il saggio

Democrazia Futura. Gramsci, Sraffa e l’ossessione trotzkista del Grande Terrore

di Salvatore Sechi, docente universitario di storia contemporanea |

In un corposo saggio per Democrazia futura "Sraffa e l’ossessione trotzkista del Grande Terrore", Salvatore Sechi spiega "Perché né il PCd’I né l'Urss non fecero nulla per liberarlo dal carcere".

Salvatore Sechi

La storiografia più recente conferma le ipotesi sostenute sin dagli anni Sessanta da Leonardo Paggi circa “La rottura mai ricomposta di Gramsci con Togliatti e il gruppo dirigente del PCd’I” rottura che spinse lo stesso Gramsci – ormai imputato di parteggiare per Trotzky – a conferire il mandato “a Piero Sraffa e a Tatiana Schucht di non destinare a Palmiro Togliatti i manoscritti redatti durante i suoi dieci anni di detenzione nelle prigioni di Stato”. “L’esclusione di Palmiro Togliatti e del partito si può dire sia stata l’ultima manifestazione di volontà di Gramsci. Lettere e Quaderni dal carcere, assurti dopo la sua morte nell’aprile del 1937 a lascito ereditario, costituirono – precisa Sechi – l’unico patrimonio di cui godette il poverissimo studente sardo diventato segretario generale del Partito Comunista d’Italia. […] Analogamente – osserva lo storico contemporaneista – sono rimasti soffusi in penombra o assenti il ruolo e l’autorità politica, a parte il nome, di Gramsci, cioè la presa d’atto della sua ininfluenza. Intendo dire che l’’affaire Gramsci-Togliatti’ fotografa soprattutto la deriva verso quella sindrome ossessiva del complottismo e della stessa criminalità cospiratoria subita dal Comintern negli anni del Grande Terrore”. Il saggio ripercorre minuziosamente alcune vicende come “L’inchiesta del Comintern su Ercoli-Togliatti” propiziata dal ramo russo della famiglia Gramsci dopo la morte del pensatore sardo contenente la nota impietosa di una funzionaria bulgara su “Le accuse di Gramsci contro Togliatti” dietro al quale sin dal suo arresto nel 1926 il leader sardo avrebbe visto “la mano di un traditore”.  Da qui quella che Sechi definisce “L’inarrestabile processo di separazione di Gramsci dai suoi compagni comunisti” che spiegherebbe non solo perché questi ultimi non fecero nulla per liberarlo dal carcere come del resto non fece nulla Stalin nonostante le pressioni della famiglia”, ma anche perché – dopo la grave crisi del capitalismo del 1929 – “Dal fondo di un carcere Gramsci riesce a cogliere l’epocale cambiamento che sta avvenendo. C’è un ruolo nuovo dello Stato che da Washington a Mosca investe il vecchio mercato e modifica le forme della politica. Gramsci – a parere di Sechi – coglie molto bene che occorre fare i conti con l’americanismo e con la virata verso il totalitarismo delle repliche alla crisi innescata dalla caduta dei titoli azionari nella Borsa degli Stati Uniti. Esso non coincide per nulla con le coercizioni e le violenze del neo-bonapartismo dominante nel paese del “socialismo reale” né con i meccanismi e le procedure del dominio ad opera del nuovo padronato. Ha, invece, a che fare con l’assunzione da parte dello Stato, negli Stati Uniti d’America come nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di funzioni collettive, totalizzanti in sostituzione di quelle che fino ad allora erano state iniziative private in un mercato lasciato a sé stesso”. 

___________

Per sfoltire, se non far diradare, il buio sul poco che sappiamo intorno alle opzioni politiche, tra fascismo e seconda guerra mondiale, dell’economista Piero Sraffa, il minimo che possa farsi è auspicare una raccolta di testimonianze, ricordi, anche di conversazioni informali, con i suoi molti allievi e con i parenti.

Sraffa era una persona estremamente riservata. Considerato fin dal 1922 comunista, fu sottoposto alla sorveglianza della polizia fascista e di quella di Sua Maestà Britannica. Ma aveva stabilito collegamenti importanti sia con la sezione italiana e quella britannica dell’Internazionale comunista sia col vertice di essa.

Purtroppo il fascicolo a lui intestato in seguito al viaggio in Urss nel 1930, rinvenibile presso il RGASPI nella serie della sezione Quadri degli archivi dell’Internazionale Comunista, sembra sia stato interamente vuotato. Ma, ancora oggi, non mancano studiosi che ammettono l’esistenza di contatti, se non di una vera e propria collaborazione, di questo studioso con l’intelligence sovietica. Sulla base di una storiografia prevalentemente indiziaria e più nella forma del compagno sotto copertura che dell’agente segreto[1].

È in corso da una decina di anni una valutazione critica del suo ruolo.

Sraffa dal 17 marzo al 18 aprile 1937 visitò spesso e a lungo Gramsci nella clinica romana in cui sarebbe morto. Su quanto sapeva o aveva saputo di Antonio Gramsci

“non ha voluto far luce…e ha tenuto per sé gran parte delle verità che avrebbero generato scalpore”. Si è arrivati a dire che ha detto ben poco e sapeva molto”[2].

Ancora insicuro e molto omesso è il riferimento a un incarico di cui sarebbe stato investito, cioè di aver curato i finanziamenti al partito durante la segreteria di Gramsci.

Sraffa ha contribuito, in qualche misura, a rendere Palmiro Togliatti bersaglio delle attenzioni -potenzialmente dannose per la sua stessa vita – degli organi di sicurezza del Comintern negli anni del Grande Terrore staliniano. Ma sulle narrazioni del periodo carcerario di Gramsci e su quelle dei maggiori dirigenti del Pci si è allineato alle versioni non di rado poco convincenti di partito.

La conseguenza è che queste scarne informazioni e la non mai rinvenuta relazione, richiestagli da Togliatti, sulle ultime volontà di Gramsci, hanno dato la stura a dubbi di ogni genere. Finanche che non l’abbia mai scritta.

È anche grazie alle sue testimonianze – un po’ oscure e ambigue – che si è rivelato vero quanto è stato a lungo negato o omesso dalla storiografia comunista: cioè che tra Gramsci e Togliatti (e in generale il gruppo dirigente del PCd’i) ci fu una rottura, mai ricomposta.

La rottura mai ricomposta di Gramsci con Togliatti e il gruppo dirigente del PCd’I

Il primo a rilevarlo, sulla base della bibliografia esistente, fu uno dei primi e maggiori studiosi di Gramsci, Leonardo Paggi[3].

