Il conflitto

Democrazia Futura. Armenia, nazione sofferente tra incudine e martello

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in Storia contemporanea |

Giulio Ferlazzo Ciano ci ricorda il conflitto dimenticato nel Nagorno-Karabakh, che riporta all’attualità la pulizia etnica. Storia di una crisi che non sembra ancora finita.

Giulio Ferlazzo Ciano

Giulio Ferlazzo Ciano affronta per Democrazia futura – come recita l’occhiello -“Il conflitto dimenticato nel Nagorno-Karabakh [che] riporta all’attualità la pulizia etnica. Storia di una crisi che non sembra ancora finita”, e di un conflitto, quello azero-rmeno, di cui l’Europa sembra purtroppo disinteressarsi. Il lungo articolo del giovane storico “Armenia, nazione sofferente tra incudine e martello”, partendo dalla situazione attuale ovvero da “La tenaglia russo-turca sull’Armenia” e da “Il problema giuridico del Nagorno-Karabakh (Artsakh)” ripercorre nel tempo le cause “Alle origini della contesa [ovvero] i diritti storici dell’Armenia sulle sue regioni orientali”, inquadrando  “Il Łarabał (Nagorno-Karabakh) nella cornice storica dell’Armenia moderna” arrivando infine ad affrontare  “La dissoluzione dell’URSS e la prima guerra del Nagorno-Karabakh [quando] nasce l’Artsakh”, quindi “La cricca del Łarabał e la disfatta armena nella seconda guerra del Nagorno-Karabakh” e infine “La terza guerra del Nagorno-Karabakh (19-20 settembre 2023) e la dissoluzione dell’Artsakh”. “Il conflitto, sebbene sia durato appena due giorni, ha provocato e sta tuttora provocando una fuga di massa di armeni dalle rimanenti regioni dell’Artsakh, compresa la capitale Stepanakert, occupata dalle forze armate azere […] La fuga in sé non sembra essere provocata da violenze diffuse o pogrom, ma – chiarisce Ferlazzo Ciano – è semmai il risultato congiunto del crollo repentino dell’ultimo bagliore di autorità armena nella regione, assieme al timore che il Nagorno-Karabakh, una volta che sia sottoposto a controllo diretto delle autorità azere, possa essere l’obiettivo di una campagna di pulizia etnica anti-armena.”.

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Celebre è l’aforisma attribuito a Porfirio Díaz, due volte presidente del Messico fra il 1877 e il 1911, che recita: «pobre México, tan lejos de Dios y tan cerca de los Estados Unidos». Lontananza da dio e vicinanza agli Stati Uniti come sintesi di un disgraziato determinismo geografico che avrebbe sfavorito la nazione più antica delle Americhe per il solo fatto di ritrovarsi l’ingombrante e arrogante potenza anglosassone alle sue frontiere. Noi potremmo replicare: c’è chi sta molto peggio, sempre geograficamente e divinamente parlando. L’Armenia, ad esempio: forse non lontana da dio, ma senz’altro troppo vicina alla Turchia e alla Russia. Tale pericolosa vicinanza sembra rappresentare negli ultimi due secoli lo sfortunato “destino manifesto” per questa piccola e antichissima nazione alle porte dell’Europa, stretta letteralmente tra l’incudine e il martello.

La tenaglia russo-turca sull’Armenia

Nelle ultime vicende, che si trascinano dal 2020, il ruolo dell’incudine sembra essere spettato alla Russia, potenza formalmente amica che pur non ha mosso un dito per difendere le ragioni dell’Armenia di fronte all’aggressione azera, mentre il martello lo ha usato la Turchia tramite la nazione sorella, l’Azerbaigian, che condivide con lo Stato anatolico solidissime radici culturali e linguistiche nonché rilevanti interessi strategici[1].

Si potrebbe sintetizzare in modo allegorico che l’Azerbaigian e la Turchia picchiavano la vittima mentre la Russia la teneva ferma e dio, poveretto, stava a guardare. Tragica sorte. Ma non solo dio è rimasto a guardare. In una certa qual misura anche l’Europa se ne è lavata le mani del conflitto armeno-azero, al di là delle dichiarazioni di circostanza per una rapida soluzione del conflitto e l’invio di osservatori, sia nel settembre-novembre 2020, quando non c’era neppure la scusa dell’aggressione russa all’Ucraina, sia durante lo scorso settembre, ultimo atto, almeno per ora, della tragedia.E d’altra parte si deve pur comprendere la ritrosia europea ad impegnarsi a favore della causa armena: nessuno potrebbe aiutare l’Armenia, così come è stato fatto per l’Ucraina, perché la geografia è nemica del piccolo Stato caucasico non meno dei suoi ingombranti vicini. Eventuali aiuti militari dovrebbero, infatti, passare da uno spazio aereo turco che verrebbe molto probabilmente interdetto, mentre la mancanza di uno sbocco marittimo sul Mar Nero cambia comunque poco, visto che, qualora l’Armenia avesse anche un affaccio su quel mare, si ritroverebbe comunque ostaggio della Turchia, la quale si farebbe forza della convenzione di Montreux del 1936 per limitare negli Stretti l’ingresso di naviglio militare o di navi mercantili con carichi militari, inviati a fornire gli aiuti necessari alla difesa del territorio armeno aggredito dagli azeri. Questi ultimi peraltro ampiamente riforniti degli efficaci droni Bayraktar TB2 da Ankara. Da parte russa inoltre ci sarebbe tutto l’interesse a gestire in forma esclusiva il giardino di casa transcaucasico e si può credere che Mosca si premurerebbe senz’altro di impedire qualsiasi aiuto militare che non fosse il suo. Senza dimenticare che il presidente-autocrate dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, è un benevolo fornitore all’Europa di una parte di quel gas che non può più essere importato dalla Federazione Russa.

