ritratti

Democrazia Futura. Continuous present

di Roberto Cresti, ricercatore e docente di storia delle arti del Novecento all’Università di Macerata |

Bernard Berenson, Gertrude Stein, Pablo Picasso e l’arte “contempo-ranea” di Roberto Cresti

Roberto Cresti

Roberto Cresti ci propone un viaggio negli studi sull’arte contemporanea del primo Novecento in un elzeviro molto erudito Continuous Present. Bernard Berenson, Gertrude Stein, Pablo Picasso e l’arte “contemporanea” in cui ritroviamo citando a casaccio, William James, Friedrich Nietzsche, Carl Gustav Jung, Karl Loewith, Alois Riegl, Oscar Wilde, Fernand Oliver e Henri Focillon, sino a grandi studiosi del secondo Novecento come Luciano Anceschi, Georges Lefebvre e Lionello Venturi. Una lettura un po’ diversa per rinfrancarsi la mente

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A hypothetical human nature that somehow exists
as an essence outside historical systems of articulation.

Patricia Waugh

Continuous present

In una raccolta di studi sullo sviluppo dell’estetica moderna, Luciano Anceschi, rifacendosi a un passo di John Dewey, scrive:

«il pensiero, nei processi mobili della sua ricerca, può a volte sistemarsi attorno a organismi speculativi già consolidati che resistono lungamente alle pressioni della vita […]; altre volte, invece fa come un salto, e determina una trasformazione radicale […] dei criteri e dei principi»[1]

Anceschi aggiunge che tale dinamica costituisce il frutto di una «continua, mobile, aperta interazione fra ciò che diciamo io e ciò che diciamo mondo»[2], intendendo per «mondo», non solo l’oggetto dei sensi, ovvero il “reale”, ma anche le idee e tutti i documenti, che attengono all’ambito della storia. 

Ora, la storia in genere ha subito davvero, fra il XIX e il XX secolo, una profonda revisione di metodi di indagine e di valori, che ha condotto a un «salto», analogo a quello suddetto, il quale, come ogni salto, implica però «ciò che diciamo io», ossia il “soggetto” che lo compie.

Le discontinuità di valori sono infatti l’esito di una continuità più profonda, costituita da un principio che riforma nel tempo i valori stessi, anche nei loro rapporti, e che si riconosce nell’Io – soggetto produttore e memoria archetipica del nostro pensiero –, il quale si attiva sempre in modo «enantiodromico»[3], ripristinando quanto a un’epoca manca in termini di facoltà e di compiutezza vitali. L’umanesimo dei secoli XIV e XV, sorto in opposizione al cosmo intellettuale della teologia tomista, e culminante nel naturalismo e nella rinascita dell’ideale classico, così come l’impulso che entra in conflitto coi miti del “progresso” razionalista[4] e assume le forme del movimento romantico, sono aspetti della stessa dinamica rivoluzionaria e conservatrice, alle cui forme l’Io presiede, dandole abbrivio e fine.

Proprio il romanticismo, fra i secoli XVIII e il XIX, produsse, infatti, in Gran Bretagna, una visione della natura più complessa rispetto alla riduzione generata dai principi economici della rivoluzione industriale, derivanti da un cinquantennio di applicazioni pratiche della fisica newtoniana (basta pensare ai grandi paesaggisti del tempo come John Constable e William J. Turner); e, in Germania, portò al reimpiego, in ogni ordine di ricerca, di risorse soggettive, in primis l’intuizione e l’immaginazione. Il pensiero romantico, cioè, “risana” il presente di quanto gli “manca”, e, poiché la mancanza più grave, generata appunto dall’ideologia del “progresso” e della raison, era il nesso coi secoli precedenti, la storiografia in qualche modo ispirata dallo spirito romantico fa riapparire tempi più o meno remoti, evidenziando in essi caratteri funzionali volti a riproporre, pur criticamente, valori messi in ombra, come fanno Jacob Burckhardt, scrivendo della civiltà dei Greci e del Rinascimento[5], Theodor Mommsen della storia romana[6] o Jules Michelet di quella francese[7], e insieme Walter Scott, Chateaubriand o Alessandro Manzoni nei loro romanzi, racconti o saggi, o Eugene Dalacroix, i Preraffaelliti e Arnold Böcklin nei loro dipinti.

Anche in campo critico, Alois Riegl, ormai nel 1901, utilizza il concetto di «volere artistico» (Kunstwollen) in senso individuale[8] per indicare l’intenzione espressiva che presiede alla formazione di un’epoca di cultura, liberando la ricerca dai pregiudizi valutativi e unendo alla storia dell’arte quella delle arti applicate, in un “continuo presente”, che Henri Focillon ha chiamato poi «vita delle forme»[9], ed entro cui è dato sentire che, per dirla in breve con le giuste parole di Carlo Carrà, «non sono io nel tempo ma che il tempo che è in me».

È sempre l’Io a rivelarsi la fonte d’ogni trasformazione: l’artefice del «salto» oltre le norme usate e la loro “irrevocabilità”, con un atteggiamento corrispondente a quello del «fanciullo», descritto da Friedrich Nietzsche nello Zarathustra, che, perduto per il mondo, riconquista per sé, «il suo mondo»[10]. Un’immagine che è la sintesi del secolo XIX e, insieme, la soglia del XX, nel cui corso culturale, civile e politico ogni “progresso irreversibile” risulta illusorio e portatore d’una violenza che colpisce spesso, allo stesso modo, la società e l’individuo.

