punti programmatici suggeriti o concordati. A dominare è ancora una volta la non trasparenza e l’incomunicabilità del volto del potere anche in un regime liberal-democratico.

Si può pensare di essere stati in buone mani se si fosse occupato di Alitalia, Ilva, autostrade, pensioni, salari, viticultura, eccetera, cioè di settori anch’essi molto specialistici e quindi tecnici? Annunciato da un cognome che evoca sfracelli, egli lo smentisce con l’immagine di presupposta competenza, la disponibilità ad ascoltare e anche l’aria distaccata con cui si presenta.

Mi pare, quindi opportuno abbandonare questo schema così scivoloso e concentrarsi su una domanda classica, poco originale, ma decisiva: Draghi com’è intervenuto, e con quali risultati per dirimere problemi che ci trasciniamo dall’unità d’Italia? Intendo riferirmi all’amministrazione della giustizia, al problema cruciale dell’eguaglianzadi fronte agli obblighi fiscali, alla scuola, alla sanità, al modo di affrontare gli squilibri tra Nord e Sud.

Possiamo, però, formulare la domanda in altro modo: in un paese che ha un settore pubblico (di intervento dello Stato nell’economia) non molto diverso da quelli dei paesi socialisti, Draghi si è rassegnato a prendere atto dell’esistente, o ha, invece, voluto avviare politiche di liberalizzazione, se non di rottura, dei molti monopoli e colli di bottiglia pubblici nostrani?

Formulo queste domande perché la tendenza di lungo periodo della storia italiana sembra essere, secondo non pochi storici, di non debordare da una linea di condotta ormai consolidata. Essa consiste – come dicevo all’inizio – nella riduzione della politica a rispetto della mediazione e del compromesso. Da Giovanni Giolitti (che cominciò con un Esecutivo di frontale rottura con la prassi fino ad allora prevalente di schierare lo Stato a favore degli interessi imprenditoriali) ad oggi, con qualche eccezione come le politiche avviate da Bettino Craxi (e valorizzate in maniera ben più energica e diffusa, cioè su scala non più locale, ma nazionale, da Silvio Berlusconi) nel settore televisivo e dal governo Prodi (grazie all’iniziativa fortemente innovativa del suo ministro Pier Luigi Bersani) sulle liberalizzazioni in alcuni settori commerciali.

Trattasi nel caso del governo Draghi di diversa routine o è dal consenso ricevuto, come ha rilevato Guido Barlozzetti, che è nata la grande fascinazione per delineare grandi interventi, per quelle che Felice Emanuele ha scolpito col lessico di “visioni visionarie”.

Bisogna convenire con lui quando dice:

” E però il Potere continua ad avere bisogno di volti e di corpi con cui presentarsi e imporsi, meglio se con un carisma seducente e irresistibile. In particolare, il Potere che riguarda il governo delle nazioni, lungo un arco che va dalle democrazie ai sistemi autoritari”[3],

 compresa quelle che intendono abolire ogni mediazione, instaurando il mito di un rapporto diretto tra governanti e governati.

Nella storia d’Italia la libera concorrenza, la difesa del mercato, o liberismo che dir si voglia, non ha avuto il sostegno di maggioranze, ma è stato piuttosto patrimonio di minoranze.

Ricordo lo stuolo di economisti (Edoardo Giretti, Antonio De Viti De Marco, Attilio Cabiati eccetera) sotto la guida di Luigi Einaudi (che alla fine li lasciò a bagnomaria). Dei loro contributi Roberto Marchionatti[4], attraverso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino, ne ha restituito un’immagine che era stata sepolta da uno spirito di discrezione tutto torinese.

Né si può tacere, perché non lo si fa mai, lo schieramento a favore dell’anti-protezionismo da parte del giovane Antonio Gramsci[5].

