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Democrazia Futura. Cinema Italiano: Ci sarà il Miracolo di Sangiuliano?

di Paolo Luigi De Cesare, poeta, autore radiofonico, audiovisivo e ideatore di format |

Le riflessioni di Paolo Luigi De Cesare sul come sostenere il Cinema Italiano nell'era del Conservatorismo Valoriale.

Paolo Luigi De Cesare

Partendo da un intervento di Angelo Zaccone Teodosi ospitato sulle colonne di Key4biz il 20 ottobre 2023, Paolo Luigi De Cesare svolge una lunga disamina sulle prospettive della nostra industria audiovisiva chiedendosi in un articolo intitolato “Cinema Italiano: Ci sarà il Miracolo di Sangiuliano?” con quali modalità occorrerebbe “sostenere il Cinema Italiano nell’era del Conservatorismo Valoriale”. “Se ci sono, nella società italiana, dei valori in circolazione che poco hanno a che vedere con Nazione, Patria, Famiglia, Rispetto del Sacro, Disciplina, Spirito di Comunità e Legalità, non è colpa del “cinema di sinistra” – sostiene De Cesare aggiungendo –  E d’altronde, nessuno dovrebbe ritenerli valori sbagliati in sé. Ma vanno evitati, come su ogni cosa, feticismi e fanatismi. L’affermarsi di sentimenti collettivi più leggeri è il frutto della trasformazione dei comportamenti emotivi; propri di ogni Società che approda ai consumi di massa. E lo fa grazie a modelli, di stili di vita, veicolati attraverso i Media. Sembra terminologia vecchia, e novecentesca, ma è inevitabile riproporla, perché si è usurato lo schema analitico autonomo della Politica. Una politica che è stata trasversalmente in difficoltà sul “conflitto di interessi” ieri, e lo è sul tassare le piattaforme OTT oggi”. L’approccio ideale sarebbe stato quello di lavorare per un’Industria culturale “forte”, capace di finanziare, l’indipendenza e la ricerca artistica, con gli stessi proventi dell’Industria; ovvero dei prodotti commerciali. Certo i prodotti commerciali non sono “neutri”. Incidono sull’immaginario e sulla educazione estetica. E cambiando l’immaginario, cambiano gli “orizzonti morali”; ma va messo nel conto”.

Tra l’ossimoro geopolitico e l’insostenibile leggerezza “dell’Eccezione Culturale”

In un articolo su Key4Biz, del 20 ottobre 2023, Angelo Zaccone Teodosi sollecita una riforma della Legge Franceschini 220/2016 sul Cinema, analizzando la notizia del consenso del Ministro Gennaro Sangiuliano ad un taglio al budget del comparto Audiovisivo.  Per andare in soccorso della “contabilità” del collega Giancarlo Giorgetti. Gli argomenti utilizzati dal Ministro sono assolutamente condivisibili. Circa sprechi, ingiustizie, o soldi dei contribuenti finiti in ricche parcelle milionarie dei registi, e a causa di un uso smodato del Tax Credit. In lingua italiana Credito di imposta.

Le prime uscite del Ministro, appena nominato, erano però concentrate sulla necessità di un cambio epocale rispetto ai contenuti. E sintetizzate nello slogan “No alla dittatura del politically correct“.

Le debolezze della Legge Franceschini non erano così in primo piano. 

Parentesi: ma cosa ha reso quella Legge tanto obsoleta in soli 7 anni?

Secondo Angelo Zaccone Teodosi, Legge e Decreti attuativi sono stati redatti sotto una eccessiva e corporativa pressione dell’Anica. Ma siamo sicuri che le altre sigle di rappresentanza vogliono una vera rivoluzione di Sistema?

Chiusa parentesi!

Per cui, la manifesta fragilità della Legge Franceschini cambia lo scenario, rispetto alla primaria intenzione del nuovo Ministro. Quella di un elegante assalto contenutistico ad una roccaforte che, storicamente, è stata ritenuta, a Destra, “creatrice di un pensiero di Sinistra”. E dove la Sinistra Istituzionale si è dimostrata più centralista, e romanocentrica, dello stesso Mussolini. Il Duce almeno aveva dato vita ad una Mostra del Cinema a Venezia, e ad un mercato del Cinema, Il Mifed, a Milano.

Inoltre, per la mission “No alla dittatura del politically correct“, la situazione si è fatta incerta. Comincia ad essere spiazzata dalle dinamiche concrete del mercato e della realtà. 

Esemplare è stato l’episodio dello spot di Esselunga, che dimostra che le “Leggi di mercato e di audience”, quando maneggiano i contenuti di finzione, applicano gli strumenti classici della drammaturgia. Siano essi destinati a Spot Pubblicitari, al Cinema commerciale o al Cinema impegnato. 

E non ci può essere drammaturgia se non c’è conflitto. Vedasi il diffuso modo di dire: “…non c’è Storia”, che significa “non c’è conflitto che crea incertezza del finale”. 