Feelings

Nella storiografia artistica fra XIX e XX secolo fu in particolare Bernard Berenson a estendere i presupposti romantici appena ricordati. Nato in Lituania da una famiglia ebrea poi trasferitasi negli Stati Uniti, Bernard aveva sviluppato una pluralità di interessi mutuati dalla neonata scuola filosofica americana (che si era formata, nelle università del New England, grazie all’influenza del pensiero di Thomas Carlyle su Ralph W. Emerson) e l’avrebbe adattata allo studio dell’arte del Rinascimento italiano, con un intreccio ricco di casi e destinato a far scuola.

Fin dai primi saggi, raccolti nel volume The Italian Painters of the Renaissance, del 1930[11], si rilevano, tracce, già attentamente riformulate, del pensiero pragmatista di William James, filosofo di punta della suddetta scuola americana, che sviluppava una psicologia antidogmatica e a-categoriale, in cui la tendenza del pensiero alla soggettività si manteneva aperta a determinazioni concettuali sempre nuove, delle quali l’Io appariva il fondamento instabile, ma persistente:

«The words Me… and Self so far as they arouse feelings and connote emotional worth, are objective designations, meaning all the things which have the power to produce, in a stream of consciousness, excitements of a certain peculiar sort»[12].

Berenson, allievo di William James all’Università di Harvard[13], aveva infatti tratto dal suo maestro l’idea di una “armonia”, recondita ma essenziale, fra l’Io stesso e il mondo, che includeva il tempo della storia in un «flusso» (stream of consciousness) nel quale ogni oggetto di ricerca appariva la «sensazione» (feeling) suscitata da un precedente «stato di coscienza», in un codice psichico comune fra le forme dell’arte, come in un continuous present da cui derivare una aperta configurazione di concetti storico-formali tramite reiterate osservazioni della materia e sempre nuove riflessioni sui giudizi.

Era l’esperienza dell’arte, anche per il critico che ne fruiva a posteriori, a fondare ogni tipo di indagine, e non può mancare di ricordarsi al riguardo che il giovane Berenson aveva incontrato a Londra Oscar Wilde, autore del saggio, in forma di dialogo, The Critic as an Artist [14], del 1890, che sosteneva una conoscenza della vita dell’arte e di tutte le espressioni della vita in genere basata sul principio di «nutrire l’anima con i sensi e i sensi con l’anima». Wilde era l’erede principale della tradizione romantica inglese, che, dalle lettere di John Keats sulla poesia, si era rinnovata in John Ruskin e Walter Pater. Una tradizione nella quale l’Io riprendeva, unito alle squisitezze d’una cultura neoalessandrina, i principi filosofici del romanticismo tedesco e ne faceva il mezzo di unione fra presente e passato.

Giunto in Italia, e stabilitosi nel 1901 a Firenze, Berenson infatti accostò tutti i materiali che gli si resero disponibili (ricercandoli nelle chiese, anche nelle più remote pievi della Toscana e dell’Italia centrale, fino a Venezia, nei palazzi e nelle collezioni dei nobili, ma anche nelle botteghe degli antiquari, adottò al riguardo una lente di ingrandimento per mettere a fuoco i capillari di ogni tipo di pittura!) indagandone la morfologia come impulsi psichici originariamente dovuti a «stati di coscienza»:

«Tutte le arti risultano di sensazioni ideate, non importa con qual mezzo espresse, purché da esse si produca un effetto diretto di cresciuta capacità vitale»[15].

Lo storico era dunque il ricettore-interprete in prima persona, dal presente al passato e viceversa, di quegli impulsi e «sensazioni» (feelings), come già Giovanni Morelli, autentico pioniere della critica d’arte italiana, al quale Berenson si era subito interessato, aveva intuitivamente prefigurato:

«Vorrei far rivivere – dichiarava Morelli – nella mia mente tutte le grandi figure dell’arte nostra, vorrei intenderla al punto di immedesimarmi in loro»[16].

Il pensiero sviluppatosi dal romanticismo sulle due sponde dell’Atlantico veniva così a fondersi in una ricerca che avrebbe dato nuova vita all’arte e alla cultura rinascimentali, ponendo in evidenza, con uno stile di scrittura che era parte integrante delle indagini berensoniane, i caratteri espressivi delle opere di grandi maestri (suddivisi nelle scuole veneziana e fiorentina e per grandi aree geografiche del centro e del nord), a lungo rimasti in una fama convenzionale o addirittura a rischio d’oblio. La stessa ricerca si sarebbe poi spostata nei secoli fino a volgersi alla pittura dell’Otto-Novecento.

Perché non avrebbe dovuto essere così? Perché la pittura del tempo presente non avrebbe dovuto essere parte del continuous present dell’Io, e delle «sensazioni» già prodotte dall’arte dei secoli precedenti?

Al chiarimento e alla rimozione di molti pregiudizi anche personali contribuì l’incontro con una connazionale più giovane di lui, Gertrude Stein, che l’andò a trovare a Villa I Tatti, sulla collina di Fiesole, dove Berenson si era stabilito, nel 1902, accompagnata dal fratello Leo, presentatosi come critico d’arte.

