Futuri

Democrazia Futura. Dall’operaismo sociale un contributo per una sinistra del mulino digitale

di Michele Mezza, docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli |

Come aggiornare il patrimonio culturale guardando oltre Giorgio Napolitano e Mario Tronti. Di Michele Mezza.

Michele Mezza
Michele Mezza

Prendendo spunto da un lato dai risultati delle recenti elezioni spagnole, dall’altro dalla scomparsa di due figure apicali nella storia della sinistra comunista come Giorgio Napolitano e Mario Tronti, Michele Mezza propone una riflessione su “Come aggiornare il patrimonio culturale della sinistra di fronte alle trasformazioni in atto nella società in un lungo articolo per Democrazia futura “Dall’operaismo sociale un contributo per una sinistra del mulino digitale”. Mezza, a conclusione dell’articolo aderisce alle tesi del cosiddetto ‘accelerazionismo tecnologico’ “che contesta al capitale – scrive Mezza – la guida naturale dei processi informatici. Un filone che idealmente riprende la linea di pensiero di Quaderni Rossi integrandola con una rielaborazione delle esperienze digitali che, proprio alla luce della tendenza ad un ulteriore decentramento dell’uso di potenze di calcolo che l’intelligenza artificiale sta proponendo, permette, come dicono gli esponenti di quella scuola di pensiero, di ‘Innovare l’innovazione’ […] Una visione che può sembrare eccentrica – aggiunge lo studioso nolano – per chi ancora pensa che da questo processo di automatizzazione dobbiamo difenderci rallentandolo, ma che diventa l’unica via di uscita in una fase storica in cui proprio i rapporti di produzione ci portano a contendere al capitale la sua esclusiva sovranità sulla conduzione della riformulazione di tutte le relazioni sociali mediante appunto la mediazione digitale. Questa forma di orientamento del pensiero – conclude Mezza – è diventata oggi la modalità dominante nel configurare le attività in ogni campo delle relazioni umane. Ed è per questo che diventa discriminante per qualsiasi proposta politica che abbia l’ambizione di proporsi come alternativa, se non proprio antagonistica, al modello capitalistico, di comprenderne la struttura e praticarne il controllo”.

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Il presente è perseguitato dalle rovine del passato, scriveva Walter Benjamin parlando della filosofia di Theodor Wiesengrund Adorno nella sua Opera incompiuta I “Passages” di Parigi. Una visione che si attaglia perfettamente all’attuale dibattito a sinistra, ancora schiacciato su quelle che Zygmunt Baumann ha chiamato Retrotopia, ossia un culto del passato indotto dall’incapacità di comprendere il presente.

La scomparsa di due componenti del Pantheon della tradizione progressista, apparentemente cosi distanti fra loro, come il presidente emerito, nonché nume tutelare della componente migliorista della storia comunista italiana Giorgio Napolitano, e Mario Tronti, fondatore e maestro di quell’operaismo politico che carsicamente ha attraversato mezzo secolo di contorsioni  ideologiche del movimento del lavoro, hanno offerto l’occasione per riprendere in chiave non nostalgica una rivisitazione di temi e svolte politiche che sono all’origine di quel rischio di estinzione che vive oggi proprio il campo culturale dei due scomparsi. Un elemento che ci permette poi di agganciarci anche alla più stretta attualità, sono le recenti elezioni spagnole che rendono più evidente l’insufficienza dei luoghi comuni sui limiti della sinistra.

Ragionando su questi aspetti potremmo forse avvicinarsi ad uno scenario in cui individuare e provare senza scrupolo a inquadrare quanto è ancora vivo delle culture di sinistra i e facendo però un inventario di quanto sia irrimediabilmente morto.

La lezione che hanno tratto le sinistre ‘accelerazioniste’ in Spagna

Dico subito che il voto spagnolo mi sembra una indiscutibile dimostrazione di come oggi, nel gorgo di una modernità che pare costantemente escluderla dal campo governativo, costringa appunto la sinistra a ripensarsi nella sua struttura e, soprattutto, nella sua capacità di rappresentanza e radicamento sociale.

A scanso di equivoci, premetto che non penso minimamente ad un ritorno, messianicamente sollecitato da più parti, a pratiche ed esperienze “più popolari” dei partiti che nascono, e rischiano di morire, come espressione tradizionale del movimento del lavoro.