Quindi Esselunga non è stata ‘politically correct’. Non ha fatto la promozione ideologica della famiglia di divorziati o separati, come famiglia ideale. È stato solo rotto l’epocale stereotipo della famiglia del “Mulino Bianco”, per ragioni di mercato e marketing. Si è solo preso atto che il raccontare piattamente una famiglia felice, dove tutti si amano e consumano contenti, “non fora lo schermo”. Ed oltretutto, il target dei separati è assolutamente enorme.

Se oggi ci ritroviamo una grande massa di adolescenti non “agguerritamente omofobi”, e ragazzine di 13 anni che diventano già consumatrici di cosmesi, vuol dire che culturalmente, tra i teenager, è cresciuto il diritto al piacere e il diritto al narcisismo; rispetto a valori educativi più tradizionali.

Ma questo è il frutto del ‘politically correct’? È colpa di Nanni Moretti? E Maria De Filippi è totalmente innocente?

Il marketing moderno, come sempre, da un lato, tiene conto della realtà ereditata, e dall’altro, crea desideri ex novo, e non si mette a fare certo i processi, a sé stesso, per il passato. Circa manipolazioni, poi rivelatesi, foriere di esiti pericolosi.

Se ci sono, nella società italiana, dei valori in circolazione che poco hanno a che vedere con Nazione, Patria, Famiglia, Rispetto del Sacro, Disciplina, Spirito di Comunità e Legalità, non è colpa del “cinema di sinistra”. E d’altronde, nessuno dovrebbe ritenerli valori sbagliati in sé. Ma vanno evitati, come su ogni cosa, feticismi e fanatismi. L’affermarsi di sentimenti collettivi più leggeri è il frutto della trasformazione dei comportamenti emotivi; propri di ogni Società che approda ai consumi di massa. E lo fa grazie a modelli, di stili di vita, veicolati attraverso i Media.

Sembra terminologia vecchia, e novecentesca, ma è inevitabile riproporla, perché si è usurato lo schema analitico autonomo della Politica. Una politica che è stata trasversalmente in difficoltà sul “conflitto di interessi” ieri, e lo è sul tassare le piattaforme OTT oggi. 

L’approccio ideale sarebbe stato quello di lavorare per un Industria culturale “forte”, capace di finanziare, l’indipendenza e la ricerca artistica, con gli stessi proventi dell’Industria; ovvero dei prodotti commerciali. Certo i prodotti commerciali non sono “neutri”. Incidono sull’immaginario e sulla educazione estetica. E cambiando l’immaginario, cambiano gli “orizzonti morali”; ma va messo nel conto.

Una mutazione che non ha dovuto aspettare l’avvento della televisione commerciale. Perché ampio, e fondativo, è il contribuito al fenomeno offerto dalla televisione pubblica all’epoca in cui operava ancora in regime di monopolio. Quella Rai TV stigmatizzata, sulle dune di Sabaudia, da Pier Paolo Pasolini. E poi le radio e le televisioni commerciali, e infine i Social Media hanno allargato un sentiero già tracciato.

Quindi, chiamare “dittatura” una certa tendenza ai contenuti ‘politically correct’ è una schematizzazione, certo spettacolare, ma eccessiva. Perché, quei contenuti, sono solo una parte di tutti quelli più consoni ad una società dove si vive, e quindi si consuma, più liberamente

Lo stesso Pasolini parlò di “Dittatura di Carosello” e di “nuovo fascismo” della televisione dei consumi omologanti. Un accanimento ignaro di quello che sarebbe successo dopo.

E siamo davanti ad una complessità certamente diversa dalla ‘vecchia leggenda’ (credibile) secondo la quale al PCI, visto che non avrebbe mai governato, gli si concedeva almeno “il cinema”. Per far vedere che si era in un Paese democratico. D’altronde fare cultura con i film, ma innovando storie, contenuti, linguaggi, ed anche incrementando la ricerca, finalizzata a prodotti economicamente autogeneranti, è sicuramente faticoso; ma non impossibile. Puntare a far coincidere una “alta resa” commerciale ed una “alta resa” artistica, nello stesso tempo, è oggi un dovere istituzionale di rispetto verso i contribuenti.

Investire in nuovi stili e linguaggi, sia qualitativi che remunerativi, non sempre costringe ad abbandonare la valorizzazione del patrimonio culturale Italiano. Quello storico e consolidato.

Non sempre sì è costretti a presentarlo in maniera noiosa, va sfatato un luogo comune. Certo c’è la scusa, ed è vero, che i giovani il Novecento non lo conoscono. Ma i millennial non conoscono neanche il ‘politically correct’ del cinema degli anni Sessanta, Settanta e forse persino Ottanta. Neanche quello monumentale e mondialmente riconosciuto. Quello dove, da Luchino Visconti a Lando Buzzanca, si raccontava, di classe operaia e proletariato, arretratezza del Sud, di diritti civili delle donne, o della necessità di una italica modernizzazione dei costumi sessuali. Così come, i millennial, non sanno molto di grandi eventi drammatici e reali di un passato non lontano.