Vie parallele.

Il «salto», come lo si è prima chiamato, fra Ottocento e Novecento si rende infatti palese anche nell’opera narrativa e critica della Stein, a sua volta debitrice verso William James, di cui era stata allieva e collaboratrice[17].

I vasti interessi di Gertrude ruotavano inizialmente attorno alla filosofia in senso classico – aveva studiato anche con George Santayana –, ma avevano preso un indirizzo pragmatista con caratteri naturalistico-osservativi, alimentato dalla disponibilità del laboratorio di psicologia sperimentale della Università di Harvard (il primo negli Stati Uniti), che William James aveva allestito. Il suo rapporto con la “realtà” era perciò, rispetto a quello di Berenson, meno mediato da filtri culturali, e più volto alla esperienza diretta. Insofferente delle ristrettezze di vedute del mondo borghese, dal quale proveniva, e in particolare delle ricadute morali dell’ebraismo, cui apparteneva la sua famiglia, ella era convinta che le «sensazioni» sentite come necessarie non fossero negabili né rimuovibili e che dovessero svilupparsi il più possibile. La sua fu quindi, nella vita come nell’arte, un’intelligenza “fisica” dell’essere umano “in sé” e delle sue espressioni artistiche, sicché il “realismo” le apparve congeniale sia come poetica che come stile, ma anche come orientamento di ricerca, tramite la psicologia scientifica e, dal 1897, anche attraverso la medicina, studiata alla Johns Hopkins Medical School di Baltimora.

Mentre conduceva ricerche sperimentali sugli automatismi psico-motori, Gertrude Stein avvertì però il bisogno di rendere più completa la sua cultura artistica, e di mettersi in rapporto con le cerchie intellettuali europee, da cui le venivano continui stimoli di ricerca, in special modo attraverso la pittura. Fu così, nel 1900, per la prima volta, a Parigi e a Londra, ove trovò soddisfazione al suo desiderio e nuovi intrecci di pensiero, d’immagini e di vita. Le era compagno il già menzionato fratello, Leo, con cui, per qualche tempo, tornò a vivere a New York, e si trasferì poi, nel 1903, a Parigi. L’anno seguente, dopo un ultimo soggiorno in patria, decise di risiedere stabilmente nella capitale francese, prendendo casa in rue de Fleurus 27, ove aprì una galleria d’arte e iniziò a collezionare dipinti, fra gli altri, di Paul Cézanne, Pablo Picasso e Henri Matisse. Félix Vallotton le fece allora un ritratto.

Ragtime

Il ritmo veloce a cui si era svolta la sua vita e, infine, il contatto con l’ambiente culturale parigino sembravano suggerirle una visione di sé, e dei tanti compagni e compagne di strada, che estremizzava i principi di varietà vitale del pragmatismo jamesiano.

Il massimo di ricezione della «sensazione» si univa cioè in lei a un minimo di traduzione intellettuale, così che la continuità dell’Io era vissuta e perduta, contemporaneamente, in modo analogo a una sorta di “mito di Sisifo”, che ella trasformò nel metodo con il quale condusse le prime prove narrative, come Three Lives (1909)[18], ove la biografia dei personaggi, spezzata e ricomposta di continuo in una miriade di gesti e situazioni, è la materia che rende visibile, in una pura sequenza narrativa, il corso di una esistenza individuale, il cui vero soggetto resta tuttavia ineffabile.

Ansiosa, come sarebbero stati appunto alcuni suoi personaggi, di cambiamenti di vita e sempre nuovi incontri e luoghi, si era proposta così di far vista, come detto, nel 1902, anche al celebre Bernard Berenson, che sapeva avere studiato nella sua stessa università, e risiedere nella Villa I Tatti, sulle colline vicino a Firenze.

À rebours

Berenson era troppo immerso nelle sue ricerche e nei suoi molteplici interessi per essere influenzato da quella stravagante compatriota e dal fratello (critico!) di lei. Ma la giovane, che gli magnificava la nuova pittura francese, e gli avrebbe spedito in seguito, regolarmente, le riviste di avanguardia su cui scriveva, era comunque l’esito di un milieu culturale affine al suo (la comune radice ebraica faceva il resto), così che, pur non mancando di esprimere riserve sulle prove letterarie di Gertrude, le visite che egli rese in seguito agli Stein a Parigi[19] furono l’occasione d’incontri con artisti che gli fecero intuire relazioni fra le «sensazioni» suscitate dai maestri rinascimentali e quelle prodotte dalle opere del presente, in particolare dalle tele di Paul Cézanne, di cui a Parigi tutti si occupavano.

Si trattava di un completamento, di una intuizione filtrata fra le maglie delle sue ricerche e, infatti, scrivendo già, in North Italian Painters of the Renaissance (1907)[20], di un dipinto di Francesco del Cossa, Berenson osservava che «la Musa del cosiddetto Autunno di Berlino era così ben piantata sui piedi» da ricordare gli effetti e le espressioni delle figure di [Jean-Francois] Millet e di [Paul] Cézanne[21]. E, «nel marzo 1913, sulla Gazette des Beaux-Arts, in occasione della restituzione a Antonello [da Messina] della Madonna Benson», trovava che nell’opera vi fosse una costruzione che portava, attraverso la lezione di Cézanne, alle tele de «les cubistes des nos jours»[22]. Idea, quest’ultima, alla quale l’avevano indirizzato i dipinti di Henri Matisse e Pablo Picasso, e i colloqui con i due pittori, conosciuti, fra il 1908 e il 1913, in casa Stein.