Un vero e proprio spirito di scissione fu impresso ai rapporti tra Gramsci e i suoi compagni dopo il 1928. È l’anno in cui fu condannato, da parte del Tribunale di Milano, a oltre 20 anni di carcere. A far sorgere e probabilmente ingigantire l’impressione, diventata sempre più ossessiva, di essere caduto in disgrazia e quindi progressivamente messo da parte come un ingombro e una fonte di pericoli dai suoi compagni fu il sospetto da cui fu travagliata fino alla fine la vita di Gramsci.

Si riferiva alla “strana”(come la definì inizialmente) lettera del 1928 inviata mentre si svolgeva il processo presso il Tribunale di Milano contro di lui a Mauro Scoccimarro e Umberto Terracini da un dirigente di primo piano come Ruggero Grieco. Ne derivò per dieci anni il cruccio spasmodico e l’infinita sofferenza di essere stato preso di mira, con l’obiettivo di colpirlo sul piano giudiziario e di liquidarlo su quello politico, dai suoi stessi compagni di partito[4].

Ma, dopo la fine del 1937, se così si può dire, venne sempre più prevalendo la convinzione che il maggiore responsabile del suo “tradimento”[5] fosse stato chi ispirò, e fece scrivere, tale missiva, cioè Togliatti (di concerto con esponenti russi del Comintern).

La fine degli anni Trenta fu cruciale per un partito ormai allo sbando come il Partito Comunista d’Italia (PCd’I). Nel marzo 1937, su iniziativa del Comintern, venne posto sotto tutela, avendo per obiettivo mirato la defenestrazione di Ruggero Grieco[6]. Con lo spostamento a Mosca di Palmiro Togliatti nel 1934 per preparare il VII congresso dell’Internazionale ne aveva preso il posto, cioè le funzioni di segretario.

Giuseppe Berti nel marzo dello stesso anno da Mosca venne incaricato di recarsi a Parigi col ruolo di plenipotenziario del PCd’I. Nel 1938 i manoscritti di Gramsci arrivarono a Mosca, e la famiglia Schucht mostrò la volontà di tenerli presso di sé, cioè di non cederli né al partito italiano né al Comintern come voleva lo stesso Togliatti. Di qui l’insorgere di forti tensioni per l’accusa ricorrente di volerli sottrarre.

Ma chi può escludere che, essendo stati tenuti per un lungo periodo in deposito presso i locali romani dell’ambasciata sovietica, qualcuno non avesse provveduto a fotografarli e spedirli a Mosca? Nei confronti di un dirigente che era imputato di parteggiare per Lev Trotzky questo era un atto elementare, quasi obbligato, di sicurezza e sorveglianza.

Nel medesimo lasso di tempo (precisamente nell’aprile del 1938) una delegazione del PCd’I ben ponderata nella sua composizione venne convocata a Mosca per difendersi dalle accuse (molto frequenti in quel periodo) di comportamenti assai gravi come l’inefficace lotta per contrastare il trotzkismo e la violazione della disciplina cospirativa[7].

Come ha rilevato Silvio Pons

“il termine aveva subito un’espansione semantica estrema, arbitraria e incontrollabile. Capi d’accusa i più disparati, persino contraddittori tra loro, potevano essere plasmati a seconda delle circostanze, stigmatizzando qualsiasi antecedente prestasse il fianco al sospetto dell’intrigo, indipendentemente dalle sue presunte reali finalità politiche”[8].

Il 4 agosto 1938 una risoluzione del Comitato Esecutivo dell’Internazionale comunista (Ekki) poneva nell’occhio del ciclone il PCd’I. Ne seguirà lo scioglimento del Comitato centrale e la nomina di un nuovo gruppo dirigente sotto la guida di Togliatti appena rientrato dalla Spagna.

Da lui vennero confermate le lagnanze (e quindi il giudizio negativo) sul Centro estero. Successivamente Ruggero Grieco sarà rimosso dalla segreteria che venne assegnata a Giuseppe Berti.

A differenza degli altri partiti comunisti, il PCd’I non sarà spazzato via, ma la condizione degli antifascisti emigrati in Urss dall’Italia diventerà un inferno[9].

Sono significativi alcuni documenti del periodo 1934-1937, e soprattutto dell’estate 1938, attribuiti alla mano della funzionaria della sezione quadri dell’Internazionale comunista (Ekki), responsabile dei paesi latini, la bulgara Stella Blagoeva. Oltreché al segretario dell’Internazionale, Georgi Dimitrov, era legata a Dimitrij Manuilskij. L’esponente ucraino era alla testa della delegazione sovietica nell’Ekki e, a sua volta responsabile politico dell’attività della sezione quadri del Comintern.

Ad avviso della Blagoeva, sarebbe stato Piero Sraffa a fornire anche alla cognata Tatiana Schucht, l’informazione secondo cui Gramsci indicava lo stesso Ercoli/Togliatti come autore della sconsiderata e pericolosa lettera del 1928. Successivamente nella corrispondenza con Tatiana, Sraffa puntò a minimizzare il valore della lettera del 1928 e ad attribuirla non a un consapevole disegno punitivo, ma a una pura e semplice trasandatezza di Grieco. Si trattava di una linea di condotta che, per sviare Tatiana, egli aveva concordata col Centro estero del partito residente a Parigi.

Gramsci l’aveva vissuta, invece, come un tentativo impensabile e irresponsabile volto a prendere di petto la linea difensiva dei suoi legali. Il contenuto della missiva, con i suoi diversi punti di provenienza (Basilea, Mosca, Milano) e il suo dire e non dire, favoriva le imputazioni pesantissime mosse contro di lui, Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro, dalla polizia fascista: come quella di avere ordito violenze e rivolte fino al sovvertimento delle stesse istituzioni della dittatura[10]. Un estremo, a dir poco micidiale, seguito Gramsci cercò di dare a questo sentimento sconcertante e doloroso di essere stato di fatto sostituito e isolato, diciamo pure emarginato, all’apice del partito dai suoi sodali fin dai tempi dell’Ordine Nuovo.

Il mandato conferito da Gramsci a Piero Sraffa e a Tatiana Schucht di non destinare a Palmiro Togliatti i manoscritti redatti durante i suoi dieci anni di detenzione nelle prigioni di Stato

Nelle ricerche storiche su Sraffa (per esempio di Nerio Naldi e Giancarlo De Vivo) non mi pare si sia insistito quanto necessario su un aspetto certamente difficile, pieno di qualche cruccio e sofferenza negli affetti privati più intimi, dell’economista torinese.