Ed in questo il ‘politically correct’ qualche colpa ce l’ha. Se, per esempio, sanno qualcosa del rapimento di Aldo Moro, e non sanno nulla del più recente eccidio di Nassiriya, non è necessariamente un caso. E su questo Gennaro Sangiuliano non ha tutti i torti. A Nassiriya sono morti, per un attentato di Al-Qāʿida, tanti carabinieri, e anche un regista e autore cinematografico, Stefano Rolla. Che era lì per un documentario sulla spedizione.

I carabinieri, diceva qualcuno allora, il rischio di morte lo mettono in conto già all’atto di scegliere quella carriera. E questo, in molti ambienti a sinistra, ha avuto un effetto di depotenziamento del dramma. Concetto espresso bene nel libro, e nel film, 20 sigarette a Nassirya, di Aureliano Amadei, l’aiuto regista sopravvissuto. Ma al depotenziamento ha anche contribuito il fatto che il povero Stefano Rolla non avesse il physique du rôle di una celebrità ‘politically correct’.  Non era seguito dai quotidiani nazionali, o avvezzo ai red carpet, o alla poltrona del controverso Fabio Fazio.

Immaginate se oggi in un attentato analogo. morisse, insieme ai carabinieri, una nota personalità dei media. A scelta tra Walter Veltroni, Paolo Sorrentino, Michele Placido, Michele Riondino o Massimo Giletti. Immaginatevi l’esponenziale clamore aggiuntivo.

Dietro la teoria del “No alla dittatura del politically correct” c’era, da parte del ministro Sangiuliano, una sorta di “richiesta di risarcimento”. Un importante pezzo della storia intellettuale, e politica, d’Italia è stato ingiustamente oscurato, per decenni, dai media.

E, agli “oscurati” sono stati aggiunti i “non sufficientemente valorizzati e celebrati”. 

Associando Giuseppe Prezzolini a Dante Alighieri si è inteso sostituire il “Politically correct” con lo ‘historically correct’. Con il rischio che tutto si risolvesse in un accanito Derby tra i vari “Pantheon”, esibiti delle più svariate aree politiche di destra e di sinistra. E giocato a colpi di serie TV di prima serata domenicale, con i biopic dei personaggi storici, che ognuno ama di più, da una parte all’altra del Parlamento. Ovvero, competere se fare prima una fiction televisiva sulla vita dello stesso Prezzolini, oppure su quella di Piero Gobetti

Quindi il fischio di inizio, di un leale e sportivo Derby, è stato bruciato da più imprevisti:

  1. dalla presa d’atto che le micro-fiction della pubblicità “fanno cultura” a prescindere dai finanziamenti e dalle direttive dello Stato;
  • dalle esternazioni librarie del generale Roberto Vannacci, talmente politicamente scorrette, che si sono spinte “oltre i confini della Costituzione”, la quale avrebbe dovuto essere, di quel atteso Derby, il solido team arbitrale, compreso di Var. È come se in campo, prima della partita, il calciatore di una squadra tirasse una violenta pedata nella zona sub-addominale dell’arbitro, sirena di autoambulanza … e la partita viene sospesa;
  • la presa d’atto che l’Intelligenza Artificiale, con algoritmi collocati fuori dalla Nazione Italiana, e a prescindere dai finanziamenti dello Stato, può produrre grandi volumi di contenuti, su cose italiane e in lingua italiana, sia ‘politically correct’, sia che ne contrastano la dittatura, ma entrambe facendo fare profitti al di fuori dell’euro e della Nazione;
  • la scoperta che l’emergenza non è la “dittatura del politically correct“, ma c’è una “emergenza etica”, da decenni, del malatissimo sistema del finanziamento pubblico.

Gli stessi Pupi Avati e Pino Insegno, pur manifestando le loro simpatie per Fratelli d’Italia, come cineasti storici e attori, si sono sempre limitati a lamentarsi della “egemonia culturale”. Quella che marginalizzava chi “non è di sinistra”. Nessun accenno alle patologie del sistema in sé, nei suoi aspetti etici, tecnici efinanziari. Una tensione interna ad una élite, che viveva in un habitat malato. E che nessuno sembrava interessato a far guarire. 

Negli ultimi anni, i budget dal cinema si sono spostati verso la produzione televisiva seriale, e sono aumentate le ‘ore prodotto’ dove nella scelta dei contenuti è decisivo il volere del committente. 