Con questi precedenti egli giunse, in seguito, al concetto di arte «ineloquente» (ineloquent), ossia espressa da pure «sensazioni», come avveniva, in modo paradigmatico, in Piero della Francesca e Paul Cézanne:

«le creazioni più soddisfacenti sono quelle che, come in Piero e in Cézanne, rimangono ineloquenti, mute senza urgenza di comunicare alcunché, senza preoccupazione di stimolarci col loro gesto e il loro aspetto. Se qualcosa esprimono, è carattere, essenza, piuttosto che sentimenti o intenzioni di un dato momento»[23].

Questo concetto l’induceva a volgere l’attenzione a ogni tipo d’arte in uno stream of consciousness di forme che accorciava i tempi, alleggeriva le partizioni storiche o ne legittimava altre, sovvertendo la gerarchia dei generi maggiori e dei minori, in una funzionalità che anticipava l’idea di «vita delle forme» di Henri Focillon.

Arte «ineloquente» corrispondeva, in sintesi, alla memoria di «sensazioni» da cui emergeva, nell’Io, la continuità vitale fra passato e presente.

Muto soccorso

Gertrude Stein si rivolgeva all’arte in modo analogo, ma senza la minima intenzione di elaborare le sue «sensazioni» in una vera e propria divulgazione, e neppure in un linguaggio che non fosse, per la sua espressività, meno che immediatamente “reale”, palesando una sorta di transmentalità fonetica, da calembour o filastrocca.

I pittori che amava e conosceva li descriveva e identificava con una sorta di Leit-motiv «ineloquente», ripetendo una stessa frase, o una singola parola, la quale identificava la «sensazione» che aveva avvertito:

«I was making a continuous succession of the statement of what that person was until I had not many things but one thing!»[24].

Il testo Cézanne (1912)[25] appare «ineloquente» in quanto i paesaggi cézanniani erano tali rispetto ai luoghi nominati nei titoli, di cui recepivano soltanto alcuni “motivi” morfologici, così che lo svolgimento, nel testo intitolato all’artista, di un discorso che lo riguarda solo per allusioni, e con parole omofone, producenti alla lettura l’analogo di un “motivo” sonoro, ne risulta una sorta di equivalente:

«In this way we have a place to stay and he was not met because he was settled to stay. […] When I said settled to stay I meant settled to stay Saturday»[26]

Anche il testo Matisse (1912) è incentrato su un “motivo”, che si riferisce però a quello di un dipinto elaborato dal pittore, ossia sulla dialettica adeguato-inadeguato. Matisse era noto per correggere il lavoro che stava compiendo fino alla sua sintesi in una forma semplice, appunto «ineloquente», come nella Danza (1910) o nella scultura Serpentine (1909), ragione per cui la Stein ricorre in quel testo a un “vibrato” che assorbe in sé progressivamente gli altri valori fonetici della scrittura, come si percepisce, in un periodo, fra «expressing», […] struggling, […] something, […] anything»[27].

Gertrude insisteva sul momento operativo, cioè sul corpo dell’opera, non per ridurlo a materia, ma, al contrario, per tentare di cogliervi la «sensazione» incessante dell’Io che vi si esprimeva e, contemporaneamente, se ne ritraeva. E così, in Picasso (1912), la «sensazione» qualificante è indicata nella capacità di lavorare incessantemente[28] (per chi frequentava il pittore il fatto era ben noto), e di coinvolgere anche l’ambiente circostante da un invisibile punto di vista[29]. La vera “opera” di Picasso (working) era “oltre” il suo dipingere (coming out of this one), e aveva la facoltà di condizionare l’opera degli artisti a lui vicini (some were following):

«This one was working and something was coming then, something was coming out of this one then. This one was one and always there was something coming out of this one and always there had been something coming out of this one. This one had never been one not having something coming out of this one. This one was one having something coming out of this one. This one had been one whom some were following. This one was one whom some were following. This one was being one whom some were following. This one was one who was working»[30].

Il decentramento continuo dell’Io dal suo operare e dall’insieme dei suoi atti favoriva, inoltre, una acquisizione di tutti i materiali adatti a un’espressione individuale portata “oltre” il linguaggio tradizionale dell’arte (come Picasso avrebbe fatto realizzando i suoi collages) e adombrava una concretezza di mezzi che, in letteratura, apriva all’uso della parola nella sua fisicità «ineloquente», anche tipografica, come accade davvero in Tender Bottons (1914)[31], che, nell’opera della Stein, è un’evoluzione spazializzata della tecnica di Three Lives, con l’impiego di tutto ciò che uno spirito creativo può trovare adeguato alle proprie necessità di espressione.