Ma fu l’espace d’un matin perché dal 1917 in avanti egli subirà la fascinazione di Lenin e della rivoluzione bolscevica, e abbandonerà per sempre l’idea che fosse possibile una riforma in senso liberista di un capitalismo ormai avviato a espandersi sotto la protezione dei monopoli e come tale poco sensibile a soddisfare i principi e alla pratica della libera concorrenza.

Un bilancio a tinte fosche fra successi nella lotta alla pandemia e incremento del debito

Si può obiettare, a ragione. che le emergenze per cui Draghi è stato chiamato a porre rimedio erano altre, minori, più contenute: inizialmente di fronteggiare la pandemia, cogliere l’opportunità del Next Generation EU Recovery Program, e scongiurare le preoccupazioni di chi aveva comperato il nostro debito grazie a un quadro politico incerto.

Ma non ha potuto scansare l’affollarsi sul proprio tavolo delle altre.

Quanto alle misure contro la pandemia, malgrado l’assoluta mancanza di competenza di un classico politicante meridionale come il ministro Roberto Speranza, siamo diventati, per molti Paesi, un esempio da seguire.

Anche il Green Pass ha contribuito a far crescere la percentuale dei vaccinati, e ha consentito una certa ripresa dei rapporti sociali.

Quanto al terzo, c’è stato un certo rimbalzo, se non una ripresa, nell’ economia. In altri termini il prestigio personale di Mario Draghi e la sua forte influenza sui nostri partner dell’Unione europea ha portato ad un miglioramento non enorme, direi anzi marginale, dei conti.

Lo si è pagato con l’incremento del debito, cioè con la perdita del controllo della finanza pubblica, come ha detto Daniel Gros, che dall’ex presidente della BCE non se l’aspettava proprio. E’ la denuncia di un rilievo critico che si è allargato alla spending review, dovuto ad un cedimento del nostro premier per non inimicarsi i partiti.

Ma non è improprio tenere presente quanto ha rilevato Franco Debenedetti, cioè che in Draghi la tenacia nel mediare spinta fino all’esasperazione, è derivata dalla necessità di preservare l’unità e la stessa vagheggiante saldezza del governo. Onde evitare, con l’apertura di una crisi, al termine della presidenza, un ingorgo costituzionale allucinante.

Comunque è vero che con Draghi c’è stato un incremento dell’assistenzialismo. Poteva essere diversamente dal momento che bisognava proteggere i cittadini dal Covid servendosi di un ulteriore intervento dello Stato? Ma questo innegabile rilievo critico non può essere formulato senza tener conto che la concessione abbondantissima di fondi europei (il PNRR) è quasi condizionata all’innesco di un processo riformatore.

E In effetti il Pnrr, al pari delle molte risorse economiche prese a prestito dall’Unione europea (dobbiamo restituirle e non ci faranno più sconti), sono impostati ad aumentare la libera concorrenza, incidere sul fisco, sull’amministrazione dello Stato (penso ai comparti della scuola e della giustizia).

Senza questa scorta di trasformazioni radicali non si avrà innovazione e neanche si potrà ovviare al fenomeno ormai ventennale della bassa produttività di cui il nostro Paese soffre rispetto ad altri paesi.

L’esito dovrebbe essere quello del l’aumento dell’efficienza e del calo dei prezzi, com’è avvenuto nella telefonia e nell’alta velocità.

La concezione dello Stato di Mario Draghi, un argine contro le invasioni di campo

Di qui la necessità di chiedersi se col breve governo Draghi il capitalismo oggi sotto radar non abbia mostrato di sapere, e volere, cambiare, e quindi sia indispensabile ridefinirlo alla luce e nella prospettiva del futuro. In questo senso l’espace d’un matin del suo esecutivo credo sia stato qualcosa di più di una meteora, preannunciando quale potrebbe, o dovrebbe, essere la transizione verso un domani prossimo venturo.

Ci sono state, e si sono mobilitate le resistenze di consorterie potenti come quelle insediate in seno alla magistratura.