Quindi, cambiando guida Ministero della Cultura e Rai, sarebbero cambiati i contenuti. Ma il ministro Sangiuliano ha scelto la moralizzazione finanziaria, che smaschera le falle del sistema. L’interrogativo non è più: su quali personaggi della storia finanziare le serialità televisive, ma se il corrente sistema di finanziamento di esse ha qualcosa che non va. Risulta pertanto inevitabile, a cascata, ripensare tutto l’intervento pubblico nella produzione culturale. Al Ministero della Cultura e al Parlamento tocca mettere mano a dispositivi come il Tax Credit (per ora solo per l’audiovisivo) o il massiccio e generalizzato, e ormai insostenibile, “fondo perduto”. Ed è proprio sempre lì, nella differenza tra “investimento” e “spesa”, il nodo della questione. Lì dove la “spesa” diventa “tutela museale” dell’esistente.

In Italia c’è una storica convergenza, tra destra e sinistra, sulla “priorità contenutistica”. E tutti sono posseduti da un’indole automatica che Immagina come “naturale” una Pubblica Amministrazione che eroghi soldi a fondo perduto, anche se a favore di un’industria di prodotti ad “unità ripetuta“. La riproducibilità del prodotto rende di fatto, industriale, e quindi “non di tipo tutelista o museale”, la motivazione del “sostegno pubblico”. Ma si diventa “industria” e non “museo conservativo” anche quando lo stesso spettacolo dal vivo produce utili di livello industriale. Ed è quindi un errore considerare lo spettacolo dal vivo come portatore di una “superiorità etnica” in sé, che lo porta ad avere più diritto di altri al sostegno pubblico.

La riforma dell’industria culturale e creativa

È evidente che nella riformabilità dei sostegni al cinema italiano, c’è il banco di prova della riformabilità di tutto il ruolo esercitato dalla Pubblica Amministrazione sull’industria culturale e creativa. E i vari comparti della nostra Repubblica (Stato, Regioni, Province e Comuni) si trovano oggi a scegliere su come agire in due ambiti principali: l’intervento sui “contenuti”, e quello relativo alla “razionalità economica” del sostegno al sistema. Ovvero, da un lato c’è il rischio statalista, dove chi si avvicenda alla guida dello Stato, cerca, com’è naturale, di evitare il formarsi di un’opinione pubblica “a favore dell’avversario”. E lo fa per guidare lo Stato, in modo più duraturo. Dall’altro, c’è, o si auspica, una impostazione più liberale, meritocratica, occidentale ed europea, che cerca di evitare che dietro al giusto sostegno dello Stato alla cultura, e alla Istruzione, si nascondano sprechi, ingiusti privilegi, clientelismo, se non addirittura riciclaggio di denaro sporco. 

Circa la razionalizzazione intelligente del sostegno finanziario, esso è atteso, financo, da vasti settori della produzione indipendente e dagli Outsider. Per loro è ormai evidente che chiedere aumenti della spesa, non sempre vuol dire aumento delle opportunità per i “nuovi talenti”.

Tra prima delle elezioni e dopo il suo insediamento a presidente della Commissione Parlamentare Cultura l’onorevole Federico Mollicone, di Fratelli d’Italia, aveva lanciato due idee che, nella dimensione internazionale, non sono certo patrimonio sola della destra. Parliamo della deducibilità dall’imponibile con “acquisti culturali individuali” come quello dei farmaci, e l’applicazione del “Tax Credit” anche al teatro. La prima proposta fu lanciata in un webinar organizzato da Symbola, con tutti i responsabili Cultura dei partiti, poco prima del voto del 25 settembre 2022. La seconda, ossia l’applicazione del “Tax Credit” anche al teatro, è stata ventilata, come ipotesi, dopo che Mollicone aveva cominciato a mettere mano alla questione Fus-exFus. Sia l’una che l’altra sono riforme di “buon senso”. Un po’ liberali, un po’ socialdemocratiche. Poco hanno a che fare con il conservatorismo o il sovranismo, o con la fine della dittatura del politically correct. Nel vasto mondo dei produttori culturali orientati a sinistra, quasi nessuno ha raccolto quelle due proposte. Eppure hanno un potenziale progressista enorme.

Da un lato la deducibilità dall’imponibile con “acquisti culturali individuali“, se ben gestita, favorisce:

  1. una inevitabile crescita della platea di spettatori in sala;
  • Il risparmio burocratico, e quindi finanziario, del prelievo e della redistribuzione del denaro fiscale; 
  • una maggiore equità nella redistribuzione sia geografica, sia di dimensioni delle imprese culturali beneficiarie, visto che è il singolo spettatore/fruitore che decide chi aiutare, comprando un biglietto cine-teatrale; 
  • una maggiore responsabilizzazione, dei produttori dei contenuti, nel fare marketing popolare a favore della propria opera. 

Le potenzialità di questo dispositivo sono enormi. La sua sperimentazione può essere utile ad un’applicazione più intelligente del “Tax Credit esterno”, sia per il cinema sia per il teatro. Non è altro che una evoluzione dell‘Art Bonus, e una forma di Tax Credit di massa.

L’offerta di deducibilità, “simil-sanità”, potrebbe essere decisa secondo area geografica, orari, città, mediante convenzioni con associazioni e varie altre modalità, dagli stessi produttori e distributori. 