Invece vedo come unica possibilità di ripresa del protagonismo politico di quel mondo un cambio copernicano della base sociale e di quel corredo di esperienze organizzative che ha contraddistinto la storia delle realtà di matrice operaia per poter arrivare ad un’adeguata proposta politica e culturale capace concretamente di proporsi come alternativa al modello tecno finanziario imposto dal mercato.

Una trasformazione genetica di riferimenti e rappresentanze, che porti ad una motivata e consapevole immersione nei nuovi ceti professionali e tecnologici.

Una proiezione in queste aree dei nuovi produttori di valore e di senso, due termini che si sovrappongono e coincidono nell’economia immateriale, che, proprio sulla base di quanto è accaduto in Spagna, diventa possibile articolando e diversificando l’offerta politica a sinistra, con una valorizzazione nel conflitto digitale di componenti più radicali nella contesa sulla programmazione e gestione dei modelli di calcolo.

Su questo aspetto proverò a ragionare, cioè sul fatto di come una sinistra cosiddetta accelerazionista, che avremo meglio modo di definire più avanti, possa contrapporsi al dominio proprietario dei sistemi digitali che tendono a rimuovere ogni attrito sociale, più di chi invece si trincera in una diffidenza nostalgica e in una velleità di partiti di opinione indifferenziata.

Inizio osservando come, a Madrid ma anche nel resto d’Europa a cominciare dal nostro paese, sia tramontata ormai ogni ambizione di partito della nazione o di vocazione maggioritaria della componente moderata della sinistra, il PSOE in Spagna il PD in Italia, ma anche la SPD in Germania e perfino a quanto sembra i laburisti in Inghilterra, che si deve atteggiare, proprio per la necessità di completarsi con realtà più radicali, a rappresentare una parte della società, e non più indistintamente il suo insieme.

La parzialità e combinazione di rappresentanze socialmente identificatemi appare come conseguenza di una collocazione in un sistema economico e culturale che scompone le funzioni sociali, uniformandone i comportamenti, mediante un dominio ideologico di quella che la Scuola di Francoforte aveva chiamato “l’industria culturale” ed oggi è l’infosfera digitale.

Il tratto distintivo di questa rinnovata realtà politica, a me pare proprio il livello di rappresentatività sociale, meglio ancora territoriale, che ha contraddistinto la dinamica della sinistra spagnola a cui credo sia utile guardare con attenzione.

Marciare divisi per colpire uniti

Il voto iberico mostra l’efficacia di una strategia che riecheggia lo slogan militaresco, ripreso poi da Mao: marciare divisi e colpire uniti.

Infatti decisivo è risultato, nella  resistenza ad una chiara deriva conservatrice in atto, sia la composizione e distribuzione dei bacini elettorali dei due principali partiti – i socialisti al governo più radicalizzati rispetto al ruolo amministrativo, e l’alleanza di Sumar, che recupera le esperienze di matrice movimentista e comunista, fortemente identificata da un’origine locale, diciamo pure di regionalismo per usare un termine più italiano- sia l’affermarsi di una identità sociale degli stessi gruppi dirigenti, che appaiono fortemente segnati da caratteristiche territoriali se non addirittura etniche.

E’ stato proprio una domanda di diversità e specifica rappresentanza ad aver premiato le diversificate sinistre spagnole. Soprattutto nella ancora potentemente attraversate da ansie di indipendentismo, come appunto la Catalogna e i Baschi. In questi territori surriscaldati da decenni di movimentismo autonomistico proprio la necessità di radicarsi nelle diverse nicchie locali per competere con i gruppi indipendentisti nella rappresentanza molecolare di ceti e gruppi sociali a spinto le diverse sinistra ad assumere direttamente la guida di rivendicazioni e interessi nelle metropoli. Una scelta che ha permesso a queste formazioni di resistere e persino rilanciarsi nella sfida con le forze conservatrici.

L’aspro confronto fra istituzioni centrali ed indipendentismo, che è arrivato a fasi non marginali di lotta frontale, in alcuni casi come ricordiamo addirittura armata, ha costretto socialisti e le diverse anime radicali ad immergersi nei territori contesi guadagnandosi il mandato e la partecipazione di larghi strati della popolazione.