Mi riferisco al mandato che, prima di morire nell’aprile 1937, Gramsci affidò, nelle soste presso le cliniche romane, sia a lui sia a Tatiana Schucht: i manoscritti redatti durante i dieci anni di detenzione nelle prigioni dello Stato non dovevano avere per destinatari (onde gestirne l’utilizzo anche solo a fini editoriali) Palmiro Togliatti e lo stesso partito.

Niente più di questo atto è significativo della rottura o, se si vuole, del forte sentimento di inaffidabilità maturato da Antonio Gramsci nei confronti dei suoi vecchi compagni di lotte e fondatori del comunismo in Italia. Nel corso del 1933, quando ebbe luogo, e fallì, il secondo tentativo di liberazione dal carcere[11], Piero Sraffa avrebbe fatto propri in maniera molto precisa l’irritazione e il risentimento dell’amico detenuto. In altre parole condivise l’estrema diffidenza verso i suoi compagni che Gramsci gli aveva comunicato di sentire.

Ne sono un segno due episodi.

Il primo: il non aver voluto trasferire a Parigi presso il Centro estero del partito (responsabile dei precedenti “disastri”) un nutrito blocco di lettere ricevute da Tatiana[12].

Il secondo: l’acuta tensione che caratterizzò per quasi un anno i suoi rapporti con la medesima. La causa fu il molto sensibile cambiamento di opinione sulla lettera di Ruggero Grieco del 1928. Chiunque l’avesse scritta e ispirata, Sraffa decise di interpretarla come un’azione non prava, ma solo superficiale, quasi una vicenda di mera sbadataggine. 

Il silenzio degli archivi sovietici 

L’esclusione di Palmiro Togliatti e del partito si può dire sia stata l’ultima manifestazione di volontà di Gramsci. Lettere e Quaderni dal carcere, assurti dopo la sua morte nell’aprile del 1937 a lascito ereditario, costituirono l’unico patrimonio di cui godette il poverissimo studente sardo diventato segretario generale del Partito Comunista d’Italia[13].

Curiosamente questo solenne mandato a valenza discriminatoria assegnato da Gramsci a Sraffa e a Tania Schucht non sembra fare capolino neanche nei documenti sovietici consultati da uno dei migliori storici del comunismo e (da poco) presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Silvio Pons.

Analogamente sono rimasti soffusi in penombra o assenti il ruolo e l’autorità politica, a parte il nome, di Gramsci, cioè la presa d’atto della sua ininfluenza. Intendo dire che l’‘affaire Gramsci-Togliatti’ fotografa soprattutto la deriva verso quella sindrome ossessiva del complottismo e della stessa criminalità cospiratoria subita dal Comintern negli anni del Grande Terrore.

In questa prospettiva è necessario leggerlo e interpretarlo.

Alla fine fu, però, prevalentemente un affaire Togliatti che prese piede e consistenza a partire dall’affaire Gramsci.

La destabilizzazione del ruolo di Togliatti nel 1939 dopo la micidiale alleanza tra Stalin e Hitler

Riguardò la progressiva destabilizzazione del ruolo del vice-segretario italiano del Comintern in un periodo in cui la lotta contro il fascismo (che fino al 1939 aveva visto Togliatti in prima linea) aveva ceduto il passo all’opposto, cioè l’alleanza micidiale tra Stalin e Hitler

Dall’analisi delle carte provenienti dalla segreteria di Georgi Dimitrov e dalla sezione quadri del l’Ekki, è nato il saggio forse più importante sulla biografia politica del fondatore e primo segretario del PCd’I relativamente agli anni 1938-1941[14].

In tale arco di tempo l’importanza politica del leader sardo non sembra comparire mai nei documenti sovietici consultati da Pons. A tirarlo in ballo sono l’indignazione e lo spirito recriminatoria fino sconfinare nella vendetta della famiglia Schucht contro Togliatti, le lungaggini del Comintern nell’assumere sanzioni contro di lui e le molte beghe interne tra i compagni italiani. Senza tener conto dell’impoverimento, cioè della presenza prevalentemente di carattere evocativo e quindi meramente lessicale, del corpo politico della figura di Gramsci, non si riesce a capire il fondamento dell’accusa mossa a Togliatti dal ramo russo della famiglia e dallo stesso Comintern.

L’inchiesta del Comintern su Ercoli-Togliatti

Al centro ci fu l’inchiesta (sollecitata dalla famiglia Gramsci-Schucht) su Ercoli-Togliatti, affidata il 16 febbraio 1939 da Dimitrov alla conterranea Stella Blagoeva[15]. Il suo esito – negativo per Togliatti – venne trasmesso ad un funzionario dell’Internazionale di grado elevato come l’ucraino Dimitrj Manuilskij[16] il 21 marzo dello stesso anno.La Blagoeva delineava come munita di “un evidente fondamento” l’imputazione della famiglia Schucht a carico del leader comunista italiano di non avere messo tutta la cura e il tempo necessari per valorizzare i manoscritti di Gramsci redatti nel periodo carcerario e di non averne propiziato con acconce iniziative la sua liberazione dal carcere, anzi di averla sabotata.

Cruciale nelle sue analisi è anche un altro aspetto, vale a dire la responsabilità della lettera scritta (pare dettata a Grieco), e ricevuta, all’indirizzo di Gramsci come di Umberto Terracini e Mario Scoccimarro nel 1928. L’argomentazione di Silvio Pons si diffonde su piani diversi, servendosi dei pochi archivi accessibili. Ma la conclusione sul “ruolo ambiguo e opaco” avuto da Sraffa in tutta la vicenda sintetizza l’atteggiamento non facile e infine tortuoso dell’economista negli ultimi anni Trenta.

Sulla base delle confessioni rese a lui quasi sicuramente da Gramsci, Sraffa si convinse che fosse da attribuire a Togliatti la spinta che indusse Ruggero Grieco (e il contesto italiano e moscovita) a scrivere la famigerata lettera.

Il documento intitolato Materiale sull’affare Gramsci-T. firmato da Stella Blagoeva e datato 19 marzo 1939, secondo Pons (e uno studioso dalle parrocchie politiche non conosciute come Mauro Canali)

“confermava anche che l’identificazione di Togliatti come la figura sul la quale si erano incentrati i sospetti di Gramsci era da attribuire a Sraffa”

e la denuncia delle provocazioni da lui subite.