Facciamo un esempio: mettiamo che il film Io parto da Fermo, riceva l’approvazione del finanziamento da parte del Ministero della Cultura (MiC). Ai produttori vengono offerte due opzioni: una quella finanziata in modo normale con 500 mila euro, e l’altra finanziata nella categoria bollino blu con 600 mila euro, di cui 200 mila sono erogati per pre-acquisto biglietti bollino blu, dove viene applicata la deducibilità. Lo Stato anticipa tutti i 600 mila, ma i 200 mila, del bollino blu, vengono girati ad una Banca (anche Pubblica) attraverso un credito agevolato. E la Banca lì eroga, a sua volta, ai produttori, sempre con la formula del credito agevolato, ma ipotecando i ritorni della vendita dei bollini bluLa distribuzione nelle sale, Regione per Regione, dei film MiC e bollino blu, è affidataalle Film Commission. E gli esercenti hanno il diritto alla cessione dello sfruttamento anche solo nella modalità revenue-share (percentuale sugli incassi). Senza il coltello alla gola del minimo garantito. In modo da poter offrire il massimo della capillarità, sociale e geografica, della diffusione.

In sintonia con la mission europea della riduzione dei divari, e di alcune modalità, già praticate, circa la distribuzione teatrale, e affidate a consorzi, o agenzie regionali pubbliche.

Certo occorre una armonizzazione tecnica visto che, a differenza di quello per il cinema, il finanziamento statale al Teatro è promosso per favorire poli produttivi o formativi, e non finanziare le singole opere prodotte, come nell’audiovisivo. 

Sta di fatto che la produzione culturale destinabile principalmente ai luoghi fisici, fatti di poltrone e platee, non vede, e non ha mai visto, in Italia efficaci e vincenti strumenti di Audience Development.

Né per le sale cinematografiche, né per le sale di spettacoli teatrali dal vivo. 

È assolutamente necessario evitare che la sopravvivenza di quelle sale, che sono sia indotto e sia creatrici di indotto nei centri urbani, finisca anch’essa nella palude della tutela museale e patrimoniale. Con sovvenzioni, sussidi, indennità e welfare dell’emergenza perenne.

Ed ulteriore attenzione va rivolta alla presenza di quegli esercizi nei centri storici, affinché essi contribuiscano a ridurre l’impatto di una esasperata gentrificazione turistica. Fatta di B&B, Food & Beverage e Souvenir

Una iniziativa non certo disapprovabile “a destra”, visto che i centri storici delle città italiane, di cui diversi classificati come patrimonio UNESCO, hanno una connessione indissolubile con l’identità della “Nazione”. 

Fenomeni globali di cui la piccola Italia e la sua poco parlata lingua sono vittime, obbligano a contromisure impegnative. Tali da costringere a un responsabile gioco di squadra; assolutamente trasversale.  Che non escluda nessuna forza politica nel Parlamento e nessuna componente sociale nel Paese. E, per fare ciò, tutti devono rinunciare a qualcosa. E guardare prioritariamente ai migliori dispositivi che davvero creano concrete controtendenze alla crisi. 

I piani alti di una certa “Sinistra dello Spettacolo” devono rinunciare alle loro rendite di posizione, e Ministro e Governo devono essere più pragmatici e mettere da parte la voglia di rivincite o la richiesta di risarcimenti ideologici.

Molte Pmi che producono Cinema o Teatro, ma in modo totalmente dipendente dal denaro pubblico, pur di pagare bollette e stipendi sarebbero disposte a un repentino “cambio di Pantheon”, pur che si lavori! E con loro anche autori e attori. L’importante, per loro, è che i meccanismi del sistema restino gli stessi. Conservando il combinato tra il “fondo perduto” e la “fatturazione creativa” per le rendicontazioni dei rimborsi. Malcostume strutturale, che spesso permette margini di utile ancor prima dell’uscita del prodotto.

Nel febbraio 2023 è stato ripubblicato il libro di Paolo Vita Finzi Le disillusioni della Libertà. I ritratti di diversi intellettuali, tra l’Ottocento e il Novecento, che si disillusero della democrazia, e prepararono il clima politico al fascismo. Nell’elenco dei ritratti, oltre ai più pirotecnici Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti, si avvicendano Benedetto Croce, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, e il citatissimo Giuseppe Prezzolini. Certo, rilanciare D’Annunzio, dopo l’interpretazione di Sergio Castellitto, con una serie televisiva diretta da Tinto Brass, e quella su Marinetti da Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out) il risultato sarebbe certo intrigante. Ma, in fondo, perché intrigante, e inquieta, è stata la vita dei due personaggi.