Insomma, non c’era e non c’è speranza che l’Armenia ne esca sana e salva, perché chi può distribuire le carte in quella tenaglia caucasica sono solo due Stati, uno di questi ormai nemico dichiarato dell’Occidente, l’altro ambiguo e desideroso di estendere la sua influenza sul retroterra turanico centro-asiatico, creando un sicuro corridoio di transito con il suo doppio di taglia minore affacciato sul Caspio. Ci sarebbe invero un terzo Stato, l’Iran, il quale, pur mantenendo buone relazioni con l’Armenia, ha evidenti ragioni per non intervenire, almeno alla luce del sole. Rimanendo ai due Stati che spadroneggiano in Transcaucasia, è bene aggiungere un dettaglio: l’Armenia, a differenza delle altre due ex repubbliche sovietiche confinanti (Azerbaigian e Georgia), aderisce dal 1992 all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), sorta di Nato russa, e ospita ancora sul suo territorio, nella città di Gyumri, una base militare russa con diverse migliaia di effettivi. Eppure tale vantaggio non le è servito a evitare le due umiliazioni recenti, dato che non solo i militari russi di stanza in Armenia hanno ricevuto ordini di rimanere nelle caserme, ma tale ordine può essere stato motivato per punire le relazioni pericolose intrattenute dal governo armeno con l’Occidente. Si ritornerà più avanti sulla questione.

Il problema giuridico del Nagorno-Karabakh (Artsakh)

C’è poi un problema che riguarda espressamente il diritto internazionale. Perché in effetti l’Azerbaigian, nel 2020 e nel 2023, non ha attaccato direttamente il territorio armeno, semmai quello del Nagorno-Karabakh, una regione formalmente appartenente all’Azerbaigian, ma occupata dall’Armenia fin dal 1992, assieme ad alcune vaste aree circostanti che garantivano la continuità territoriale tra quella regione la madrepatria. Tale regione era stata durante la dominazione sovietica un’enclave etnicamente armena, l’oblast autonomo del Nagorno-Karabakh, ritagliato dal 1923 all’interno dei confini di quella che sarebbe diventata la Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian. Nel 1994 il Nagorno-Karabakh occupato dall’esercito armeno dichiarò l’indipendenza sotto il nome ufficiale di Repubblica dell’Artsakh. Il nuovo Stato non ebbe alcun riconoscimento internazionale, se non da parte di alcune altre repubbliche secessioniste nate nell’ex spazio sovietico, e neppure da parte dell’Armenia, la quale tuttavia per quasi tre decenni se ne servì e ne foraggiò le forze di autodifesa in chiave anti-azera, garantendosi un’espansione territoriale verso est senza comparire ufficialmente come nazione occupante. In fondo una copia conforme del gioco di Vladimir Putin con le repubbliche secessioniste filorusse. Ultime arrivate le ormai celebri ex repubbliche di Doneck e Lugansk, trasformate a tutti gli effetti in regioni della Federazione Russa. Il dilemma dell’Occidente nei confronti dell’Armenia era dunque anche questo: come poter difendere le ragioni armene nel Nagorno-Karabakh dovendo allo stesso tempo difendere le ragioni di una repubblica secessionista, tale e quale Doneck e Lugansk? Un dilemma piuttosto imbarazzante. Che poi non tutte le repubbliche secessioniste nascano con la coscienza sporca è un’altra questione e l’Artsakh la coscienza sporca l’aveva meno di altre. Tuttavia il diritto internazionale è, come spesso capita alle norme troppo astratte, una camicia di forza che non è sempre in grado di distinguere tra le ragioni dei contendenti, pretendendo di dirimere controversie in modo freddo e distaccato, pesando torti e ragioni sulla sola base di trattati e convenzioni internazionali. E l’Artsakh, secondo il diritto internazionale, non aveva ragione di esistere, così come Doneck e Lugansk. Il fatto che la condanna a morte per l’Artsakh sia stata eseguita dall’Azerbaigian su commissione di due Stati, Turchia e Russia, storici produttori di analoghe repubbliche secessioniste, è un mero dettaglio che al diritto internazionale non interessa[2].