In particolare nelle città la contrapposizione con Podemos ha costretto proprio le formazioni della sinistra meno governativa a cercare linguaggi e temi che potessero parlare direttamente a ceti professionali e tecnici che avevano manifestato chiaramente il loro disagio con il voto appunto a Podemos.

Contrastare le Guerre ibride comunicative nella nuova economia digitale

Riflesso di questa nuova adesione a sinistra dei ceti metropolitani, o comunque di componenti che si stavano perdendo, favorendo lo scarrocciamento a destra anche di città come Madrid e Siviglia, è la capacità emersa di contrastare, nelle strettoie immateriali della nuova economia digitale, le immancabili scorrerie di cosiddetta guerra ibrida.

Parliamo di quel gorgo comunicativo, in cui centri di pianificazione di guerriglia comunicativa, attraverso l’accondiscendenza delle grandi piattaforme, scompongono e profilano milioni di persone, per poi raggiungerle con canali capillari di sovversione ideologica, che la destra riesce ad indirizzare in maniera più lineare sulla cresta del populismo aggressivo. Si tratta di fenomeni che stanno alterando significativamente l’equilibrio istituzionale, permettendo a forze elitarie di interferire e alterare il senso comune di intere comunità nazionali.

Anche su questo punto, l’esperienza spagnola ci offre esempi utili e concreti per vaccinare una comunità dal contagio di Cambrige Analytica, termine che identifica ormai il sistema che ha influenzato l’elezione di Donald Trump alle presidenziali americane del 2016, con una massiccia campagna di conquista e suggestione dell’elettorato degli stati più contendibili.

Quell’esempio è stato un manifesto per la sobillazione populista che si è ripetuta in Francia e anche nel nostro paese nelle elezioni del 2018, dove si saldò l’alleanza fra populismo di destra e di sinistra, come spiegò uno degli architetti della mobilitazione informativa, Steve Bannon.

In Spagna abbiamo visto invece come proprio il radicamento territoriale delle formazioni più immerse nel territorio, o delle componenti più di richiamo per i ceti delle culture comunicative delle grandi città, come si è rivelata l’alleanza Sumar, hanno potuto contrastare la campagna di terrorismo comunicativo che la destra spagnola aveva imbastito, riproducendo appunto lo schema di Cambridge Analytica.

Una nuova idea di sinistra conseguenza della nuova società digitale

In sostanza mi pare di poter dire che in Spagna la sinistra ha tenuto perché si è esteso il fronte politico, allargando a sinistra e non al centro lo spettro delle alleanze, ed estendendo così la capacità di rappresentanza sociale e territoriale, proprio in virtù di una maggiore articolazione organizzativa e relazione con consistenti aree sociali e territoriali, e non di un’artificiosa centralizzazione.

Questa lunga premessa sul voto spagnolo ci aiuta a mettere a fuoco un nodo che da tempo rimane sotto pelle, ossia quale debba essere oggi il riferimento sociale di una sinistra che si pone l’obbiettivo di una trasformazione delle relazioni sociali e quello geo politico a livello nazionale ed internazionale.

Meglio ancora, sull’abbrivio delle celebrazioni delle biografie di Giorgio Napolitano e Mario Tronti, mi pongo come tema da affrontare ineludibilmente il dato di quali ispirazioni e finalità debba avere un partito che abbia ambizioni di governo e che si contrapponga ad una destra oscurantista e totalitaria nella nuova società liquida, in cui ridisegnare strategie e ingegnerie organizzative che possano catturare bisogni ed interessi del tutto inediti rispetto alla tradizione di pace e lavoro.

Diciamo sinteticamente una nuova idea di sinistra che sia conseguenza di una nuova idea di società dove il lavoro sia sostituito come matrice dal sapere e dalle sue applicazioni tecnologiche.

Fra autonomia del politico e potenza della rappresentanza sociale: la stagione dell’operaismo macchinistico dei Quaderni Rossi

Un tema che ci riporta, tornando in Italia, alle cause di un naufragio che vede da decenni la sinistra radicale sempre più ridotta ai minimi termini, e  dove il vertice del Partito Democratico continua, fra mille contorsioni e disagi che si scaricano ed esauriscono nella ormai tradizionale cerimonia degli addii del segretario di turno, a limitarsi a pura testimonianza, sempre con un’aura “nuovista” per esercitare funzioni di bandiera, sia quando è stato al governo sia oggi quando è chiamato a  gestire un’opposizione alla maggioranza di destra di Giorgia Meloni.

