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Democrazia Futura. Da Gramsci a Napolitano: un comunista può essere anche un riformista?

di Salvatore Sechi, docente universitario di storia contemporanea |

Perché né il pensatore sardo né l’uomo delle istituzioni non possono essere considerati socialisti liberali non avendo mai voltato le spalle ai miti e alle illusioni del comunismo realizzato.

Salvatore Sechi

Salvatore Sechi risponde a Franco Lo Piparo che definisce Su Il Foglio di oggi il presidente emerito un socialista liberale in un articolo “Da Gramsci a Napolitano: un comunista può essere anche un riformista?”.  Lo storico contemporaneo chiarisce “Perché né il pensatore sardo né l’uomo delle istituzioni non possono essere considerati socialisti liberali non avendo mai voltato le spalle ai miti e alle illusioni del comunismo realizzato”.

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Giorgio Napolitano fu un socialista liberale (altra cosa è il liberalsocialismo) come la sarebbe stato Antonio Gramsci?

Questa opinione è stata riproposta da uno studioso che non si è mai piegato al clima limaccioso del conformismo dominante non di rado tra gi intellettuali comunisti, come Franco Lo Piparo su Il Foglio, ma non mi pare accettabile[1].

Antonio Gramsci non è stato mai un sostenitore della cultura politica del liberalismo, cioè della divisione dei poteri, dello Stato di diritto, di un sistema di controlli sull’esercizio dei poteri, eccetera.

Antonio Gramsci si è limitato nel primo dopoguerra e fino al 1918 a sostenere la possibilità di una modernizzazione (o riforma che dirsi voglia) del capitalismo.

Già nel 1914 aveva aderito alla campagna anti-protezionista di Gaetano Salvemini e di un nucleo di economisti liberisti (come Attilio Cabiati, Antonio De Viti de Marco, Edoardo Giretti, eccetera) che si avvalsero per un certo periodo del consenso di un economista autorevole e di prestigio come Luigi Einaudi

Gramsci riteneva che una riforma in senso libero concorrenziale del capitalismo avrebbe potuto determinare un aumento dell’occupazione e dei salari, oltre a innescare uno sviluppo economico tale da imporre, a chi sosteneva un’alternativa socialista, un livello di analisi e di proposte operative (cioè di governo del mercato e in generale dell’economia) molto avanzato.

Questa stagione fondata sulla riformabilità del capitalismo dura fino al tentativo da parte del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson di creare una sorta di programma internazionale su queste basi.

Ma dopo la conquista del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi e di Lenin, Gramsci diventa vittima consenziente del comunismo. Che non sia un liberale, come ha cercato di sostenere Lo Piparo, lo dimostra l’atteggiamento di fronte alla decisione di Lenin nel gennaio 1918 di sciogliere l’Assemblea Costituente perché i bolscevichi non vi detenevano la maggioranza. Fu un colpo di mano che segnerà la vocazione, ma anche la lunga prassi dispotica, dei comunisti russi e di quanti in Europa, in Asia, in America latina riusciranno a impadronirsi del potere. Alla ‘dittatura del proletariato’ , allora inaugurata, non rinunceranno mai più.

Gramsci di fronte a questo plateale colpo di mano di Lenin su un organo socialista torinese, Il Grido del Popolo, scrisse due articoli (nel gennaio e nel luglio 1918) di comprensione e di giustificazione.

In primo luogo per dire che l’Assemblea costituente era un ferrovecchio della concezione liberale borghese della rappresentanza, quindi una ben misera cosa rispetto al sistema rappresentativo che si organizzava attraverso i Soviet. In secondo luogo, sostenendo che la sospensione dei suoi poteri (cioè lo scioglimento) era un atto provvisorio, che non poteva essere interpretata come una regola del comportamento dei bolscevichi per l’avvenire, cioè una ‘dittatura perpetua’.

In terzo luogo, per sostenere che i bolscevichi non erano dei giacobini, cioè che, essendo una minoranza, si servivano di azioni violente come quella del gennaio 1918 per esercitare la supremazia, cioè i poteri della maggioranza. Infatti, diceva Gramsci, non avevano bisogno di queste soluzioni di supplenza e di autoritarismo perché in Russia l’attuale minoranza bolscevica sarebbe destinata a

“diventare maggioranza assoluta, se non la totalità dei cittadini”.

La realtà storica sarà l’opposto.

Il bolscevismo aveva impresso al comunismo governante il suo carattere permanente di regime oppressivo e discriminatorio. Gramsci se ne renderà conto negli anni Trenta, quando descriverà quello che in origine aveva amato chiamare ‘lo Stato operaio’ come una variante nate del neo-bonapartismo. Ma non arriverà a essere un apostata del comunismo, cioè a diventare un liberaldemocratico.

Lo è stato Giorgio Napolitano?

Non solo egli ha applaudito un’operazione reazionaria come quella sovietica di mandare nel 1956 l’Armata rossa a piegare la resistenza ungherese al dispotismo comunista.

Se ne pentirà furtivamente andando a chiedere scusa ad un esponente socialista come Antonio Giolitti. Aveva avuto il coraggio -contro Stalin e contro Togliatti – di stare dalla parte di chi si era rivoltato contro l’oppressione sovietica.

Purtroppo Napolitano non volle, e non seppe, fare una battaglia politica dentro il Pci contro la proposta di Berlinguer di opporre all’esperienza del comunismo e a quella della socialdemocrazia, messe disinvoltamente sullo stesso piano, una “terza via”.

E’ rimasta una sfinge, un’espressione della volontà del segretario del Pci di non riconoscere il fallimento storico, in tutte le parti del mondo, del modello comunista di conquista e di governo. Era la persistenza dell’esecrazione che delle esperienze socialdemocratiche alla fine degli anni Venti avevano fatto Stalin e il Comintern.

Lo stesso Partito Democratico (Pd), e ancora oggi Elly Schlein, ha conservato questa sorta di demonizzazione verso governi che hanno preferito le riforme alla rivoluzione, rispettando i percorsi istituzionali della liberal-democrazia.

Da questo punto di vista neanche Giorgio Napolitano, al pari di Antonio Gramsci, ha voluto voltare le spalle ai miti e alle illusioni, alle spaventose crudeltà e agli eccidi, del comunismo realizzato.

Un vero riformista non può evitare di essere anti-comunista.


[1] Il foglio, 28 settembre 2023. Si veda anche Stefano Folli, “Giorgio Napolitano, un liberale tra le file del Pci. Colto e convinto europeista. Ritratto di un presidente rimasto leale al partito conservando la ragion critica”, La Repubblica, 23 settembre 2023