Alle origini della contesa: i diritti storici dell’Armenia sulle sue regioni orientali

Volendo invece esprimersi in modo smaliziato sul diritto dell’Artsakh ad esistere, viene in soccorso la storia e l’etnografia, così che, dove il diritto internazionale non riesce a dirimere la questione e ad esprimersi sul preteso diritto dell’Armenia ad estendere i suoi confini verso est (per interposta repubblica secessionista), se ne può ragionare in termini di diritti storici e di autodeterminazione dei popoli. In questo senso è importante mettere in chiaro un fatto incontrovertibile: l’Armenia è una nazione antichissima, così antica che è persino dibattuta la sua origine.

Per alcuni accademici e studiosi gli armeni sarebbero giunti a partire dal 1200 a.C., forse dalla Frigia o persino dai Balcani, a stanziarsi ai margini orientali dell’Anatolia e a sud del Caucaso, in una regione d’alta quota segnata da catene montuose, coni vulcanici (il monte Ararat) e altipiani, dalla quale originano i due rami superiori dell’Eufrate, il Tigri, l’Arasse e il Kura. Gli armeni si sarebbero così sostituiti progressivamente alle popolazioni preindoeuropee che avevano costituito nella stessa vasta area il regno di Urartu. Per altri, invece, la presenza armena sarebbe addirittura anteriore e alcune iscrizioni accadiche risalenti al 2250 a.C. ne attesterebbero l’esistenza già allora, lasciando supporre per l’origine linguistica di questo popolo prestiti dall’ittita e dal luvio[3].

Al di là delle due ipotesi è indubbio che gli armeni hanno abitato questa vasta regione di circa 300 mila chilometri quadrati per almeno due millenni prima di trovarsi a fare i conti con le prime infiltrazioni turche a ovest del mar Caspio, in direzione dell’Anatolia. Il primo Regno armeno indipendente esistette però solo a partire dal 188 a.C. In effetti già in epoca antica si poteva constatare come il destino di questo popolo fosse quello di ritrovarsi conquistato dalle potenze imperiali confinanti, oppure indipendente, ma sottoposto ai tentativi di conquista da parte delle stesse potenze confinanti, vecchie o nuove che fossero. E così, dopo che il regno di Urartu fu sottoposto alla dominazione persiana degli Achemenidi e in seguito dei Seleucidi, riebbe vita, come si diceva, nel 188 a.C., un regno armeno sotto la dinastia autoctona degli Artaxiadi. Questo regno sopravvisse indipendente per qualche secolo, stretto tra l’Impero persiano (dal III secolo a.C. sotto la dinastia degli Arsacidi, conosciuti anche come Parti) e la Roma repubblicana e poi imperiale. Inutile ripercorrere le alterne vicende che determinarono le sottomissioni e le spartizioni dell’Armenia fra le due potenze imperiali, semmai, ai fini della trattazione, è bene considerare che gli scavi archeologici effettuati nel Nagorno-Karabakh hanno portato alla luce un insediamento urbano del I secolo a.C., da ritenere fondato dal re armeno Tigrane: una delle tante città fondate da questo grande sovrano conquistatore per controllare i traffici commerciali diretti verso l’Iberia (l’odierna Georgia) e il Caspio[4].

Un segno, in sostanza, dell’estensione, già in età antica, delle regioni popolate da genti armene, mischiate peraltro con elementi iranici e talvolta influenzate dalla cultura ellenistica.

Frattanto l’Armenia si trovava ancora tra l’incudine e il martello: a ovest all’Impero romano subentrava, alla fine del IV secolo, l’Impero bizantino, mentre a est ai Parti succedevano i Sasanidi (224-metà del VII secolo), quindi il dominio arabo dei califfi omayyadi e abbasidi (dalla metà del VII secolo).

Da un punto di vista strettamente politico si assistette alla definitiva perdita dell’indipendenza armena nel 428, a seguito dell’annessione alla Persia sasanide. Tuttavia la cultura e le tradizioni armene sopravvissero, arricchite dalla diffusione del cristianesimo (adottato come religione ufficiale dal re Tiridate nel 301)[5] e dall’adozione di un proprio alfabeto nella prima metà del V secolo. Nell’Armenia sasanide erano peraltro garantite la nomina di un governatore (marzban) armeno, l’autonomia giuridica dei naxarar (aristocratici) armeni e la libertà di culto[6]. Tale condizione sopravvisse persino sotto il dominio arabo (riconosciuto da un’assemblea di naxarar nel 661), quando in Armenia si costituì addirittura un fiorente Stato tributario semi-indipendente sotto la dinastia dei Bagratidi[7].

Ma il destino aveva in serbo un drastico cambiamento degli equilibri etnici e territoriali.