Ritratto di signora

Pablo Picasso, infatti, comprese «l’ineloquenza» del ritratto verbale che l’amica americana gli aveva riservato, e anzi l’aveva anticipata in quello dedicatole nel 1906 [Fig. 1], che non la ritrae, se non minimamente, nel suo aspetto esteriore [Fig. 2], mentre risulta di reale “somiglianza” alla sua attività creativa. Il dipinto, infatti, è l’esito di una sintesi personale della storia dell’arte, a cui fa riscontro un analogo impiego selettivo dei procedimenti tecnici,

«In fondo – diceva Picasso – tutto dipende da sé stessi. È un sole [l’Io] nel ventre dai mille raggi»[32].

Fig. 1 Pablo Picasso, Ritratto di G. Stein, 1906

Tale era del resto il costume d’Arlecchino, composto di ritagli che potevano essere aggiunti o tolti, e che Picasso aveva eletto addirittura a proprio “doppio”. Il sarto – come il Sartor Resartus (1833-1834) di Thomas Carlyle – non veniva mai rappresentato direttamente: vi permaneva “altro”, in modi attendibili e finti, ironici e tragici. Ed ecco infatti apparire, proprio nel Ritratto di Gertrude Stein, nella testa, nel volto e nelle mani, le tracce di Piero della Francesca, nel corpo e nel panneggio, di Francisco Goya, intrecciate ad altre di Édouard Manet, di Vincent van Gogh, di Paul Gauguin e, soprattutto, di Paul Cézanne, il quale ne influenzava, senza dubbio, dai ritratti della moglie, la sintassi principale.

Il colore stesso offre, in parallelo, una texture elaborata a più strati. Si notano, infatti, nella sezione fra l’orecchio e la mascella, un giallo cadmio medio associato a un rosso di Marte, mentre l’ombreggiatura si avvale di bianco di titanio, giallo cadmio limone, rosso cadmio chiaro e terra ombra naturale.

Fig.  2 Gertrude Stein davanti al proprio ritratto

Alcuni di questi colori riappaiono poi sul volto, e ad essi si aggiungono, nei lineamenti, altra terra ombra naturale, mescolata a verde ossido di cromo, e, per gli occhi, una terra analoga, con un nero d’avorio; mentre i capelli, dipinti in terra di Siena bruciata e bruno Van Dyck, contrastano a sinistra col fondo, campito con ocra gialla, verde ossido di cromo, bianco di titanio e rosso di Marte.

Tali colori, che ricorrono nella intera superficie del dipinto, rendono il soggetto contiguo allo sfondo, quasi serrato in esso, anche per una sorta di doppia semicirconferenza data dallo schienale e dalla curva delle spalle, quest’ultima rettificata, sulla parte destra, per enfatizzare la posizione appoggiata del braccio nella parte opposta. Notevole è, inoltre, l’effetto plastico che l’insieme produce, tanto da ricordare il detto di Paul Cézanne:

«quand la coleur est à sa richesse, la forme est à sa plenitude»[33], che rinvia naturalmente a Piero della Francesca.

Pablo Picasso, in casa Stein, avrà certo parlato di questi nessi con Bernard Berenson, magari in presenza di Gertrude Stein, la quale, nel suo ritratto, riconosceva una sintesi del proprio mondo poetico e un’attuazione pittorica di quella “fisicità” del pensiero che le era sempre stata cara. Picasso ne aveva costruita cioè l’immagine da «sensazioni ineloquenti» insite nella storia dell’arte, allineandosi, e allineando l’amica, alla libertà dell’Io che rompe e ricrea la tradizione per esigenze vitali e con rinnovate memorie.

Conclusione

Tutte queste cose possono apparire gratuite, squisitamente intellettuali e persino fastidiose, ma in gradi diversi mostrano in Berenson, Stein e Picasso, un «salto», che, dalla ricerca storiografica fino all’arte variamente intesa e praticata, determina «una trasformazione radicale […] dei criteri e dei principi» culturali[34], che ha avuto sviluppi per tutto il secolo scorso e qualcuno ancora nel presente.

Forse, fra i tre, Berenson apparirà il più attardato, ancora vicino a certi valori ottocenteschi, ma, a rileggere oggi le sue pagine, quell’idea sparisce: anzi, se ne coglie tutta la progettualità, che, come sarebbe stato in seguito per Roberto Longhi e per Lionello Venturi, avrebbe marcato il fondamento di quell’area della critica d’arte del XX secolo che istituisce rapporti e relazioni di senso tendenti a superare tempi esteriori, pregiudizi e soprattutto quel filologismo burocratico che vuole la prova provata di ‘documenti’ per legalizzare i rapporti fra gli artisti, i secoli e le civiltà.

Scrive Berenson:

Negli ultimi centocinquant’anni […] abbiamo scoperto ed esplorato province e regni e imperi dell’arte visiva che prima non si sognavano nemmeno. Solo nell’ambito della civiltà in cui noi stessi ancora viviamo, ossia nel mondo greco con quanto lo precedette e lo seguì fino ai nostri giorni, tesori sono stati portati alla luce non solo in Egitto e in Mesopotamia, ma nella Grecia stessa.  […]

Abbiamo imparato a conoscere la scultura, i mosaici e gli smalti del periodo macedonico e di età anche più tarde, nel mondo egeo come nella Europa latina; abbiamo imparato ad apprezzare i nostri artisti medievali e quelli del secolo XV e a capirli come capivamo i maestri del Rinascimento e dei secoli successivi; sappiamo ammirare persino Degas, Cézanne, Rodin, Renoir, così liberi dalla tirannia della tradizione […][35].