Nella lettera a Tatiana Schucht del 5 dicembre 1932, Gramsci aveva bollato la “strana” missiva ricevuta da Ruggero Grieco nel 1928 come “un atto scellerato” o “una leggerezza irresponsabile”, ma aggiungeva:

“può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere”.

Il 2 gennaio 1935 nell’ospedale di Formia Gramsci rivide Sraffa, che venne di nuovo messo sull’avviso per quanto concerneva questa lettera. Il riferimento a Togliatti, Gramsci potrebbe averlo fatto in questa occasione. Dopo la morte di Gramsci, Tatiana Schucht risolleva il problema dando vita ad uno scambio di lettere che si svolse tra il luglio e il settembre 1937.

Sraffa, come rileva Pons, si mostrò poco collaborativo e anzi apertamente elusivo, invitando Tatiana Schucht a recarsi a Parigi e parlarne direttamente con Ruggero Grieco (da lui preavvertito). Invito non raccolto e forte indignazione di Tatiana Schucht che accusa Sraffa di opportunismo e dissimulazione fino a giungere al punto di sospendere per molti mesi ogni rapporto con l’economista.

In realtà, Sraffa dopo aver ricevuto le confessioni di Gramsci che indicavano in Togliatti l’ispiratore della lettera, forse pensando alle conseguenze che la notizia avrebbe potuto provocare, informò Grieco dei sospetti nutriti da Tatiana Schucht su di lui e gli altri compagni, e si ritrasse. Lo fece con una radicale giravolta, cioè azzerando in pratica il contenuto della lettera del 1928. Negò che il suo intento fosse di mettere in disgrazia Gramsci presso i magistrati inquirenti e recargli un danno nello svolgimento del processo in corso a Milano.

Dopo la morte di Gramsci, invece, Sraffa arrivò fino a nutrire una profonda irritazione, durata quasi un anno, nei riguardi di Tatiana Schucht. Non smise di farsi portavoce della vulgata del partito, vale a dire che Grieco (e in realtà Togliatti), accusati solo di superficialità, non avevano inteso, nello scriverla, far condannare Gramsci né tantomeno liquidarlo come leader dei comunisti italiani.  

Anche la funzionaria bulgara del Comintern era giunta a prospettare un’immagine pericolosamente negativa di Togliatti (e non di Grieco, si badi bene), ma – forse indotta dal suo conterraneo Dimitrov – evitò di renderne operative le conseguenze sul piano disciplinare. Lasciò che le carte si assopissero su sé stesse. Il 21 settembre 1940, con una nota, tornò pesantemente sull’argomento, servendosi dell’accusa contro Togliatti presentata ufficialmente da Giulia Schucht (la moglie di Gramsci) all’Ekki.

Le accuse di Gramsci contro Togliatti

Su Togliatti il 21 settembre 1940 Stella Blagoeva aveva redatto una nota impietosa. Da quanto ha pubblicato uno studioso torinese, Aldo Agosti[17], le accuse di Gramsci verso Togliatti, bollato come un doppiogiochista, furono le seguenti:

  1. esprimeva opinioni politiche dopo che le decisioni erano state prese, cioè opportunismo,
  • mostrò incertezze nei momenti più acuti delle lotte interne di partito, cioè nel 1929 sul social-fascismo,
  • mandò a monte i tentativi, mediante scambi, di liberazione di Gramsci,
  • non dedicò il tempo necessario per far conoscere l’eredità letteraria di Gramsci e per la ‘popolarizzazione’ del suo nome.

Niente di nuovo rispetto alla relazione del 19 marzo 1939 trasmessa a Dimitrov, salvo gli appunti negativi sul comportamento di Ercoli-Togliatti fatti presente dai leader dei partiti comunisti di Spagna, Francia e dallo stesso Stalin. Sommandosi ai problemi dell’affaire Gramsci, rendevano doppiamente pesanti i sospetti nutriti sull’affidabilità politica di Togliatti e del partito italiano.

C’era, in realtà, molto, anzi moltissimo di nuovo. Proveniva dagli accordi Ribbentrop-Molotov[18]. Nel 1939 avevano seppellito la linea dell’anti-fascismo in cui Togliatti si era identificato. In secondo luogo proveniva dall’atto di accusa contro il PCd’I (e quindi verso Ercoli/Palmiro Togliatti) che l’8 dicembre 1940 Giulia e Eugenia Genia Schucht depositarono presso la segreteria di Stalin. Chiesero di poter dare ragione del contenuto in un colloquio diretto col compagno dittatore. Vi veniva ribadita la critica al PCd’I per essersi ritenuto unico proprietario dei manoscritti gramsciani e per non avere provveduto alla loro pubblicazione (indicando in Togliatti la persona più idonea a realizzarla). In secondo luogo veniva sollevata la questione della mancata liberazione di Gramsci.

Togliatti, “la mano di un traditore” 

La novità fu la denuncia dell’esistenza di qualcuno che avrebbe seguito Antonio Gramsci fin dal momento del suo arresto a Milano nel 1926:

Quasi immediatamente dopo il suo arresto [Gramsci] cominciò a sospettare la presenza di una mano che lo seguiva, la mano di un traditore. Posso raccontarle o scrivere i fatti-comunicano Giulia e Genia a Stalin – che lo indussero ad avere questo sospetto, quando Lei mi permetterà di farlo[19].

Questo “qualcuno”, questo “traditore” nella lettera di Giulia e Genia non ha un nome. In verità ce l’ha, ma le due sorelle non ritengono di doverlo fare. A non esitare è, invece, Giuseppe Vacca. Argomenta senza tema di smentite che si trattava di Palmiro Togliatti[20].

Dal 1930 in avanti le comunicazioni tra Gramsci e il partito furono all’insegna di un inarrestabile tramonto. C’era stata un declino, una sorta di eclisse, dopo il 1930, ma forse si può parlare di un buio al quale non farà seguito la luce di un’alba.

Nel 1934-1937 i sospetti di Gramsci nei confronti di Togliatti si acutizzarono delineando una rottura interpersonale irrimediabile[21]. Al punto che lo stesso presidente della Fondazione Gramsci, Silvio Pons, sostiene che in realtà Gramsci non avrebbe mai manifestato alcuna fiducia nei tentativi, esperiti, dal 1933 in avanti dal PCd’I, per liberarlo.