Nella loro epica migrazione verso ovest, i nomadi turchi entrarono in contatto fin dal IX secolo con il buddhismo e soprattutto l’islam, che di fatto determinò la trasformazione ed evoluzione culturale che portò questa popolazione delle steppe mongoliche a sostituirsi al dominio arabo nei territori che erano stati persiani, per passare poi in Mesopotamia e in Siria, premendo da est verso i confini dell’Impero bizantino, che finì per esserne travolto. L’apparizione dei turchi selgiuchidi, una confederazione di tribù turche in cerca di terre da conquistare e dominare, fece crollare il califfato abbaside, conquistando Baghdad nel 1055 e lanciando spedizioni di conquista nelle regioni limitrofe: nel 1064 Ani, la capitale del regno bagratide, fu espugnata dai turchi selgiuchidi e nel 1071, sempre in territorio armeno, non distante dal lago di Van, avvenne la catastrofica (per i bizantini) battaglia di Mantzikert, che consentì ai turchi di dilagare in Anatolia, costringendo i greci a ritirarsi a ovest, mentre i turchi costituivano il loro primo dominio nella regione, quel sultanato di Rûm che già nel nome (Rûm è la traduzione fonetica di “Roma”) dichiarava il suo obiettivo di conquista a lungo termine[8].

Per qualche tempo nelle regioni storiche dell’Armenia si ricostituì uno Stato semi-autonomo sotto la dinastia armeno-georgiana dei Bagrationi, che contese più volte ai turchi le terre armene, nei secoli XI e XII, mentre i naxarar garantivano un controllo diretto su intere regioni e sui monasteri[9]. Un’altra minaccia era tuttavia all’orizzonte: nel 1231 i mongoli attaccarono l’attuale Azerbaigian e nel 1235 iniziarono la conquista della regione transcaucasica, conquistando Ani nel 1236. Una rivolta armeno-georgiana nel 1249 fu duramente repressa e costrinse i nobili locali a pagare il tributo e a sottoporsi agli obblighi militari al comando delle orde mongole[10].

Fu in questo momento che, presumibilmente, iniziò ad essere più consistente la colonizzazione dello spazio armeno da parte di popolazioni di origine turca o mongolica, queste ultime convertite all’islam. Si stavano gettando allora le basi del rivolgimento etnico della regione, fino ad allora popolata in massima parte da armeni.

«Sul piano economico erano avvenuti profondi cambiamenti: l’agricoltura, principale fonte di vita per gli armeni, contadini sedentari, era stata rovinata dalle diverse esigenze delle popolazioni nomadi che avevano bisogno soprattutto di pascoli per i cavalli e per il bestiame vario. […] In sostanza, durante tutto il XIII secolo e una parte del XIV si ripeté una ricorrente formula geopolitica: le varie ondate di invasori occupavano un territorio i cui abitanti opponevano inizialmente una resistenza più o meno tenace; alla fine però prevalevano i nuovi arrivati»[11].

In quella vasta regione, nota come Grande Armenia (in contrapposizione a un Regno detto della Piccola Armenia, sorto lungo le coste della Cilicia e destinato a scomparire nel 1375), con l’indebolimento del potere centrale mongolo scoppiarono conflitti tra i dinasti locali, di origine mongola, turcomanna e curda, che da tempo ormai vessavano la popolazione nativa locale[12]. Tali fenomeni accelerarono il processo di frammentazione etnica della vasta regione storicamente popolata da armeni, nella quale si infiltrarono progressivamente nuclei consistenti di popolamento turco, curdo e azero. Gli azeri, nello specifico, erano popolazioni di etnia turca o turcomanna (per questo indicati dalle fonti russe, ancora a inizio Novecento, come “tatari”) che iniziarono ad assumere una loro configurazione culturale e linguistica definitiva all’indomani dell’invasione di Tamerlano (1386) e allo stabilirsi di un potere timuride, culturalmente turco, durante la prima metà del XV secolo.

Il Łarabał (Nagorno-Karabakh) nella cornice storica dell’Armenia moderna

La storia del Nagorno-Karabakh si inserisce pienamente in tale cornice storica: trattasi originariamente di una porzione di una storica regione armena nota come Arc’ax[13], progressivamente circondata da insediamenti tataro-azeri che si riferirono a quel territorio con un toponimo turco-iranico, Dağlıq Qarabağ, il cui significato sarebbe “giardino-nero montano”, a cui il dominio russo aggiunse il prefisso Nagorno (superiore) a sottolinearne l’assetto orografico. Gli stessi armeni dal XIII secolo presero in prestito il toponimo turco-iranico e lo adeguarono alla loro fonetica, tramutandolo in Łarabał[14]. Tanto più che, col passare dei secoli, quello che era stato l’Arc’ax degli antenati aveva subito una progressiva ma inesorabile erosione della dimensione etnica ad assoluta maggioranza armena, a vantaggio dei nuovi venuti. Rimase giustappunto una sola porzione di quel territorio, il Łarabał, a mantenere quasi inalterata la presenza armena.

Frattanto il dominio straniero sulla regione si sarebbe consolidato grazie alla spartizione fra due grandi imperi: a ovest quello ottomano, ovvero l’ex Impero bizantino finito sotto il controllo dei sultani discendenti della dinastia turca degli Osmanlı, che dal 1453 si insediarono nella città che era stata Costantinopoli; a est quello persiano, transitato attraverso tutto il Quattrocento da una condizione di sudditanza a dinastie timuridi e turco-mongoliche, a una rinnovata potenza sotto la dinastia autoctona degli sciiti Safavidi, a partire dal 1501.