In un settore cruciale della pubblica amministrazione come la scuola non si valuta e non si vuole essere valutati perché nell’attività degli insegnanti non si riesce a far franare il muro della legge che premia l’anzianità di servizio invece dell’efficienza e del merito, cioè i criteri della libera concorrenza.

Nella riforma fiscale bisogna partire dal difficile bilanciamento degli interessi e quindi dalla riforma di una muraglia archeologica come il catasto.

Draghi ha. dato il segno di volersi muovere nella giusta direzione nel dotare il suo governo di ministeri di nuovo conio e responsabilità come quello della transizione ecologica e della transizione digitale.

Ma è nella responsabilità del suo successore, Giorgia Merloni che, oltre a cooptare in alcuni settori della gestione gli ex ministri Daniele Franco, Vittorio Colao e Roberto Cingolani, saper spendere e saper collocare bene la montagna di soldi ricevuti. In altre parole si tratta di dimostrare come si intende avviare la crescita economica.

Facendola dipendere ancora una volta e di più dai poteri pubblici, dal settore statalizzato dell’economia, quindi dallo Stato o dal mercato, dal suo libero gioco?

Un messaggio importante, se non una risposta compiuta, Mario Draghi l’ha voluto lanciare. Mi riferisco alla sua concezione del ruolo dello Stato. Non più come imprenditore e neanche come innovatore, perché in entrambi i casi sfrutterebbe il monopolio del prelievo fiscale per dotarsi di risorse infinite di liquidità, limitando-drogando la concorrenza. Draghi ha eretto un argine politico, culturale e istituzionale a questa prassi scellerata dell’invasione di campo dello Stato, configurando il suo ruolo come limitato a erogare regole e deroghe, sanzioni e controlli. In altre parole dello Stato come regolatore. Un po’ come fece Giolitti quando negò allo Stato i poteri preventivi e repressivi di polizia e dell’esercito con cui aveva a lungo favorito i sindacati padronali contro quelli operai[6]. Ma forse l’esempio più vicino a noi è la California, con la sua Silicon Valley, dove l’innovazione molecolare dominante dipende dall’esistenza di mercati concorrenziali.

Sinceramente noi in Italia non siamo a questo punto. Due esempi macroscopici come l’Alitalia e l’Ilva mostrano quale sia il limite più grande dello Stato, cioè di usare discrezionalmente il denaro dei cittadini, dei risparmiatori per coprire inefficienze ed errori paurosi. Può così dire che non sbaglia mai. Il milione di euro al giorno che da anni i contribuenti vedono trasferiti dalle loro tasche per ripianare le perdite di un’idrovora insaziabile come l’infausta compagnia di bandiera sono la rappresentazione più sintomatica e icastica della sfortuna di avere “Stato che s’impiccia nell’economia, fa impresa”.

Conclusione

Il quadro di riferimento di Mario Draghi come di Franco Debenedetti[7] resta quello hegeliano del fine della storia, intesa cioè co me progresso della libertà individuale, alla quale corrispondeva una concezione liberale e individualistica dell’ordine politico. Arriva, dopo la rivoluzione francese e i primi decenni dell’Ottocento se vogliamo indicare un percorso temporale fino a Francis Fukuyama[8].

Col fallimento del comunismo, naufragato nel neo-bonapartismo più crudele, il modello liberal-democratico che era stato una realtà limitata agli Stati Uniti e ad alcuni grandi Stati europei, estendendosi al resto del mondo è diventato sogno visionario e speranza dell’umanità intera.

Non so che cosa Draghi e Debenedetti pensino dello storico italiano più originale, Andrea Graziosi[9]. Pur essendo animato dagli stessi valori, ha descritto l’esistenza di una sorta di bomba antropologica innescata sotto le condizioni di libertà e di benessere dell’Occidente. A offrirne un’opportuna e ben congegnata silloge è stato di recente Emanuele Felice[10].