Sarebbero stati finalizzati a esigenze di immagine, segnali di vita, anche di propaganda, al fine di ovattare discrepanze, anzi, una separazione politica che c’era stata, ma era inopportuno propagare tra i militanti. Erano, dunque, privi di significato, per non dire che rappresentarono un rischio vero e proprio per il successo della stessa causa. Di qui trae origine il cambio di tono, la mera posizione di ascolto, cioè una cauta ma sostanziale ostilità verso il partito e quindi verso lo stesso Togliatti. E anche la conseguenza più grave che Gramsci ne trasse, vale a dire l’investimento fiduciario riposto, invece, nei sovietici.

Non mi pare pensabile che Sraffa e Tatiana Schucht non abbiano informato, anche non ufficialmente o solo per voce, i compagni del Centro estero del partito italiano, la moglie Giulia e la sorella Genia (che erano in contatto, cioè avevano avuto e continuavano ad avere anche rapporti di lavoro, con i servizi di sicurezza e con esponenti del governo sovietico), della volontà di Gramsci di non consentire che altri, oltre a Piero Sraffa e Tatiana Schucht, potessero mettere bocca e mani sulle sue carte.

L’eterodossia di Gramsci

Nessuno di loro ignorava che il maggiore esponente del PCd’I non era un tesoro, una cassetta di sicurezza in tema di ortodossia. In primo luogo perché nel 1926, scrivendo all’Ufficio politico del Pcus, aveva giustapposto la dichiarazione di sostegno degli italiani alla linea di Nikolaj Bucharin e Iosif Stalin alla richiesta appassionata e pressante che essi riconoscessero libertà di pensiero e di critica ai rappresentanti dell’opposizione. Personaggi come Lev Trotzkyj, Grigorij Zinov’ev, Lev Kamenev eccetera, erano stati, ricordò Gramsci, tra i principali veicoli della formazione politica[22] e dell’avvicinamento al comunismo dei giovani della sinistra del Psi[23].

Ma la rottura dell’unità, con le storiche differenze interne al suo nucleo dirigente, del partito bolscevico, che Gramsci intendeva evitare, era già in atto. Trotzkyj era già stato espulso e nessuno degli altri membri del Comitato Centrale morirà nel suo letto.

La lettera del 1926, ricevuta a Mosca da Togliatti, determinò un aspro confronto interno ai leader del partito italiano. Non venne consegnata formalmente al Pcus, ma portata a conoscenza, in forma privata, di Bucharin e da questo allo stesso Stalin

Da quel momento si creò la cosiddetta “linea d’ombra” tra il PCd’I e il Comintern. Ebbe modo di   manifestarsi in diverse occasioni, come prima Paolo Spriano, poi Giuseppe Vacca e, infine, Silvio Pons hanno efficacemente dimostrato.

Nel 1929, con l’accettazione sous reserve della politica del social-fascismo da parte dei membri italiani dell’Esecutivo del Comintern a Mosca, ma con la contestazione e il rifiuto frontale di essa ad opera di Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca e altri.

Nel 1938 con le critiche mosse a Togliatti dai compagni spagnoli, francesi e da Stalin, da Giulia e Genia Schucht e dall’inchiesta di Stella Blagoeva.

Nel 1940 con il commissariamento della leadership e lo scioglimento del Comitato Centrale.

La rievocazione di Togliatti nel 1958 dei dissensi manifestati da Gramsci

La vicenda dei dissensi manifestati da Gramsci (e dai comunisti italiani) fu rievocata da Togliatti nel 1958 con la preoccupazione di trovare una spiegazione al comportamento di Gramsci. Intendeva spogliarlo delle ragioni cruciali che, con lo spirito di scissione, ne aveva fatto derivare.

A farla propria fu anche Piero Sraffa. Nell’intervista resa a Paolo Spriano, per il settimanale Rinascita[24], venne valorizzata fino all’estremo il fatto che a Gramsci mancassero informazioni precise sugli eventi sovietici. Questa spiegazione venne suggerita da Togliatti nella sua relazione al convegno romano di studi su Gramsci nel 1958. Venne usata in funzione del ridimensionamento, di conseguenza, delle basi del dissidio intervenuto a suo tempo.

Analogamente ad impiegarla pari pari sarà Piero Sraffa per far scemare, in qualche misura, il contenuto del messaggio di Gramsci di cui fu messaggero presso il Centro estero, cioè di non dare per scontati e anzi per mettere in dubbio le auto-accuse e le confessioni, per lo più estorte, di delitti contro lo Stato da parte dei leader sovietici nel periodo del Grande Terrore.

Curiosamente il duro mandato trasmesso da Gramsci a Sraffa e a Tania perché Togliatti e il partito venissero tenuti lontani dalla sua eredità letteraria non sembra comparire mai nei documenti sovietici consultati da Pons. Senza tenerne conto, non si riesce a capire il fondamento dell’accusa mossa a Togliatti dal ramo russo della famiglia e dallo stesso Comintern (grazie alle deduzioni tratte dalla responsabile dell’inchiesta sul vicesegretario italiano, Stella Blagoeva) di non avere messo tutta la cura e il tempo necessari per valorizzare i manoscritti di Gramsci redatti nel periodo carcerario.

Sulla loro destinazione, peraltro, era da anni aperto un contenzioso. Alla segreteria del PCd’I, come proponevano Tatiana e Giulia Schucht, o al Comintern (di cui il PCd’I era membro) come proponevano i russi e lo stesso Togliatti?

A spuntarla furono i russi grazie all’intervento di Stalin. Spronò Dimitrov a creare una commissione in cui prevalse la soluzione perorata da Togliatti. Egli stesso fu incaricato di occuparsi della valorizzazione dei manoscritti carcerari, quelli stessi dai quali Gramsci, finché fu in vita, si era preoccupato di tenerlo lontano.

Resta un altro problema sul quale Silvio Pons nell’inevitabile groviglio del suo acutissimo saggio non mi pare si pronunci. Poiché i dirigenti del Pcus imputavano a Gramsci connivenza-complicità con Trotzkyj, che senso aveva accusare ripetutamente Togliatti – come lo storico fiorentino documenta – di non avere favorito la conoscenza e la circolazione nel mondo comunista dei suoi scritti? Non erano pervasi e fuorviati da contatti così altamente tossici quali sarebbero stati, per fare un esempio, l’apprezzamento per alcune posizioni del fondatore e comandante dell’Armata rossa?

Non è neanche realistico prendere sul serio una tale accusa, mossa dal Comintern, anche perché, per la verità, Togliatti, come ho detto, era ormai in disgrazia. Era finito sotto il maglio dei dirigenti comunisti di Spagna e Francia anche per altri errori. Il loro peso nel clima del Grande Terrore equivaleva a mettere a repentaglio la sua stessa vita. 