Posta in gioco dell’inevitabile conflitto tra le due potenze imperiali musulmane era l’Armenia. Guerre, saccheggi e distruzioni, seguite da deboli tregue, si succedettero quasi senza sosta tra il 1555 e il 1639, quando il trattato di Qasr-e-Shirin pose termine definitivo alla contesa e stabilì la frontiera tra i due imperi lungo quella linea, ancora oggi esistente, che è il confine tra Iraq e Iran e tra Turchia e Iran. L’attuale territorio della Repubblica Armena (erede dell’ex Repubblica sovietica) fu interamente compreso nell’Impero persiano e così anche il Łarabał.

Tra l’altro, nel 1604, lo shah Abbas “il Grande”, in occasione dell’ennesimo conflitto con gli Ottomani, durante il quale si trovò costretto a una ritirata, portò con sé a Isfahan, nel corso di una vasta campagna di deportazione, gran parte della popolazione armena che popolava le regioni occidentali dell’odierno Azerbaigian indipendente, al fine di farne terra bruciata[15]. Il Łarabał, dopo questo esodo biblico, era ormai rimasto un’isola etnica armena, per quanto abbastanza vasta, circondata da comunità tataro-azere.

Il progressivo indebolimento politico-militare della Persia, evidente già dal XVIII secolo, incoraggiò la crescente potenza russa a sottrarre ai persiani le regioni settentrionali del loro impero, popolate da georgiani, tatari (azeri) e armeni.

Nel 1796 iniziò la conquista russa delle regioni caucasiche: nel 1801 fu raggiunta la Georgia e, nel 1813, fu siglato il trattato di Golestan che consegnava all’Impero russo gran parte dell’attuale Azerbaigian indipendente, compreso il Łarabał, a cui si aggiunse, nel 1828, l’attuale territorio dell’Armenia indipendente.

«Al momento della conquista russa, gli armeni erano presenti in gran parte del Caucaso meridionale, soprattutto nelle regioni centrali, costituendo tuttavia la maggioranza della popolazione soltanto nei territori montuosi del Łarabał, nel distretto di Ēĵmiacin [località sede, dal 1441, della Chiesa armena e del suo kat’ołikos] e in alcune città poste al di fuori dei confini della Grande Armenia, in primo luogo Tiflis»[16].

Cominciò in quegli anni un movimento migratorio di vasta portata, incentivato dai russi, che spinse gli armeni rimasti negli Imperi ottomano e persiano (in quest’ultimo caso a sud del fiume Arasse) a spostarsi nello spazio imperiale russo. Ne giunsero all’incirca 150 mila, mentre al contempo nuclei di popolazione musulmana lasciavano i territori occupati dalla Russia, ponendo «le basi della progressiva riarmenizzazione delle regioni nordorientali della Grande Armenia»[17]. Nel 1832 si registravano i primi sensibili segnali di crescita demografica a favore delle comunità armene, tali che nel corso del censimento russo del 1897 la popolazione armena residente nelle regioni dell’Armenia orientale (dunque anche in parte dell’attuale Azerbaigian) risultava il 66,8 per cento del totale[18].

Nella città destinata a diventare la capitale dell’Azerbaigian indipendente, Baku, nel 1900 gli armeni rappresentavano il 23 per cento della popolazione, nello specifico la parte più ricca, dedita ad attività commerciali e imprenditoriali, soprattutto nel campo petrolifero. Tale insperato capovolgimento dei ruoli comportava alcuni effetti collaterali: la legge elettorale garantiva agli armeni, per il solo fatto di essere i cittadini dotati di maggior censo, il controllo dei consigli municipali dei principali centri della Transcaucasia, così come rilevante era il numero di alti ufficiali di etnia armena inseriti nei ranghi dell’esercito russo[19].

A gettare le basi per le odierne contese territoriali fu lo scoppio della violenza. A dare fuoco alle polveri fu il vuoto prodotto dalla rivoluzione russa del 1905, che nello spazio transcaucasico fu accompagnata da violenze interetniche diffuse, soprattutto a danni degli armeni da parte dei tatari-azeri.

Il consolidamento dell’autocoscienza nazionale degli azeri si andava accompagnando, infatti, all’odio covato da decenni nei confronti di una popolazione, gli armeni, che in verità era vissuta in quelle regioni almeno due millenni prima della colonizzazione turco-tatara e che, tuttavia, essendo per diversi secoli sottoposta a processi di costante erosione demografica e di isolamento in alcune sempre più ristrette comunità, veniva percepita erroneamente come una comunità di “invasori” sostenuti politicamente dai russi, per di più solitamente benestanti, oppure dotati di piccole o grandi ricchezze.

Nel febbraio 1905 scoppiarono pertanto i primi pogrom contro gli armeni di Baku, estesisi rapidamente alle città e comunità dell’entroterra. L’odio nei confronti degli armeni covava già allora anche nel Łarabał e nella sua città principale, Šuši[20].

Aiutati e armati dal partito Dašnak, il movimento social-nazionalista che mirava alla piena autonomia dell’Armenia all’interno dello spazio imperiale russo, o da finanziatori della diaspora, gli armeni del Łarabał e delle città dell’odierno Azerbaigian riuscirono parzialmente a respingere gli assalti dei tatari, scampando più spesso alle mattanze, ma subendo gravi danni materiali. Alla fine le stime delle vittime rimaste sul campo partono da un minimo di 3 mila a un massimo di 10 mila da parte di entrambe le comunità[21].