Le biografie di Giorgio Napolitano e Mario Tronti, nella loro convergenza di merito sulla scorciatoia politicista per reagire ad una complessità sociale che sfugge a schemi ed accademie ci portano ad un dibattito che incombe da decenni fra autonomia del politico e potenza della rappresentanza sociale.

Un dualismo mai affrontato esplicitamente se non in lontani tornei retorici nelle ovattate stanze del PCI degli anni Sessanta ci porta ad uno snodo rimasto impolverato negli anfratti delle scorie dell’egemonismo di Botteghe Oscure.

Mi riferisco a quella stagione dell’operaismo macchinistico italiano, che con Quaderni Rossi, siamo nel 1962, l’anno topico della mancata modernizzazione italiana, sia industriale che politica. Quel gruppo di intellettuali di matrice socialista che aggregò i primi irregolari comunisti guidati da un profetico Raniero Panzieri riuscì a guardare nella pancia delle trasformazioni del capitalismo atlantico, in una sorta di aggiornamento della lettura di Americanismo e fordismo di Antonio Gramsci.

Un lavoro  con strumenti del tutto inediti, aborriti dalla tradizione politicista del tempo, come la sociologia e l’inchiesta territoriale di Romano Alquati, riuscendo a forgiare segmenti di una cultura autonoma  che si confrontasse alla pari con il neocapitalismo del suo tempo sui processi di innovazione della fabbrica, e che poi riuscì, con la intuizioni sulla fabbrica sociale e il rifiuto del lavoro dipendente come nuovo luogo del conflitto  post fordista, a cogliere profeticamente l’evoluzione del macchinismo produttivo in automatizzazione dei comportamenti e dei desideri, prefigurando quella che sarebbe divenuta due decenni dopo la  smaterializzazione   delle attività della nostra vita.

So bene che sto riesumando un corpo del reato, perché queste elaborazioni furono inquinate e forzate da deliranti derive insurrezionaliste e pratiche di violenza diffusa. Ma separare il grano dal loglio è un precetto evangelico che oggi, dopo tanti anni, potremmo fare senza il rischio di trovarci contigui ad un terrorismo.

Quelle esperienze, svilite e criminalizzate da insulse e velleitarie ambizioni guerrigliere dei teorici che le avevano elaborate, tenacemente riemergono, sempre ammantate da odori sulfurei e luci luciferine, come è capitato dopo la scomparsa di Mario Tronti, nel lungo flusso di rievocazioni e discussioni circa la valutazione della sua testimonianza nella storia della sinistra italiana, a partire proprio sul contributo, che in più di mezzo secolo il grande filosofo della politica ci ha regalato.

Un dibattito purtroppo poi spentosi per mancanza di interpreti.

Sorprendentemente ritroviamo in questo ambiente del tutto irriducibile alla sua figura proprio Giorgio Napolitano in uno dei momenti di massima sintesi fra il teorico e il dirigente politico che imprime un colpo di barra al suo partito.

La fatal Padova

Siamo nell’anno più drammaticamente decisivo dell’ultimo scorcio dello scorso secolo il mitico 1977. Un anno fatidico, in cui inizia a sbriciolarsi l’intero insediamento sociale del partito uscito trionfante dalle elezioni appena un anno prima, con l’austerità di Berlinguer che tenta di contenere l’assedio da parte di figure sociali sconosciute, che logorano la rappresentatività comunista, da una parte, e i ceti proprietari che premono per una politica di sacrifici, dall’altra, che possa finanziare la ripresa economica senza scalfire i profitti.

Ed è anche l’anno della cacciata di Lama dall’università a opera di un movimento fortemente infiltrato da aree della sovversione armata, che pensa di poter minacciare i partiti di massa, mentre, sul versante culturale, si affacciano le prime teorie che annunciano una sostituzione della materialità manifatturiera con una nuova economia ancora indecifrabile e impalpabile, dove desideri e immaginario sostituiscono bisogni e identità.