Quanto alla Stein e a Picasso, si tratta di protagonisti di un momento irripetibile di quel secolo, a cui vale la pena tornare per valutarne le premesse e le conseguenze, trascegliendo, soprattutto fra le seconde, per scartare l’irrigidimento estetico che ne è spesso derivato, e che non risulta affatto in linea con le prime.  Spesso si è voluta staccare l’arte del Novecento da quella precedente, mentre un esame funzionale dell’aggettivo “contemporaneo”, basata sul continuous present dell’Io, mostra l’esatto opposto, e dà un soggetto e insieme una ragione funzionale al «salto» di cui parlava Luciano Anceschi. Le Avanguardie sono state degli scandagli diacronici, delle rivoluzioni conservatrici, che hanno spinto il «fanciullo» nietzschiano a attuare una congiunzione fra il “fatto” e il “farsi” della storia umana, oltre i dogmi sanciti per decreto ideologico e l’ottusità illiberale di chi crede di avere raggiunto la fine della storia o la sublima nell’ortopedia immobile e timorata di annichilite istituzioni pubbliche.

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Friedrich Nietzsche, Also Spracht Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Parts 1-3, Chemnitz, Ernst Schmeitzner, 1883-1884; part 4, Leipzig, C.G. Naumann, 1891. Prima traduzione italiana dal tedesco di Edmondo Weisel: Cosi parlo Zarathustra: un libro per tutti e per nessuno, Torino, Fratelli Bocca, 1899, 317 p. Vedilo raccolto nell’edizione critica delle Opere a cura di Giorgio Colli, Mazzino Montinari: Werke, Kritische Gesamtausgabe, Abt.6, Bd.4, Nachbericht zu Abt.6, Bd.1, Also sprach Zarathustra (Friedrich Nietzsche: Nietzsche Werke. Abteilung 6, Band 6), Berlin, Walter De Gruyter, 1967, 998 p. e nell‘edizione critica italiana: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, versione e appendici di Mazzino Montinari; nota introduttiva di Giorgio Colli Milano, Adelphi, 1976, XVII-414 p. (2 volumi).

Fernande Oliver, Picasso et ses amis. Préface de Paul Leautaud, Paris, Stock, 1933, 237 p.; traduzione italiana di Maria Baiocchi: Picasso e i suoi amici, Prefazione di Ester Coen, Roma, Donzelli, 1993, XII-99 p.

Alois Riegl, Die spätrömische Kunst-Industrie nach den Funden in Österreich-Ungarn 1. 1, Die spätrömische Kunst-Industrie nach den Funden in Österreich-Ungarn im Zusammenhange mit der Gesamtentwicklung der Bildenden Künste bei den Mittelmeervölkern, Österreichisches Archäologisches Institut, Wien, Österreichische Staatsdruckerei, 1901, VI-222 p.; Traduzione italiana: Arte tardoromana, traduzione, notizia critica e note di Licia Collobi Ragghianti, Torino, Einaudi, 1959, XXXVIII-292 p.

Gertrude Stein, Three Lives, London – New York, Chumps Change, 1909, 196 p. Traduzione italiana di Giorgia Nepi: Tre vite, Roma, Elliot, 2014, 248 p.

Gertrude Stein, Tender Bottons.  Objects, food, rooms, New York, Marie Claire, 1914, 78 p.

Gertrude Stein, Selected Writings, edited with an introduction and notes by Carl Van Vechten, New York, Random House, 1946, XV-622 p.

Lionello Venturi, Storia della critica d’arte, Milano, Firenze, Roma, Edizioni U Collana Giustizia e Libertà, 1945, 484 p. Poi Torino, Einaudi, 1964, 388 p.

Oscar Wilde The Critic as an Artist, dapprima con il titolo “The True Function and Value of Criticism” in The Nineteenth Century, luglio settembre 1890. Poi raccolto in Oscar Wilde Intentions, The Decay of Lying, Pen Pencil and Poison, The Critic as Artist, The Truth of Masks, 1891. Testo liberamente consultabile on line l’edizione del 1905: New York, Brentano’s: https://archive.org/details/cu31924079601617/page/n11/mode/2up.


[1] Luciano Anceschi Da Bacone a Kant. Saggi di estetica, Bologna: il Mulino, 1972, 233 p. [il passo citato è a p. 9].

[2] Luciano Anceschi Da Bacone a Kant…, op. cit. alla nota precedente, p. 14.

[3]Carl Gustav Jung, Psycologische Typen, Züric, Rascher Verlag, 1921, 708 p. Traduzione Italiana integrale in Opere. 6. Tipi psicologici, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, 620 p. [si vedano le pp. 473-474 . «Con questo concetto viene indicato nella filosofia di Eraclito il gioco degli opposti nel divenire, cioè la concezione secondo la quale tutto ciò che esiste passa nel suo opposto […]. Io chiamo enantiodromia il manifestarsi, specialmente in successione temporale, del principio opposto inconscio.