Si trattava tuttavia del primo atto, in attesa dell’uragano. E questo giunse con il successivo vuoto di potere prodotto dalla rivoluzione russa del 1917 e dalla firma, da parte del governo dei soviet installato a Mosca, del trattato di Brest-Litovsk, il 3 marzo 1918. La vasta regione a sud del Caucaso si costituì in una Repubblica Transcaucasica indipendente, proclamata nell’aprile 1918, che riuniva ottimisticamente i tre principali gruppi etnici (georgiani, armeni e azeri) e le relative agguerrite rappresentanze politiche, oltre all’universo liberale, social-rivoluzionario e bolscevico che si opponeva all’indipendenza.

In un contesto di montante nazionalismo intransigente, i georgiani ottennero l’appoggio tedesco, gli azeri quello ottomano; al contrario gli armeni rimasero soli a fronteggiare le ambizioni delle nazioni vicine, mentre tra il 26 e il 28 maggio 1918 la Transcaucasia indipendente si frantumava sotto il peso delle dichiarazioni di indipendenza di Georgia, Azerbaigian e Armenia.

Dopo un breve ma intenso periodo in cui lo Stato indipendente armeno dovette respingere, con una resistenza disperata, i tentativi di invasione ottomana, che avrebbe quasi sicuramente comportato lo sterminio sistematico delle popolazioni armene della Transcaucasia, così come toccato in sorte agli armeni dell’Anatolia a partire dal 1915[22a], in una condizione aggravata da fame, miseria ed epidemie di tifo e colera, la conclusione della prima guerra mondiale rimescolò ancora le carte, preparando una nuova stagione di torbidi e di pogrom.

In seguito al ritiro ottomano dalle regioni armene occupate (novembre-dicembre 1918) cominciò, infatti, la disputa per i confini degli Stati transcaucasici. L’Armenia si trovò così a dover contendere regioni storiche popolate da armeni rivendicate anche dalla Georgia o, più spesso, dall’Azerbaigian. Il Łarabał era una di queste aree, dove le rivendicazioni esercitate dagli azeri godevano tuttavia dell’appoggio di una potenza vincitrice del conflitto, la Gran Bretagna, il cui comando militare di stanza a Baku proprio all’Azerbaigian la assegnò provvisoriamente in attesa che la conferenza della pace ne decidesse le sorti.

Nel marzo 1920 la popolazione armena del Łarabał insorse contro il governo azero, ma ne subì anche la dura rappresaglia, condotta attraverso la distruzione completa del capoluogo Šuši, preceduta da un massacro di armeni che lasciò migliaia di morti[22b].

Le fotografie dell’epoca documentano uno scenario apocalittico nella città in seguito al passaggio delle orde azere. Ad ogni buon conto la situazione di tensione e conflitto tra etnie fu congelato nel corso del 1920 dalla sovietizzazione dell’Azerbaigian (aprile), quindi dall’accordo turco-sovietico del 24 agosto e, infine, dall’invasione dell’Armata Rossa, a novembre, che riportò in seno alla Russia l’intera regione transcaucasica, Łarabał incluso, procedendo a tappe forzate verso la sua sovietizzazione.

Una volta fissato il confine con la Turchia (marzo 1921), alla fine del 1922 i tre Stati, ancora formalmente indipendenti, si fusero nella Repubblica Federale Socialista Sovietica della Transcaucasia, che aderì al patto costitutivo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche[23]. Si determinò così il congelamento pluridecennale del conflitto armeno-azero, mentre per il Łarabał fu decisa nel 1923 la costituzione dell’oblast autonomo del Nagorno-Karabakh, che nel 1936, al momento della suddivisione della Transcaucasia in tre Repubbliche socialiste sovietiche, confluì nell’Azerbaigian, pur mantenendo autonomia linguistica e culturale armena.

La dissoluzione dell’URSS e la prima guerra del Nagorno-Karabakh: nasce l’Artsakh

La questione del Łarabał tuttavia non fu dimenticata, rimanendo sottotraccia durante le stagioni staliniana, kruscioviana e brezneviana, per riemergere timidamente dopo l’ascesa a segretario del PCUS di Michail Gorbačëv, nel 1985. L’opinione pubblica armena, in quella che era una delle più povere Repubbliche dell’Unione Sovietica, reclamava non solo riforme, ma anche maggior benessere, mentre gli armeni dell’oblast autonomo del Nagorno-Karabakh, in cui vivevano circa 100 mila connazionali (più dei due terzi dell’intera popolazione della regione), denunciavano soprattutto le discriminazioni messe in atto negli anni dalle autorità di Baku, prevalentemente sul piano economico e culturale.

Tali rivendicazioni sfociarono nel febbraio 1988 in un’ondata di manifestazioni in tutto l’oblast autonomo e nel suo capoluogo, Stepanakert, tanto che il Soviet autonomo sottoscrisse la richiesta di unione del Nagorno-Karabakh alla Repubblica Socialista Sovietica Armena[24].