Ce ne sarebbe d’avanzo per capire che è la società, e non la politica, il luogo dove ricostruire analisi e legami, dando nuova forma a un partito che invece assomiglia troppo a un mondo che sta tramontando. Al contrario, lo sbandamento di quel tempo viene usato per rinserrarsi nella cittadella delle istituzioni, rafforzando la separazione fra decisione e rappresentanza. Napolitano, per irrobustire questa linea, compie una nuova acrobazia fra destra e sinistra e coopta il filone più politicista degli operaisti, i quali – sconsolati per l’inconcludenza del miraggio della centralità di una “razza rude e pagana” destinata a conquistare il mondo, e che invece affonda nella cassa integrazione – hanno un rigurgito neo-leninista e scelgono appunto l’autonomia del politico, riverniciando a sinistra una teoria nata a destra, dai filosofi del conservatorismo tedesco, e che in Italia arriva dalle letture di Carl Schmitt attraverso un sulfureo Gianfranco Miglio, che sarà poi un mallevadore della Lega prima maniera.

L’incontro di Napolitano con gli operaisti pentiti e la convergenza fra il diavolo (i “cattivi maestri”) e l’acqua santa (migliorista, non antagonista)

Ma torniamo all’incontro con gli operaisti pentiti nelle vie nebbiose e affumicate dai lacrimogeni di una Padova assediata dal teppismo intimidatorio dell’autonomia operaia che mostrava cosa fosse la seconda società di cui i sociologi parlavano allora.

E’ proprio il futuro compito e anglofono presidente confermato Giorgio Napolitano,  leader  allora della destra del partito , e come tale  designato dalla segreteria  a dare il benvenuto ad una schiera di prestigiosi intellettuali – da Mario Tronti a Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa e Aris Accornero – che scelgono di organizzare un convegno proprio nella città messa a ferro e fuoco dalle scorrerie dell’altro filone operaista, quello dell’economia dei desideri e dell’operaio sociale, che si rivelerà il più vicino all’evoluzione tecnologica futura, orientato da quel Toni Negri che verrà poi arrestato due anni dopo dal giudice Pietro Calogero, nel famoso processo sull’inchiesta del 7 aprile 1979,  o magari anche in onore dei passati giovanili del loro interlocutore comunista, che nella città completò il liceo nell’ultimo anno della guerra.

Il punto di convergenza fra il diavolo (i cattivi maestri dell’estremismo sindacale come solo qualche mese prima li aveva definiti l’Unità) e l’acqua santa (l’esponente più deciso a scolorare l’identità antagonistica che ancora aveva il PCI) è lo sganciamento da ogni richiamo e ubbia sociale, in polemica fontale con l’allora egemone concezione del sindacato come soggetto politico.  Marciare divisi ma colpire uniti: la strategia di subordinazione di ogni movimento alla decisione politica gli viene confezionata e ratificata proprio dai professori operaisti che tagliano il nodo gordiano del rapporto fabbrica-società, attribuendo allo Stato un’imprevista “autonomia” rispetto alla società.

Per questo diavolo e acqua santa all’unisono chiedono di rivalutare l’azione politica rispetto a quella rivendicativa e di riguadagnare il terreno dello Stato dove il “partito operaio” (anch’esso “relativamente” autonomo rispetto alla classe di riferimento) poteva sancire a livello istituzionale le conquiste delle lotte di fabbrica. Una svolta che segnerà tutta la storia finale del PCI, stringendo progressivamente Enrico Berlinguer nell’angolo di un’alternativa che aveva sbocco solo con un’intesa parlamentare con il PSI di Bettino Craxi.

Sulla scia di quell’incontro si stabilizza la strategia di un progressivo distanziamento fra ambito politico e processo sociale. Proprio nel momento in cui era la società che stava partorendo un nuovo mondo, in cui l’automatizzazione della e prima e del pensiero dopo avrebbe riclassificato ogni traccia di politica senza rappresentanza e reso impensabile una rappresentanza senza conflitto.

Le due visioni della relazione fra strategia politica e rappresentanza sociale di Mario Tronti e Toni Negri

Per rendere non inutilmente ideologico o troppo cifrato il confronto, si tratta di concentrarci attorno a due visioni della relazione fra strategia politica e rappresentanza sociale che vengono simboleggiate da due personalità, tutte iscritte nel filone dell’operaismo italiano degli anni Sessanta: appunto l’asse che per semplificazione definisco Napolitano/o Tronti e la nebulosa simboleggiata dalla figura di Toni Negri.