L’inarrestabile processo di separazione di Gramsci dai suoi compagni comunisti 

Credo sia necessario affrontare l’affaire Gramsci con un’altra ottica.

In fin dei conti dopo la sua condanna nel 1928, e direi da due anni, cioè dal 1926, in seguito alla lettera inviata al Pcus, il dirigente italiano era considerato una figura politica minore, quasi altra rispetto alla leadership, con la quale addirittura non aveva ormai contatti, se non rarissimi ed esterni. Con la posizione, assunta nel 1929, sull’equiparazione tra fascismo e socialdemocrazia, era cominciato un processo di separazione che sarà inarrestabile. È infatti assai significativo che Sraffa non abbia mai avuto il mandato di essere latore di ordini di Gramsci al partito e del partito a Gramsci.

Al centro della vicenda che Silvio Pons sbroglia con mano attenta e sicura, non nascondendo dubbi e anche eventuali smentite che potrebbero provenire da altri futuri fondi archivistici, è piuttosto la china verso il complottismo e le nevropatie cospiratorie di cui il Comintern, negli anni del Grande Terrore, diventerà vittima consenziente. Se al Pcus e al Cremlino si parla di Gramsci, e si è costretti a occuparsene, ciò non sembra dovuto al ruolo politico che aveva avuto e che in apparenza ricopriva ancora, cioè di segretario della sezione italiana del Comintern. Da questo punto di vista egli aveva quasi cessato di esistere

–        perché era detenuto,

–        perché aveva cessato di avere qualsiasi influenza sulla leadership (al punto di non essere neanche informato delle decisioni e di non poterne proporre nessuna),

–        perché era sous reserve per un sospetto mai venuto meno, cioè di avere simpatie trotzkiste.

Non è un caso quanto ha rivelato Tatiana Schucht, cioè che la polizia politica dell’ambasciata sovietica a Roma aveva interferito più volte sulla destinazione della posta e de gli stessi manoscritti (cercando di sottrarli alla famiglia) e, in secondo luogo, che

“sia alla fine del 1936, sia all’inizio del 1937, rappresentanti dell’Nkvd per due mesi proposero a Gramsci di comunicare tutto ciò che sapeva sui trozkisti italiani”.

La risposta di Gramsci fu:

si mettano in moto le buone relazioni con i funzionari italiani nel e sapranno tutto. Gramsci sospettava una nuova provocazione”.

Mi pare significativo il giudizio finale formulato da Pons al termine della sua accurata disamina della documentazione del 1938-1941:

“essa ci permette di vedere molto meglio quanto fossero gravi i sospetti maturati da Gramsci nei confronti del partito, e quanto fossero logori, e anzi compromessi, i rapporti tra Gramsci e la sua famiglia, da una parte, e i comunisti italiani, dall’altra”[25].

Siamo in presenza della conferma dell’ipotesi avanzata da Aldo Natoli, che aveva intuito come “il sospetto di Gramsci si rivolgesse su Togliatti[26].

Invece di “linea d’ombra” (termine coniato da Paolo Spriano e valorizzato estesamente da Giuseppe Vacca) nei rapporti tra Gramsci e il partito, o tra Gramsci e Togliatti, “si era consumata una frattura insanabile”, come scrive Pons. E aggiunge che

“l’identificazione di Togliatti come la persona in cima ai sospetti di Gramsci, da parte della famiglia, si basasse su una fonte indiretta e controversa, ma anche la più autorevole, Piero Sraffa. Tutta la documentazione dell’affare moscovita rimanda alla profondità di una rottura personale tra i due leader del comunismo italiano”[27].

Il che non vuol dire che Gramsci fosse diventato un apostata, ma certamente si era macchiato di qualcosa di più dell’eterodossia. Essa era rilevabile – da occhi obnubilati dallo scontro in corso tra i dirigenti bolscevichi – fin dal 1926.

In realtà egli rappresentava una fonte di grave pericolo per la sicurezza dell’Unione Sovietica in quanto connivente, o complice, o anche intento a subirne il fascino, del maggiore oppositore internazionale di Stalin. Il trotzkismo era diventato, oltreché una setta politica pericolosa, un reato sancito dal diritto penale, da punire con la fucilazione o il carcere a vita[28].

Perché allora il Comintern e poi Stalin (anch’egli investito nel 1940 dalla famiglia russa di Gramsci) dedicano inchieste e incontri diversi in cui compare, pretestuosamente non di rado, il nome del dirigente italiano?  

La risposta può solo venire dal fare riferimento alla realtà, al fatto che gli Schucht (cioè il versante russo della famiglia Gramsci) godevano ancora di rapporti influenti con la moglie di Lenin Nadežda Krupskaja e con l’ex ministro degli affari interni (cioè capo del l’Nkvd, da cui si dimise il 23 novembre 1938), negli anni del Grande Terrore, Nikolaj Ežov, membro – ancora per poco – della segreteria del Vkp(b), l’Ufficio Organizzativo (Orgburo) del Comitato centrale del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico). Potevano contare sulla notorietà della loro famiglia, e non si poteva minimizzare l’appartenenza delle figlie di Apollon alla polizia politica.

In definitiva, il ramo russo della famiglia Gramsci poteva bussare a molte porte, che ancora si aprivano. Senza contare che il nome di Gramsci veniva ad ogni piè sospinto messo in circolo, anzi in primo piano per via delle divisioni interne al gruppo dirigente italiano. Ma – come già ricordato – egli personalmente era ormai un ex leader, non era più in grado di esercitare alcuna influenza.

Il distacco, e la grande diffidenza verso i suoi compagni, è tale da spingerlo, nel 1934-1937, a rivolgersi all’Nkvd perché intervenga sui dirigenti del PCd’I per “fare cessare di fare rumore intorno a lui”. Considera, peraltro, ‘una provocazione’ il fatto che dopo il suo ricovero in clinica a Formia abbiano avviato una corrispondenza, cioè cominciando a scrivergli.

Ugualmente disdicevole è ritenuta la stessa direttiva del PCd’I, riferitagli da Piero Sraffa nel 1935, che egli poteva ormai

“fare ciò che vuole, scrivere dove e a chi vuole”.

La ricerca di una sua possibilità di fuoruscita illegale, mediante un ratto e altra forma di evasione, che il PCd’I gli prospetta nel 1934 e nel 1936 viene percepita come un atteggiamento equivoco.