Malgrado il netto rifiuto di Mosca, che temeva le ripercussioni di una simile decisione nell’intero spazio sovietico, già nei giorni successivi alle dimostrazioni armene nella regione scoppiarono tumulti anti-armeni in tutto l’Azerbaigian sovietico, culminando il 27-28 febbraio nel pogrom di Sumgait. La risposta inefficace del governo sovietico alle violenze degli azeri diede ulteriore spinta alle rivendicazioni nel Nagorno-Karabakh, che in breve furono fatte proprie dalla dirigenza del Partito Comunista Armeno, il cui segretario tuttavia fu sostituito nel maggio 1988, in un estremo tentativo di raffreddare le tensioni.

Unico risultato ottenuto fu quello di spostare la fiducia dell’opinione pubblica armena dal Partito Comunista al neocostituito Comitato Łarabał, istituito sotto la guida dell’accademico e storico Levon Ter-Petrosyan, destinato a essere eletto primo presidente della Repubblica Armena indipendente nell’ottobre 1991. Ad accrescerne il prestigio contribuì il suo arresto, assieme a tutti i membri del Comitato Łarabał, nel gennaio 1989, evento che comportò la mobilitazione popolare per invocarne la scarcerazione, che fu concessa a maggio.

Frattanto, mentre il Comitato Łarabał si trasformava in un movimento volto a promuovere la democratizzazione e l’indipendenza dell’Armenia, in Azerbaigian scoppiava una seconda ondata di tumulti anti-armeni: a Baku, nel gennaio 1990, dovette intervenire l’Armata Rossa per reprimere l’ennesimo pogrom contro la locale comunità armena; così non fu in altri centri dell’Azerbaigian, dai quali la popolazione armena iniziò a fuggire[25].

Nella fase terminale del processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica, il 21 settembre 1991 la popolazione armena votò a favore dell’indipendenza, a cui seguì l’elezione di Ter-Petrosyan a presidente (16 ottobre).

Il contrasto con l’Azerbaigian per il controllo dell’oblast autonomo del Nagorno-Karabakh assurse immediatamente in cima all’agenda della neonata Repubblica. Così che, mentre le truppe sovietiche si ritiravano dalla regione, iniziavano gli scontri tra armeni e azeri e, in novembre, il governo dell’Azerbaigian indipendente sospendeva le forniture di gas all’Armenia e aboliva l’oblast autonomo.

La situazione si surriscaldò ulteriormente quando l’Armenia, nel 1992, decise l’adesione all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), mentre l’Azerbaigian, guidato allora dal neo eletto presidente Abülfaz Elçibay, intellettuale di orientamento panturco, rifiutò persino di aderire alla Comunità di Stati Indipendenti, ponendosi in questo modo in posizione di debolezza nei confronti di Mosca, che vide al contrario nell’Armenia il suo interlocutore privilegiato nella regione[26].

Per l’Armenia era giunto il momento della riscossa nel Łarabał, dove peraltro era già in corso un conflitto armato che opponeva i due eserciti, mentre la popolazione civile azera si trovava a fare i conti con le vendette per i massacri e i pogrom di settant’anni prima, finendo talvolta vittima di barbare uccisioni e venendo costretta a fuggire nelle aree controllate dall’esercito azero, non mancando peraltro analoghe violenze compiute da militari e miliziani azeri contro gli armeni.

Nel corso del 1992 e 1993 crebbe l’intensità del conflitto che si concluse, infine, con l’intervento della Federazione Russa in veste di arbitro, che riuscì a mediare un cessate il fuoco nel maggio 1994. Al cessate il fuoco non seguì una pace tra i due Paesi, tuttavia per ventisei anni si cristallizzò una situazione pur provvisoria, ma difficilmente modificabile.

Gran parte del territorio dell’ex oblast autonomo del Nagorno-Karabakh (con l’eccezione di alcune aree a nord e est) risultava occupato dalle forze armene, così come il 9 per cento del territorio azero, una regione compresa tra lo stesso Nagorno-Karabakh, il confine con l’Armenia e il corso del fiume Arasse, garantendo così l’agognata contiguità territoriale tra la madrepatria e la neocostituita Repubblica dell’Artsakh (Arc’ax), estesa su una superficie di circa 11.400 chilometri quadrati (più di un terzo della superficie della Repubblica Armena, estesa su 29.700 chilometri quadrati).

La cricca del Łarabał e la disfatta armena nella seconda guerra del Nagorno-Karabakh

Il primo presidente della Repubblica dell’Artsakh, Robert K’oč’aryan, succedette peraltro a Ter-Petrosyan, costretto alle dimissioni proprio per l’inefficace politica di soluzione del problema dello status giuridico del Łarabał, come presidente eletto della Repubblica Armena, nell’aprile 1998, inaugurando così un ventennio dominato da esponenti politici nativi del Łarabał: a K’oč’aryan  seguì infatti, nel 2008, Serž Sargsyan, anch’egli originario dell’Artsakh.