Ma mettiamo il caso che su Marinetti voglia fare un film Hollywood, affidandolo a Martin Scorsese, o a Steven Spielberg, con tanti soldi. Quello sarebbe cinema anglo-americano che valorizza l’Italia. Un po’ come Camera con vista, Il talento di Mr. Ripley, Vacanze romane e altri lungometraggi ambientati nella nostra Penisola. E ha più a vedere con le competenze e le mission delle Film Commission regionali, o della Sezione Cinema dell’Ufficio dell’Istituto Italiano per il Commercio con l’Estero di Los Angeles. Certo, se si vuole valorizzare davvero Marinetti nel mondo, tra Spielberg e il debutto alla regia di Pino Insegno con tutto il rispetto, la scelta non è difficile.

Un’operazione in grande stile, e che potrebbe facilmente raggiungere due obiettivi: 

  1. la diffusione e la valorizzazione mondiale di alcuni segmenti del patrimonio culturale, letterario e biografico, della storia d’Italia; 
  • un ritorno di investimento a partire dal dato che le produzioni industriali hollywoodiane riescono, con i profitti, a quintuplicare, come minimo, il valore monetario dei costi. 

Se davvero l’obiettivo legittimo, di una nuova stagione dell’intervento dello Stato nella cultura, è dare a figure come Prezzolini la giusta finestra televisiva e il “profilo Pop”, così come sono stati dati a Giuseppe Di Vittorio e Adriano Olivetti, oggi non si può evitare di tenere conto che lo scenario del mercato mondiale dei contenuti, solo rispetto a dieci anni fa, è cambiato. La necessità del ritorno sull’investimento si è fatta più stringente. Lo Stato, nel frattempo, non è risultato in grado di ridurre l’evasione fiscale né il debito pubblico, e nemmeno di tassare le piattaforme OTT, a tal punto da potersi permettere una potente produzione di contenuti, a prescindere dai ricavi sul mercato internazionale.

È interesse della “Nazione” produrre una “cultura nazionale internazionalizzabile”. Non è una sfida facile e, per affrontarla bene attrezzati, occorre fare molta chiarezza sui giusti compiti di ogni strumentazione.

  • C’è una produzione culturale che è complementare sia all’istruzione, sia alla formazione massiccia di una coscienza identitaria nazionale e civile. Dove la “Cosa Pubblica” procede per “campagne”, e indica “i temi di gradimento”. E attinge decisa al patrimonio storico, sia materico che intellettuale.
  • C’è un’altra produzione culturale che non prevede temi di gradimento, non procede per campagne, ed è il frutto, non prevedibile, della libertà e della qualità della creazione artistica ex novo.

Non è vietato mischiare le due cose, ma occorre molta consapevolezza progettuale. Altrimenti la confusione fa crollare la competitività e la sostenibilità del sistema. Per evitare la confusione occorre, assolutamente, medicare alcuni dispositivi malati. Che sia storica divulgativa o artistica creativa, per una buona produzione culturale bisogna assolutamente riformare sia la filiera della progettazione, siala filiera della commercializzazione-internazionalizzazione.

La progettazione di contenuti internazionalizzabili è di varie tipologie. Si può ideare un progetto, in Italia, dove però siano internazionali: a) il tema, b) l’intensità emotiva, c) Il cast, d) l’ambientazione.

Una o più combinazioni possono motivare un coproduttore estero, come anche dar vita a una produzione totalmente italiana, ma pensata soprattutto per i ricavi dall’estero.

L’Italia ha difficoltà a inquadrare e realizzare tutte queste opportunità, dentro una strategia consapevole.

La co-produzione estera viene vista, soprattutto, come un espediente per il completamento del budget di un film. Esempi e conferme eclatanti si sono avuti nel 2023, con Rapito di Marco Bellocchio a Cannes, e L’ordine del tempo di Liliana Cavani a Venezia. Dove la co-produzione di altri Paesi europei scaturisce dalla presenza di loro attori che interpretano personaggi italiani, o ne fanno i coniugi stranieri.  Il film di Bellocchio è fermo allo schema di gioco italo-francese del Luchino Visconti di Rocco e i suoi fratelli, con Alain Delon, (o di sé stesso con Lou Castel de I Pugni in tasca). E Liliana Cavani resta nel solco di Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, passando per Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci

L’esempio virtuoso che, più di tutti, si stacca dalla tradizione è L’amica geniale.

Bellocchio e Cavani sono parte integrante di quella “storica squadra”, con poca panchina, dei cineasti del “compromesso storico” ante litteram.

L’amica geniale, invece, non a caso è una serie televisiva di standard cinematografico, e, non a caso, la sua “centralità dell’autore” non sta nel cineasta, ma nello stesso scrittore del romanzo. L’attenta radiografia de L’amica geniale aiuta a spiegare molte cose. Il fatto che l’autore dell’opera sia sotto pseudonimo, porta al sospetto che potrebbe essere, anche, una scrittura collettiva. Che si avvale di una grande strategia di marketing. Un testo scritto non da uno solo scrittore, con tutte le sue controversie e sensibilità, ma da un brainstorming che si avvale della consulenza di sociologi, antropologi, psicologi e ricerche di mercato. Tutti coperti sotto lo pseudonimo, al fine di realizzare un bestseller. L’evidenza che l’operazione si avvicina a quelle fatte con il sussidio dell’intelligenza artificiale, merita una riflessione.

