La riflessione

Democrazia Futura. Centrosinistra: una parola sola o il trattino in mezzo?

di Gianluca Veronesi, ex dirigente Rai, già direttore della Comunicazione e delle Relazioni esterne Rai |

Perché il PD non riesce a liberarsi dal tabù del “Pas d’ennemis à gauche”. L’unico partito storicamente sopravvissuto, visto come una istituzione, un riservato luogo dove si svolgono felpate guerre di potere.

Gianluca Veronesi

L’analisi semiseria di Gianluca Veronesi delle forze in campo, in questa breve quanto noiosa campagna elettorale, prosegue con un breve contributo sul centrosinistra e sulla difficoltà che vive nella fattispecie il Partito Democratico. “Contrariamente alle elezioni di un tempo, quando stavano a casa soprattutto i qualunquisti, i clericali, gli analfabeti di ritorno, oggi sono i ceti intellettuali (che votavano disciplinatamente a sinistra) ad astenersi, snobisticamente disgustati. Forse perché nell’epoca internettiana della ignoranza compiaciuta ed esibita non se li fila più nessuno“.

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Carlo Calenda sostiene che il PD non riesce a liberarsi di un tabù, una sorta di peccato originale.
Una sindrome che potremmo riassumere in: “nessuno alla nostra sinistra”.

Come dire (mia interpretazione) che i democratici rappresentano un movimento riformatore, interclassista, a vocazione maggioritaria (copyright Walter Veltroni) e dovrebbero accettare al loro fianco – nella logica di un’alleanza strategica e non solo elettorale – una forza di sinistra non astrattamente massimalista ma più organicamente schierata.

Perché il rischio che il PD appaia ad alcuni moderato e “asservito”  e ad altri poco riformista (e sempre pronto al compromesso) è forte.

È il destino dei partiti cerniera, direte voi. È vero ma se i democratici pensano che aggregare temporaneamente Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli – con tutto il rispetto – basti a rinforzare il loro profilo popolare e militante sbagliano.

Con il risultato che quelle banderuole dei 5Stelle possono permettersi, dopo avere governato con Matteo Salvini, di scavalcare Enrico Letta a sinistra.

Giuseppe Conte con la “non fiducia” a Mario Draghi ha svolto il ruolo di “utile idiota” in favore di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi che hanno potuto compiere il delitto senza sporcarsi di sangue.
Ma credo sia comunque soddisfatto di avere abbattuto l’uomo da lui più odiato (dopo Renzi).
D’altronde se Letta avesse, in queste condizioni, tenuto aperto un dialogo con i pentastellati non solo avrebbe precluso ogni ragionamento con Carlo Calenda e Matteo Renzi (fallito poi comunque) ma avrebbe perso tantissimi dei suoi elettori, fuggiti cinque anni fa verso i “vaffa” di Beppe Grillo e poi recuperati piano piano nei turni delle amministrative.

Non puoi mancare di rispetto ad un pentito che ha chiesto scusa.

Contrariamente alle elezioni di un tempo, quando stavano a casa soprattutto i qualunquisti, i clericali, gli analfabeti di ritorno, oggi sono i ceti intellettuali (che votavano disciplinatamente a sinistra) ad astenersi, snobisticamente disgustati. Forse perché nell’epoca internettiana della ignoranza compiaciuta ed esibita non se li fila più nessuno.

La mia impressione è un’altra. Il Partito Democratico, l’unico storicamente sopravvissuto, è visto come una istituzione, un riservato luogo dove si svolgono felpate guerre di potere. Un’accademia seriosa – ossessionata dal permanere al governo tramite ministri inamovibili – che c’è sempre stata e sempre ci sarà.

Siccome di questi tempi le istituzioni sono viste come distanti, retoriche e anacronistiche, immaginatevi che glamour comunica  il PD, il luogo meno sexy della politica italiana.

Se ci aggiungete come segretario Enrico Letta, persona seria competente un po’ professorale, che parla dei giovani e ai giovani come farebbe un preside (lo è stato, di una delle scuole più prestigiose al mondo) la frittata è fatta.

Sulla scena politica italiana dove trionfa il populismo, il movimentismo, il complottismo e il doppiogiochismo, quando ti attribuiscono la patente di “responsabile”, coerente, affidabile è ora di preoccuparsi.