È evidente che Gramsci ripone ogni speranza e soprattutto fiducia nell’azione degli organi dello Stato sovietici. Il che spiegherebbe anche la lunga incertezza se, con l’ottenimento della libertà, la decisione sul dove risiedere dovesse cadere su Santu Lussurgiu, un paese al Centro della Sardegna, o a Mosca. Sraffa sembra privilegiare, stando alla memoria delle conversazioni avute con lui, l’opzione per il ritorno nell’isola per un breve periodo. 

Silvio Pons non si lascia imprigionare in questa incontrollabile rete psicologica di azioni e reazioni. Fa infatti presente anche il giudizio opposto che Antonio Gramsci dal 1934 formula sulla stessa polizia politica sovietica: il “secondo segretario d’ambasciata con funzioni di console” sovietico a Roma Pavel Dneprov, come Nikolay Krestinskij, Vejnberg, Ioffe, Vizner, membri dell’Nkvd, del Nkid e del Snk.

Malgrado questa fortissima diminutio capitis, la sua risultò essere sino alla fine una presenza ingombrante.

Stalin non intese muovere un passo per liberarlo dal carcere. In seguito e dopo la lettera del 1926 (che ebbe in lettura forse da Bucharin) la cosiddetta “linea d’ombra” nei rapporti tra PCUS e PCd’I non aveva avuto schiarite. Anzi era diventata qualcosa di molto diverso e più pesante, una sorta di guerra su piani e protagonisti diversi.

Nel 1938 e poi del 1941, Dimitrj Manuilskij e Georgi Dimitrov rafforzarono i loro sospetti sull’inaffidabilità del partito italiano. I suoi leader, seppure cautamente, continuavano a mobilitarsi e fare pressioni per rimettere in libertà uno dei fondatori del partito che non aveva mai abiurato alle sue posizioni non ortodosse.

Conclusione

La ricostruzione che finora ho fatto, sulla base prevalentemente degli apporti documentali e analitici di Silvio Pons e Giuseppe Vacca, rivela un contenzioso all’arma bianca, una feroce, crudele lotta di leader per la sopravvivenza. Manca di un retroterra teorico, come se Gramsci e Sraffa da un certo anno in poi non avessero più avuto nulla da dirsi[29].

C’era stata nel 1929 la prima grande crisi dell’età contemporanea del capitalismo. Con l’estendersi da Wall Street al mondo intero sembrava avere adunato in un colpo solo le ragioni che da Marx in avanti avevano animato i protagonisti politici e gli intellettuali nel preannunciarne la fine.

Dal fondo di un carcere Gramsci riesce a cogliere l’epocale cambiamento che sta avvenendo[30]. C’è un ruolo nuovo dello Stato che da Washington a Mosca investe il vecchio mercato e modifica le forme della politica.

Gramsci coglie molto bene che occorre fare i conti con l’americanismo e con la virata verso il totalitarismo delle repliche alla crisi innescata dalla caduta dei titoli azionari nella Borsa degli Stati Uniti. Esso non coincide per nulla con le coercizioni e le violenze del neo-bonapartismo dominante nel paese del “socialismo reale” né con i meccanismi e le procedure del dominio ad opera del nuovo padronato. Ha, invece, a che fare con l’assunzione da parte dello Stato, negli Stati Uniti d’America come nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di funzioni collettive, totalizzanti in sostituzione di quelle che fino ad allora erano state iniziative private in un mercato lasciato a sé stesso[31].

La riflessione di Sraffa sembra limitarsi a un esercizio supplementare nella resa dei conti col marginalismo. È del 1932 il suo saggio su The Economic Journal in cui sferra un attacco rimasto memorabile all’esponente della scuola viennese Friedrich von Hayek[32].

Ma ancora nel 1960, nel sottotitolo della sua opera maggiore Produzione di merci a mezzo di merci[33], dichiara che si tratta di Premesse a una critica della teoria economica del marginalismo:

«È carattere particolare della serie di proposizioni che vengono ora pubblicate che esse, per quanto non si addentrino nell’esame della teoria marginale del valore e della distribuzione, sono state tuttavia concepite così da poter servire di base per una critica di quella teoria. Se la base terrà, la critica potrà essere tentata più tardi, o dall’autore o da qualcuno più giovane e meglio attrezzato per l’impresa».

Nessun interesse hanno stimolato in lui – e per la verità neanche in Gramsci che resta inestricabilmente avvinto alle speranze aurorali del comunismo – l’apparire nella saggistica e negli esperimenti politici dei Fronti popolari di una cultura nuova come il socialismo liberale e il liberal-socialismo. Non avvertirà la presenza nella redazione della casa editrice di Giulio Einaudi, di cui Piero Sraffa fu collaboratore dal 1947 in avanti, di uno storico come Franco Venturi né di un autore come Carlo Rosselli, suo compagno di giochi e di studi a Milano nei primi anni Venti. 


[1] Si vedano in primo luogo la stessa formulazione della domanda 6 da parte di Angelo D’Orsi “Quale è stato il ruolo di Piero Sraffa? Plausibile il sospetto che fosse un agente coperto del Comintern” nel volume da lui curato Inchiesta su Gramsci. Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità? Torino, Accademia University Press, 2014, 256 p. L’opzione degli intervistati propende in maggioranza, a considerarlo un “agente coperto”, con l’eccezione di Giancarlo Lehner e Massimo Montanari. Ricordo che un economista come Francesco Forte non aveva incertezze nel definirlo un agente del Cominform.

[2] Si veda l’intervista rilasciata nel 29 giugno 2023 ad Andrea Riccardi per la rivista Mentinfuga dal direttore della Fondazione Gramsci di Roma, Francesco Giasi, “Gramsci tra passato e presente”.

[3] Si veda la rassegna Studi e interpretazioni di Gramsci, Critica Marxista, maggio -giugno 1966, pp. 151.181. Ne seguì un’aspra replica di Giorgio Amendola (Rileggendo Gramsci, Quaderni n. 3 di Critica Marxista 1967, pp. 3-45), in cui il nome di Paggi venne omesso. Il reprobo non compare mai, resta innominato. 

[4] Il testo è rinvenibile in Luciano Canfora, Togliatti e i dilemmi della politica, Roma-Bari, Laterza, 1939, pp. 143-146 e più di recente in Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, Torino, Einaudi, 2014, XXIV-400 p. [si vedano le pp. 56-57].

[5] Cfr. il saggio di Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio, 2013, 256 p.

[6] Sulla sua biografia si veda il saggio di Michele Pistillo, Vita di Ruggero Grieco. Roma, Editori Riuniti, 1985, 226 p.