Questo fenomeno caratteristico si verifica quasi universalmente là dove una direttiva completamente unilaterale domina la vita cosciente, così che col tempo si forma una contrapposizione inconscia altrettanto forte, che dapprima si manifesta con un’inibizione delle prestazioni della coscienza e in seguito con un’interruzione dell’indirizzo cosciente.»

[4] Roberto Cresti, Saggio sul fondamento storico dell’arte contemporanea, Filottrano (Ancona) Le Ossa, 2015, 110 p. [si veda in particolare il primo capitolo “Invisibile atlante” alle pp. 7-36]. Consultabile on line: https://u-pad.unimc.it/retrieve/handle/11393/218474/50309/Saggio%20sul%20fondamento%20storico%20dell%27arte%20contemporanea.pdf-.

[5]Si veda al riguardo Karl Löwith, Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, Stuttgart, Kohlhammer, 1953, 23 p. Traduzione italiana di Flora Tedeschi Negri. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1963, 299 p.  Poi con Prefazione di Pietro Rossi:  Milano, Il Saggiatore, 1989, 258 p. [si vedano le pp. 41-52].

[6]Cfr. Georges Lefebvre, Naissance de l’historiographie moderne, Paris, Flammarion, 1971, 348 p. Traduzione di Emilio Renzi: La storiografia moderna. Vico, Voltaire, Montesquieu, Michelet, Ranke, Croce, Pirenne, Milano, Oscar Mondadori, 1979, XIII-317 p. [si vedano le pp. 262-263].

[7]Georges Lefebvre, La storiografia moderna. Vico, Voltaire, Montesquieu, Michelet, Ranke, Croce, Pirenne, op. cit. alla nota precedente, pp. 181-198

[8] Alois Riegl, Die spätrömische Kunst-Industrie nach den Funden in Österreich-Ungarn 1. 1, Die spätrömische Kunst-Industrie nach den Funden in Österreich-Ungarn im Zusammenhange mit der Gesamtentwicklung der Bildenden Künste bei den Mittelmeervölkern, Österreichisches. Archäologisches Institut, Wien, Österreische Staatsdruckerei 1901, VI-222 p.; Traduzione italiana:  Arte tardoromana, traduzione, notizia critica e note di Licia Collobi Ragghianti, Torino, Einaudi, 1959, XXXVIII-292 p. [si veda in particolare l’Introduzione alle pp. 3-22].

[9] Henri Focillon, Vie des Formes, Librairie Ernest Leroux, Paris 1934, 144 p. Oggi in edizione digitale: Paris Presses Universitaires de France, 2013, 144 p. Traduzione italiana : Vita delle forme: seguito da Elogio della mano, prefazione di Enrico Castelnuovo, Torino, Einaudi, 1990, XXXI-134 p. [si veda l’Introduzione alle pp. 3-27].

[10] Friedrich Nietzsche, Also Spracht Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Parts 1-3, Chemnitz, Ernst Schmeitzner Verlag, 1883-1884; part 4, Leipzig, C.G. Naumann Verlag, 1891. Prima traduzione italiana dal tedesco di Edmondo Weisel:  Cosi parlo Zarathustra: un libro per tutti e per nessuno, Torino, Fratelli Bocca, 1899, 317 p.  Vedilo raccolto nell’edizione critica delle Opere a cura di Giorgio Colli, Mazzino Montinari: Werke, Kritische Gesamtausgabe, Abt.6, Bd.4, Nachbericht zu Abt.6, Bd.1, Also sprach Zarathustra (Friedrich Nietzsche: Nietzsche Werke. Abteilung 6, Band 6), Berlin, Walter De Gruyter, 1967, 998 p., e nell‘edizione critica italiana: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, versione e appendici di Mazzino Montinari; nota introduttiva di Giorgio Colli Milano, Adelphi, 1976, XVII-414 p. (2 volumi). Il riferimento citato si trova nel primo tomo alla p. 25.

[11] Bernard Berenson, The Italian Painters of the Renaissance, Oxford The Clarendon Press, 1930, 340 p. Traduzione Ita-liana di Emilio Cecchi: I pittori italiani del Rinascimento, Milano, Hoepli, 1936, 275 pSeconda edizione inglese London, New York Phaidon: 1952, XIII-488 p. Seconda edizione italiana: Firenze – Londra, Sansoni e The Phaidon Press, 1957, XV-220. Terza edizione inglese in due volumo, 1968, XI-236 p. e 254 p. Infine in italiano con un’introduzione di Flavio Caroli: Milano, Rizzoli, 2009, VI-299 p. Seconda edizione da cui citiamo: Milano, Rizzoli, 2012, VI-303 p.

[12]“Le parole Io… e Me stesso, nella misura in cui suscitano sentimenti e connotano valore emotivo, sono designazioni oggettive, intendendo tutte le cose che hanno il potere di produrre, in un flusso di coscienza, eccitazioni di un certo tipo peculiare”, in William James The Principles of Psychology, New York, Hery Holt, 1890, 2 volumi: XII-689 p e VI – 704 p.  Poi Chicago, Encyclopedia Britannica, 1952 [la citazione è a p. 706].

[13]Bernard Berenson, Sketch for a Self-portrait, New York, Pantheon, 1949, 184 p. [si veda p. 81].