L’altro dato è che l’ambientazione storica, con la cura dei costumi e della scenografia, aumenta le possibilità di un successo globale. E nello stesso tempo è più razionale spalmarne i costi, su un minutaggio più ampio di prodotto finale. 

Ma, soprattutto, la cosa più importante è che sia una storia che funzioni! E che tocchi, in modo orizzontale ai continenti e alle culture, i tasti universali del disagio generazionale, dei sentimenti, e del conflitto tra la lotta individuale per la sopravvivenza e sentimenti umani solidali, tra la giusta verità e la necessaria menzogna. E questo con quaranta attori tutti italiani, niente affatto grandi celebrità da Red Carpet, ad eccezione di Alba Rohrvacher, entrata stranamente a sostituire una delle protagoniste. Perché l’esplosione di notorietà, di attrici semisconosciute, stava diventando destabilizzante?

Chi ha anche puntato con successo alla scelta del “tuffo nel passato” è stata Paola Cortellesi con il suo C’è ancora domani. E la simulazione/omaggio al cinema italiano bianco e nero, riscritto al femminile con spruzzi tragicomici, sembra essere riuscita. A sembrare in difficoltà è il lungometraggio drammatico ambientato nella contemporaneità e destinato alle sale. Forse il pubblico non esce di casa, se deve vedere richiami alla cronaca nera vista in televisione.

La contemporaneità delle storie, sembra, ormai terreno favorevole per le commedie. E se la tendenza è davvero quella dell’ambientazione nel passato, la questione delle risorse finanziarie diventa impellente. Il lungometraggio “monopezzo” sta diventando diseconomico. Quindi c’è l’esigenza di passare a una nuova stagione, ad un salto di qualità nelle modalità di scrittura di un progetto cinematografico e audiovisivo. E dovrebbe essere urgente l’agire; per tutte le aree culturali e politiche. Ma alla base ci deve essere una trasversale condivisione dell’obiettivo. Quello di rendere più autosufficiente il sistema-cinema italiano. Un campo specifico dove un po’ di sovranismo, protezionismo e orgoglio identitario non guasterebbe.

Bisogna superare i pregiudizi e il feticismo ideologico. Se non ci si dà la mission dell’autosufficienza, a partire dalla progettazione, è più difficile raggiungerla con le altre successive fasi del ciclo del prodotto.  Anche perché, l’apporto dell’intelligenza artificiale potrebbe invadere il mercato con una magmatica offerta di script, ovvero di sceneggiature. Oltre a rendere più facile e veloce l’elaborazione di “progetti su commissione”.

L’Intelligenza Artificiale come sceneggiatrice e i limiti della programmazione europea 2021-2027

Proviamo a fare un gioco. Chiediamo a chatGPT: mi scrivi una sceneggiatura di un film di quattro ore sulla vita di Giuseppe Prezzolini con lo stile, il linguaggio e le capacità di John Cassavetes? O di Clint Eastwood. Ma anche con altri cineasti, da una lista a piacere.

Certo, se vogliamo evitare che l’intelligenza artificiale metta in crisi il sistema italiano, prima di tutto bisogna essere un sistema autosufficiente, ovvero che vive di forza propria, e non di sussidi. E non bisogna evitare l’intelligenza artificiale, ma prenderla per le corna

Se il futuro prevede una riduzione del peso specifico dell’Europa, nel mercato mondiale, la teoria della “eccezione culturale” può diventare una zavorra che zavorra sé stessa. L’obiettivo dei fondi europei è sempre di più la riduzione dei divari interni all’Europa, agli Stati e alle stesse Regioni. Con il fine ultimo di ridurre lo stesso divario dell’Europa con il resto del mondo. Ma anni fa si è deciso di fare “eccezione” per il Cinema e per la Cultura. Perché non si possono azzerare le lingue e le culture nazionali, in nome di una maggiore competitività dell’intera Europa. Da qui il concetto dell'”eccezione culturale”.

Da diversi anni i fondi europei destinabili al cinema transitano principalmente dalle Regioni. Anche se l’Europa non li eroga con una precisa destinazione per il cinema.

Ed è questa la causa principale di un ritardo della armonizzazione delle Film Commission. Nonostante siano passati sette anni dalla Legge 220/2016 detta “Riforma Cinema Franceschini”. L’armonizzazione è difficile, anzi impossibile! Perché le Regioni utilizzano chi i fondi europei, chi i fondi ordinari.

Ma finendo sempre per coadiuvare gli aspetti più malati del vecchio sistema centralistico. Sistema che si illude di essere più forte proprio perché centralistico. Ma non lo è affatto. Lo storico “polo romano” chiede, di fatto, alle Regioni, di mettersi al suo servizio. Nelle Film Commission, a sette anni dalla Legge che le dovrebbe regolare, c’è ancora confusione interpretativa circa la stessa Legge. Le Regioni continuano a voler essere le uniche utilizzatrici della definizione Film Commission.