Il primo nucleo teorico che coglie certo con una lucidità esclusiva il ruolo del sistema manifatturiero come radice antropologica, prima ancora che politica, e reagisce al disfacimento di quella potente infrastruttura rifugiandosi in una artificiosa centralità della direzione politica come palliativo alla vedovanza dell’operaio massa, il secondo invece che, al netto delle ossessioni militaresche, coglie un’evoluzione molecolare degli interpreti del conflitto sociale nella transizione fra lavoro e sapere, assumendo come bussola propria l’aderenza alle necessità e bisogni delle nuove figure che il capitale cognitivo produce.

La visione su cui convergono Napolitano e Tronti costeggerà, come sappiamo, la sinistra tradizionale in nome di un moderno Principe che ripari il vulnus del disfacimento del soggetto storico, quella classe operaia a cui fideisticamente era affidato ogni speranza.

Il secondo approccio dove convergono le suggestioni dei francofortesi e le nuove elaborazioni dello strutturalismo francese di Gilles Deleuze e Félix Guattarì insieme alla straordinaria spallata teorica di Michel Foucault, che invece constata come la transizione del capitalismo della sorveglianza, diremmo oggi con Shoshana Zuboff, ci propone  un luogo inedito di presidio e resistenza che è appunto il comunitarismo e la interattività sociale che i centri tecnologici non possono aggirare, e dove sogni e desideri sono il terreno di scontro.

Sinteticamente potremmo dire, stressando inevitabilmente concetti complessi in uno slogan che racchiude la parabola marxista dei due interpreti: da Il Capitale ai Grundrisse. Geopoliticamente. Dall’Italia alla Spagna.

Un dualismo che dalle galassie ideologiche e libresche diventa immediatamente concreto, irrompendo sulla scena elettorale, e mutando equilibri e tendenze globali.

Proprio l’autore di Operai e capitale, nella sua apparente marginalità fu il maestro di una lettura marxista di Nicolò Machiavelli come matrice di una visione politica competitiva, non distante dalla concezione togliattiana, in cui, come scrisse proprio Mario Tronti nella sua principale opera

“è la direzione politica che determina la forma della lotta di classe e non viceversa”.

A ben vedere questa logica è la vera matrice della deriva illuminista ed autoritaria del cosiddetto socialismo realizzato. Una percezione che rende indispensabile – come alibi morale e supporto di consenso – il protagonismo del ceto manifatturiero, la “rude classe pagana degli operai” come scriveva Tronti, che il Principe maneggia e manipola per contrapporsi alla potenza avversaria della proprietà. Senza questa base sociale geneticamente disposta ad una disciplina politica mutuata dalla fabbrica nulla più si tiene e arriva il pessimismo cosmico trontiano: nulla salus extra ecclesiam.

Invece il filone della cosiddetta fabbrica sociale, che Negri  orientò con le sue opere, fra cui la trilogia Imperium, da cui dobbiamo sempre strappare le ultime cinquanta pagine di predicazione maniacale di una violenza puramente totemica nella sua funzione di approdo salvifico per l’autore, ci fornisce strumenti più attuali per negoziare i processi di automatizzazione informatica, che rendono il destino delle persone, a cominciare dai settori professionali anche più alti e privilegiati “materia di manipolazione e asservimento”.

Il luogo dello scontro scrive Negri insieme a Michel Hardt nel suo Commonwealth[1]

“è proprio la macchina algoritmica che diventa motore di comunità antagonistica alla proprietà”.

Partire da questo dualismo e assumere la contrapposizione con la proprietà, e non con un generico destino delle macchine, significa dare forma ad una nuova teoria socialista che possa governare, come scriveva Marx nei Grundrisse

la dinamica conflittuale sapere/potere che occupa un posto centrale nella spiegazione della tendenza all’aumento della composizione organica e tecnica del capitale.

E ancora 

In tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza a tutte le altre, come del resto anche i suoi rapporti assegnano rango ed influenza a tutti gli altri[2].

L’algoritmo[3] è una produzione – di senso, di valore, di linguaggio – che assegna rango e influenza a tutte le altre, a cominciare dalla lotta politica. Nessuna lacrima per l’assenza della classe rude e pagana ma grande ambizione a parlare ai nuovi produttori.