[14]The Critic as an Artist è uno scritto di Oscar Wild dapprima uscito a puntate con il titolo “The True Function and Value of Criticism” fra il luglio e il settembre 1890 nel mensile britannico The Nineteenth Century. Poi raccolto l’anno successivo nel suo volume Intentions, The Decay of Lying, Pen Pencil and Poison, The Critic as Artist, The Truth of Masks, 1891. L’edizione del 1905 (New York, Brentano’s) è scaricabile liberamente on line: https://archive.org/details/cu31924079601617/page/n11/mode/2up.

[15] Bernard Berenson, I pittori italiani del Rinascimento, op. cit. alla nota 11, p. 285.

[16]Lionello Venturi,  Storia della critica d’arte, Milano, Firenze, Roma, Edizioni U Collana Giustizia e Libertà, 1945, 484 p. Poi Torino, Einaudi, 1964, 388 p. [la citazione è alla p. 243].

[17] Si veda al riguardo Janet Hobhouse, Everybody Who Was Anybody. A Biography of Gertrude Stein, Bookthrift Co, 1978, 244 p.

[18] Gertrude Stein, Three Lives, London – New York, Chumps Change, 1909, 196 p. Traduzione italiana di Giorgia Nepi: Tre vite, Roma, Elliot, 2014, 248 p.

[19]Cfr. Carlo Ginzburg, Indagini su Piero: il battesimo, il ciclo di Arezzo, la flagellazione di Urbino, Torino, Einaudi, 1982, XXXII-110 p. Nuova edizione con l’aggiunta di quattro appendici, Torino, Einaudi, 1994,  XXXII-172 p. [si veda p. 141].

[20] Bernard Berenson, North Italian Painters of the Renaissance, London, Cornell University Library. 1909, 376 p.

[21] Bernard Berenson – Roberto Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957, a cura di Cesare Garboli e Cristina Montagnani, Milano, Adelphi, 1993, 252 p. [il passo citato è a p. 17].

[22] Bernard Berenson – Roberto Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957…, op. cit. alla nota precedente.

[23]Bernard Berenson, Edizione italiana: Piero della Francesca o dell’arte non eloquente, Firenze, Electa, 1950, 60 p. Poi in edizione inglese Piero della Francesca: or the Ineloquent in Art, Chapman & Hall, London 1954, IV-44 p. Seconda edizione italiana a cura di Luisa Vertova in base all’edizione inglese: Milano, Abscondita, 2007, 92 p. [la citazione è a p. 16].  Questo saggio è stato recentemente ripubblicato  con un’introduzione di Vittorio Sgarbi e la traduzione e postfazione di Luisa Vertova: Milano, La Nave di Teseo, 2019, 71 p.

[24]“Facevo un continuo susseguirsi dell’affermazione di cosa fosse quella persona finché non avevo molte cose ma una cosa!”, in Gertrude Stein, Selected Writings, edited with an introduction and notes by Carl Van Vechten, New York, Random House, 1946, XV-622 p. [il passo citato è a p. 289].

[25]“In questo modo abbiamo un posto dove stare e lui non è stato accolto perché era deciso a rimanere. […] Quando ho detto sistemati per restare intendevo sistemati per restare sabato.”: in “Cézanne” scritto poi ripubblicato in Gertrude Stein, Selected Writings, op. cit. alla nota 24.

[26]“Cezanne” , ibidem, p.289.

[27] “Matisse” in Gertrude Stein, Selected Writings, ibidem. p.289

[28] “Picasso” in Gertrude Stein, Selected Writings, ibidem, p. 294.

[29] Si veda Fernande Oliver, Picasso et ses amis. Préface de Paul Leautaud, Paris, Stock, 1933, 237 Traduzione italiana di Maria Baiocchi: Picasso e i suoi amici, Prefazione di Ester Coen, Roma, Donzelli, 1993, XII-99 p.

[30] “Questo lavorava e qualcosa stava arrivando allora, qualcosa stava uscendo da questo allora. Questo era uno e c’era sempre qualcosa che usciva da questo e c’era sempre stato qualcosa che veniva fuori da questo. Questo non era mai stato uno che non avesse qualcosa che usciva da questo. Questo era uno che aveva qualcosa che usciva da questo. Questo era stato uno che alcuni stavano seguendo. Questo era uno che alcuni stavano seguendo. Questo era uno che alcuni stavano seguendo. Questo era uno che stava lavorando” in “Picasso” scritto poi ripubblicato in Gertrude Stein, Selected Writings, op. cit  alla nota 24, p. 294.

[31] Gertrude Stein, Tender Bottons, objects, food, rooms, New York , Marie Claire, 1914, 78 p. Lo si può leggere online https://monoskop.org/images/6/62/Stein_Gertrude_Tender_Buttons_1997.pdf

[32] In Mario De Micheli (a cura di), Scritti di Picasso, Milano, Feltrinelli, 1964, 194 p. il passo è a p. 16].

[33] Bernard Berenson – Roberto Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957, op.cit. alla nota 21, p. 16.

[34] Luciano Anceschi Da Bacone a Kant. Saggi di estetica, op. cit. alla nota 1, p  44.

[35] Bernard Berenson, Piero della Francesca o dell’arte non eloquente, op. cit. alla nota 23, p. 42.