[7] Cf.  William. J. Chase, Enemies within the Gates? The Comintern and the Stalinist Repression, 1934-1939, New Haven – London, Yale University Press, 2001, 514 p.

[8] Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori Riuniti, 1977, 166 p.

[9] Rimando alla narrazione che ne ha proposto in un affresco di grande sintesi e ricchezza di proposte interpretative, rompendo con una lunga tradizione di silenzi e reticenze, Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, op. cit. alla nota 4.

[10]Si veda la ricostruzione di Leonardo Pompeo D’Alessandro, Giustizia fascista. Storia del Tribunale speciale (1926-1943), Bologna, Il Mulino, 2020, 288 p.

[11]Si vedano i saggi di Claudio Natoli, “Le campagne per la liberazione di Gramsci, il Pcd’I e l’Internazionale (1934)”, Studi Storici, XL (1) gennaio-marzo 1999, pp. 77-156; di Nerio Naldi, “La liberazione condizionale di Gramsci”, Studi Storici, LIV, (2), aprile-giugno 2013, pp. 379-392; e quello più recente, coraggioso e assai documentato di Giorgio Fabre, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, Palermo, Sellerio, 2015, 536 p. Lo colloca nella sua corretta prospettiva e importanza storica uno studioso come Adriano Prosperi, “Quando Gramsci non fu liberato. Storia politica di un fallimento”, La Repubblica, 2 ottobre 2015

[12]Nerio Naldi, “Le lettere di Gramsci che Sraffa non consegnò al Centro estero del Partito comunista”, Critica marxista, XXIX (1), gennaio-marzo 2019, pp. 45-50.

[13] Giuseppe Vacca, Appuntamenti con Gramsci. Introduzione allo studio dei Quaderni del carcere, Roma, Carocci, 1999, 256 p.

[14] Silvio Pons, “L’affare Gramsci-Togliatti’ a Mosca (1938-1941)”, Studi storici, XVL (1), pp. 83-117.

[15] Insieme al saggio di Pons prima citato, si veda la narrazione critica di Mauro Canali Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, op. cit. alla nota 5.

[16] Fu uno dei più tenaci e indocili fustigatori dei comunisti italiani. Si veda Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Volume III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1977, XII-362 p. [si veda la p. 261]. Vedi anche Giuseppe Vacca, Appuntamenti con Gramsci. Introduzione allo studio dei Quaderni del carcere, op. cit., alla nota 13, pp. 101-102.

[17] Cfr. Aldo Agosti, Togliatti, Torino, Utet, 1995, 656 p. [si veda in particolare le pp. 109-110]. 

[18] Si veda, dopo la prima coraggiosissima edizione a cura di Angelo Tasca, la recente rivisitazione di Antonella Salomoni, Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, Bologna, il Mulino, 2022, 280 p.

[19]Il testo della lettera è stato rinvenuto negli archivi del Comintern a Mosca nel 2003 da Silvio Pons. Ed è sato pubblicato in appendice al volume di Antonio Gramsci jr, I miei nonni nella rivoluzione, Edizioni Riformiste, Roma 2010, 222 p. [si vedano le pp. 164-167].

[20] Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, op. cit. alla nota 4, p. 389-390.

[21] La pubblicazione, a cura di Nerio Naldi e Emanuela Lattanzi per i tipi dell’Enciclopedia Italiana dell’Epistolario di tale periodo conferma un clima di perduranti incomprensioni e di immutata incomunicabilità.

[22] Cfr. Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di Chiara Daniele, con un saggio di Giuseppe Vacca, Torino Einaudi, 1999, XLIX-503 p. il documento 42 Ufficio politico del PCd’I al Comitato centrale del Partito comunista russo, [14 ottobre 1926], si trova alla p. 404. La migliore ricostruzione è quella di Elena Dundovich, Tra esilio e castigo. Il Komintern, il PCI e la repressione degli antifascisti italiani in Urss, 1936-1938, Roma, Carocci, 1998, 240 p.

[23]Si vedano i saggi di: Leonardo Pompeo D’Alessandro, “La rivoluzione russa in tempo reale. Il 1917 nel socialismo italiano tra rappresentazione, mito e realtà”, in Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso, Torino, Academia University Press, 2017, 352 p. [pp. 3-26], Gabriella Donati Torricelli, “La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18″, Studi Storici, VIII (4), ottobre-dicembre 1967, pp. 727-765 e Giovanna Savant, “La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18″, Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, VIII (32), ottobre-dicembre 2017. L’articolo è consultabile online:  https://journals.openedition.org/diacronie/6619.

[24] Paolo Spriano, Gli ultimi anni di Gramsci in un colloquio con Piero Sraffa”, Rinascita, XXIV (15), 14 aprile 1967, pp. 14-16.

[25] Silvio Pons, “L’affare Gramsci-Togliatti’ a Mosca (1938-1941)”, Studi Storici, loc. cit alla nota 14, p. 32. 

[26]Aldo Natoli, “Antigone e il prigioniero”,introduzione a Antonio Gramsci, Tatiana Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele, Torino, Einaudi, 1997, CV-1532 p. [si veda la p. XXXIV].

[27] Silvio Pons, “L’affare Gramsci-Togliatti’ a Mosca (1938-1941)”, Studi Storici, loc. cit alla nota 14, p. 33.

[28] Si vedano notizie e documenti in Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, op. cit. alla nota 8 e in  Elena Dundovich Tra esilio e castigo. Il Comintern, il Pci e la repressione degli antifascisti italiani in Unione sovietica 1936-1938, op.cit. alla nota 22

[29]È l’ipotesi sostenuta con ricchezza di argomenti da Giuliano Guzzone nel suo saggio, Gramsci e la crisi dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma della «traducibilità», Roma, Viella, 2018, 305 p.  

[30] Jean-Pierre Potier, “Gramsci, la crisi degli anni Trenta e la scienza economica”, in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, Pavia, Ibis, 2021, pp.219-242.

[31] Tanto decisive quanto ampiamente ignorate sul punto sono le precisazioni di Fabio Frosini nel saggio, “La politica totalitaria e la crisi dello Stato”, in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, op. cit. alla nota 30, pp, 243-270.

[32]Piero Sraffa, “Dr Hayek on Money and Capital”, The Economic  Journal, XL (2), marzo 1932, pp.42-53.

[33]Piero Sraffa, Production of Commodities by means of Commodities. Prelude to a Critique of Economic Theory, Cambridge, Cambridge University Press,1960, VII-95 p. Edizione italiana curate dall’autore: Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, Torino, Giulio Einaudi, 1960, 127 p.