Più si riducono i fondi attrattivi, e più questa presunzione, delle Regioni, fa acqua. Perché un servizio di assistenza “Film Commission” in ogni Comune e in ogni Provincia, renderebbe capillare e qualificata l’offerta di servizi e competenze. Un allargamento che crea più attrattività, soprattutto verso le produzioni straniere, e senza aumento di costi.

Ma le Film Commission continuano a essere incartate in un ruolo soprattutto di sostegno finanziario. Quelle che usano fondi ordinari hanno minori budget (Emilia Romagna e Sicilia, per esempio) e non hanno gli obblighi dell’Unione Europea che predilige le PMI delle filiere della singola Regione. Quelle che utilizzano fondi europei (Marche e Puglia per esempio) hanno più budget, ma devono essere in linea con la programmazione europea. Ma quella per il periodo 2021-2027 non ha più il Focus specifico sulle imprese culturali e turistiche, e sostiene, con una unica “misura” tutte le PMI, senza privilegi e risulta più arduo quindi ritagliare una consistente fetta di budget specifica per le opere audiovisive. 

Quindi la forzatura per finanziare, con Fondi Europei Sviluppo Regionale Fesr 2021-2027, singole opere audiovisive, è assai spericolata. Se poi i regolamenti dei Film Fund si allineano ai regolamenti del fondo Ministeriale Divisione Cinema, lo scenario si fa ancora più confuso, e la coerenza con le mission europee si fa ancora più precaria.  

La letteratura dei nuovi Fondi Europei Sviluppo Regionale ha mission diverse da quelle del Ministero della Cultura. Copiare i bandi ministeriali vuol dire stravolgere la finalità dei fondi europei, che sono destinati all’accompagnamento ed all’avviamento delle PMI e delle microimprese, verso i successivi livelli di crescita. Invece il facsimile ministeriale costringe i fondi regionali ad essere dei fondi di “completamento budget”. Ovvero, per ricevere il finanziamento per un lungometraggio, da un fondo regionale, bisogna avere una S.r.l. con 40 mila euro di capitale sociale, una quota di budget già coperto (dal 20 al 40 per cento), e una distribuzione già col contratto. Tutti profili di impresa già assestati sui livelli alti dell’essere PMI, e praticamente assenti in tutte le Regioni escluso il Lazio.

Buttando così alle ortiche le mission europee per l’accompagnamento alla crescita e la riduzione del divario. Da nessuna parte, negli indirizzi sull’uso dei Fondi Fesr, si parla di finanziamento a fondo perduto di singole opere audiovisive. Finanziare le singole opere vuol dire finanziare l’intermittenza, a scapito della produzione e del lavoro stabilizzato. I Fesr non vietano di usare i Fondi per dar vita a poli produttivi di continuità. Come per esempio, la lunga serialità dei cartoni animati, delle sit-com o delle soap. (vedasi le Winx a Loreto e Un posto al Sole a Napoli). Né vietano di usare i Fondi in una sostenibile modalità di investimento industriale con un indice di redditività (ROI) efficiente. Con coproduzioni e partecipazione in percentuale. Le Film Commission potrebbero moltiplicare per venti le finestre di opportunità che offre loro il Ministero della Cultura.

Il numero dei richiedenti, regione per regione, è elevato. Se si procede solo con il fondo perduto la platea dei beneficiari sarà sempre ristretta. I Fesr non obbligano al fondo perduto, perché non sono risorse destinate alla tutela della “cultura italiana”. Per l’Europa l’importante è la coesione sociale e la riduzione dei divari. L’Europa può anche aiutare lo sviluppo di un laboratorio a Tagliacozzo, che realizza simulazioni di cartoni animati giapponesi, A/R e V/R, doppiati in spagnolo da attori del luogo. L’importante è che non emigrino a Roma, o ad Amsterdam, e che non vivano solo di sussidi.  

Il fatto che la produzione, e la sperimentazione, A/R e V/R sia “ferma al palo” in tutti i fondi regionali italiani, svela quanto le Film Commission si siano fatte speculari, non tanto al Ministero della Cultura, che una misura di finanziamento per i videogiochi culturali l’ha almeno varata, quanto alla storica foresta delle Società di Produzione che vivono nell’attesa di assemblare risorse pubbliche. E nulla rischiano su un mercato in costruzione come quello della multimedialità immersiva.

Se il Ministro Gennaro Sangiuliano ha scoperto le scandalose anomalie del Tax Credit, sulle serie televisive ha il dovere di approfondire e radiografare tutte le anomalie. Forse non saranno tutte anomalie, o comportamenti irregolari, ma sicuramente emergeranno sprechi fatti in buona fede. Ma il danno materiale al nostro sistema, c’è comunque. E non è mai troppo tardi per porvi rimedio.