Cosa pretendere di più da un testo del 1858? Con un gramsciano pessimismo della ragione ma recuperando un antico ottimismo della volontà oggi ci appaiono spazi e opportunità oggettive per classificare domande di presenza e di rappresentanza politica deluse. Certo bisogna avere il coraggio di navigare in mare aperto, riconoscendo la diversa valenza che le aree sociali stanno assumendo

Bisogna avere il coraggio di chiudere ogni nostalgico ritorno all’eden berlingueriano.

Quella stagione deve la sua ricchezza e valore all’essere figlia esclusiva e datata di un tempo che si è del tutto esaurito. Niente di quella esperienza ci può parlare se non l’audacia con cui, allora, si cercò di forzare apparenze e tradizioni, rompendo compatibilità e continuismi.

Certo Il compromesso storico era comunque figlio della svolta di Salerno e del togliattismo, perché elemento di continuità che congiungeva il PCI alla grande tradizione sovietista era appunto la base sociale e la centralità del lavoro: la fabbrica come modello comportamentale che veniva esportato nella società.

Il mulino che macina della società digitale e la Rifondazione della sinistra: Innovare l’innovazione

Oggi si è del tutto sbriciolato quell’edificio, e il mulino che macina, per tornare a Marx, è quello digitale che ci darà una società completamente diversa dal precedente mulino a vapore esattamente come questo ha soppiantato ogni categoria e strumento politico del mulino ad acqua che dava la società feudale.

Porre oggi il tema di una vera Rifondazione, con la r minuscola per carità, della sinistra significa, in chiave globale, guardando al mondo, porsi il tema di giocare con il capitalismo la parte dello sviluppo e della gratificazione di miliardi di individui.

In questa chiave proprio quanto sta accadendo in Spagna, ma anche i pur deboli segnali di quanto serpeggia in Italia, ci spinge a rendere più audace la riflessione recuperando quel filone di accelerazionismo tecnologico, di cui abbiamo già accennato, che contesta al capitale la guida naturale dei processi informatici. Un filone che idealmente riprende la linea di pensiero di Quaderni Rossi integrandola con una rielaborazione delle esperienze digitali che, proprio alla luce della tendenza ad un ulteriore decentramento dell’uso di potenze di calcolo che l’intelligenza artificiale sta proponendo, permette, come dicono gli esponenti di quella scuola di pensiero, di “Innovare l’innovazione”.

Come scrive Matteo Pasquinelli, uno degli autori del manifesto accelerazionista, nel saggio Gli Algoritmi del capitale, che ha curato per Ombre Corte:

laddove i tecno utopisti sostengono che l’accelerazione della tecnologia automaticamente eliminerà il conflitto sociale, la nostra posizione è che la tecnologia debba essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi[4].

Una visione che può sembrare eccentrica per chi ancora pensa che da questo processo di automatizzazione dobbiamo difenderci rallentandolo, ma che diventa l’unica via di uscita in una fase storica in cui proprio i rapporti di produzione ci portano a contendere al capitale la sua esclusiva sovranità sulla conduzione della riformulazione di tutte le relazioni sociali mediante appunto la mediazione digitale.

Questa forma di orientamento del pensiero è diventata oggi la modalità dominante nel configurare le attività in ogni campo delle relazioni umane. Ed è per questo che diventa discriminante per qualsiasi proposta politica che abbia l’ambizione di proporsi come alternativa, se non proprio antagonistica, al modello capitalistico, di comprenderne la struttura e praticarne il controllo.


[1]Michel Hardt, Toni Negri, Commonwealth, Cambridge Massachussets, Harvard University Press, 2009, 448 p. Traduzione italiana: Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, 427 p.  

[2] Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1957-1858). Traduzione italiana: Grundrissee, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Milano, PGreco editore, 2012. Volume 1: XXXII-762 p. Volume 2.  XIII, 764-1364 [Il passo è tratto dal Volume 1 alla p. 32].

[3] Vedi in questo stesso numero nel glossario finale l voce curata da Michele Mezza, “Algoritmi”, anticipata su Key4biz il 20 settembre 2023. Cf.https://www.key4biz.it/democrazia-futura-algoritmi/460032/.

[4] Matteo Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Verona, Ombre Corte, 2014, 187 p.