Raggiunto questo livello la tendenza è a non fare figli anche al di sotto della soglia di riproduzione. Graziosi ha rilevato come questa tendenza malthusiana dallo specchio del mondo industrialmente più sviluppato si sia trasferita, e sia rilevabile, nei comportamenti, nelle aspirazioni e nelle culture di paesi in cui l’arretratezza prende il volto proprio del lavoro agricolo.

La vita sembra apparire essere migliore o meno peggiore senza dover fare e allevare figli a milioni di donne e di uomini. Il fenomeno è rilevabile non solo sul comparto della popolazione a bassa o scarsa distribuzione del reddito. Si rivolgono allo Stato e alle imprese del capitalismo per compensare la loro fragilità economica e quindi poter contenere il calo demografico tornando ad essere riproduttivi.

Dall’analisi di Graziosi scaturisce un pessimismo e un allarme ancora più conturbante perché la rinuncia a fare figli coinvolge anche l’immenso pianeta dove domina il basso reddito, la disoccupazione, la precarietà, e il futuro non pare offrire alternative diverse.

Nota bibliografica.

Oltre al recente saggio di Guido Barlozzetti, La meteora? Mario Draghi. L’anomalia di un’immagine, San Biagio della Valle (Perugia), Bertoni 2023, 220 p. sono stati presi in considerazione Franco Debenedetti Fare profitti. Etica dell’impresa, Venezia, Marsilio, 2021, 320 p.; Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992 430 p.; Andrea Graziosi, Occidente e modernità. Vedere un mondo nuovo, Bologna il Mulino, 2023, 216 p.; Emanuele Felice, La conquista dei diritti. Un’idea della storia, Bologna, il Mulino, 2022, 368 p. Roberto Marchionatti, “La scuola di Torino e le sue riviste. La Riforma Sociale e La Rivista di Storia economica, 1894-1943”, Rivista Storica Italiana, CXIX (3), settembre-dicembre 2007, pp. 1048-1088; Giuliano Guzzone, Gramsci e la critica dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma della “traducibilità”, Roma, Viella 2018, 306 p. Massimo L. Salvadori, Giolitti. Un leader controverso, Roma, Donzelli, 2020, 224 p.

Ringrazio Bruno Somalvico per l’attenta lettura e i puntuali suggerimenti.


[1]  Salvatore Sechi, “Piero Sraffa, il PCI e la storia d’Italia”, Democrazia futura, III (9), gennaio-marzo 2023, pp.339-352.

Cf. https://www.key4biz.it/democrazia-futura-piero-sraffa-il-pci-e-la-storia-ditalia/445892/.

[2] Mario Draghi, Dieci anni di sfide. Scritti e discorsi. Prefazione di Lionel Barber,  Roma, Biblioteca enciclopedica Treccani, 2022, 292 p.

[3] Guido Barlozzetti, La meteora? Mario Draghi. L’anomalia di un’immagine, San Biagio della Valle (Perugia), Bertoni 2023, 220 p. [la citazione è tratta dalle conclusioni a p. 216].

[4] Roberto Marchionatti, “La scuola di Torino e le sue riviste. La Riforma Sociale e La Rivista di Storia economica, 1894-1943”, Rivista Storica Italiana, CXIX (3), settembre-dicembre 2007, pp. 1048-1088.

[5]Giuliano Guzzone, Gramsci e la critica dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma della “traducibilità”, Roma, Viella 2018, 306 p.

[6] Massimo L. Salvadori, Giolitti. Un leader controverso, Roma, Donzelli, 2020, 224 p.

[7] Franco Debenedetti Fare profitti. Etica dell’impresa, Venezia, Marsilio, 2021, 320 p.;

[8] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992 430 p

[9] Andrea Graziosi, Occidente e modernità. Vedere un mondo nuovo, Bologna il Mulino, 2023, 216 p

[10] Emanuele Felice, La conquista dei diritti. Un’idea della storia, Bologna, il Mulino, 2022, 368 p