Entrambi furono fautori di una politica con tendenze autoritarie, sebbene inserita nella cornice di una pur precaria liberaldemocrazia, che ha prodotto le consuete privatizzazioni a vantaggio di pochi “oligarchi” legati agli apparati di governo e alla cricca del Łarabał[27]. Nel frattempo l’Armenia pagava il prezzo della guerra nel Nagorno-Karabakh con un blocco economico attuato congiuntamente dalla Turchia e dall’Azerbaigian, cui tentò di porre rimedio la firma dei protocolli turco-armeni nel 2009, tuttavia mai ratificati dai parlamenti dei due Paesi, così che i valichi di frontiera con la Turchia rimangono ancora oggi chiusi.

La situazione è nuovamente precipitata in seguito alla crisi politica che ha colpito la cricca del Łarabał in seguito alla riforma costituzionale del 2015, promossa dal presidente Sargsyan, che ha reso l’Armenia una repubblica parlamentare, contando lo stesso Sargsyan di rimanere al potere come primo ministro.

Tuttavia la critica montante contro le tendenze autoritarie e la corruzione, unita all’insoddisfazione per la cronica stagnazione economica, è sfociata nel 2018 in proteste di piazza incoraggiate da un attivista carismatico e noto oppositore della cricca al potere, il giornalista Nikol Pašinyan, capo di un partito vincitore alle elezioni parlamentari del novembre 2018, che hanno consegnato allo stesso Pašinyan (non originario del Łarabał, ma del nord del Paese) l’ufficio di primo ministro. Ottenuta la maggioranza del parlamento, il nuovo governo prodotto dalla “rivoluzione di velluto” si è insediato nel gennaio 2019.

Frattanto, al di là della guerra lampo del 2-5 aprile 2016 tra le forze armene dell’Artsakh e l’esercito azero, la cui conclusione fu ancora una volta mediata dalla Federazione Russa con il ristabilimento dello status quo ante, un nuovo violento conflitto nel Nagorno-Karabakh è scoppiato il 27 settembre 2020.

A fare da detonatore è stato proprio il cambio di guida politica a Erevan, dove ai presidenti originari del Łarabał che, pur con una certa dose di opportunismo, avevano mantenuto solide relazioni con la Federazione Russa (nel 2013, sotto pressioni di Mosca, l’allora presidente Sargsyan aveva addirittura dovuto rinunciare a firmare il Trattato di associazione con l’Unione Europea), si è sostituita una dirigenza che è apparsa essere più equidistante da Mosca e libera da condizionamenti, venendo talvolta dipinta come filo-occidentale dalla stampa europea, sebbene senza evidenti ragioni.

Si è aggiunto che la controparte azera, rappresentata dal presidente-autocrate Ilham Aliyev, oltre a rappresentare le ragioni di un Paese economicamente molto più avanzato dell’Armenia, con un crescente interscambio proprio con la Russia (dalla quale importa armi), ha fatto valere le sue ragioni sulla necessità di ripristinare la legalità internazionale nel Nagorno-Karabakh, confidando nell’appoggio di Vladimir Putin e di Recep Tayyip Erdoğan, i due capi di Stato che negli ultimi anni hanno avvicinato i rispettivi Paesi, stringendo solidi legami politici, militari ed economici.

Si è trattato, insomma, di una convergenza reciproca di interessi tra Russia, Turchia e Azerbaigian, tale da mettere in minoranza le ragioni armene.

Ragioni armene che, peraltro, si erano indebolite a causa dell’ostinazione con la quale i presidenti originari del Łarabał, K’oč’aryan e Sargsyan, negli anni tra il 1998 e il 2018 si erano opposti a qualsiasi soluzione graduale della crisi del Nagorno-Karabakh, attraverso una risistemazione dei confini tra Armenia e Azerbaigian che accontentasse, almeno parzialmente, le razioni degli azeri. Tale soluzione, condivisa dalla Russia, prevedeva che all’Azerbaigian fosse restituito gran parte del territorio occupato nel 1992-94, riconoscendo in cambio Baku la sovranità dell’Armenia sull’intero ex oblast autonomo del Nagorno-Karabakh, che sarebbe stato connesso alla madrepatria da un corridoio ceduto dall’Azerbaigian in cambio di una striscia di terra armena nella valle dell’Arasse che garantisse a sua volta la contiguità territoriale tra l’attuale enclave azera del Naxçıvan (oblast autonomo del Nachičevan ai tempi dell’URSS) e l’Azerbaigian[28].

Dettaglio non secondario, il Naxçıvan è l’unica regione azera a confinare con la Turchia, sebbene lungo una linea di confine di appena 17 chilometri ma strategicamente molto rilevante, data la presenza dell’unico valico di frontiera tra i due Stati, ben connesso alla rete stradale turca tramite la strada statale D080, una diramazione della D100, l’importante asse che unisce il confine turco-iraniano con quello turco-bulgaro a Edirne (dunque con l’Europa), passando per Erzurum e Istanbul. Un corridoio irrinunciabile per le ambizioni commerciali dell’Azerbaigian.

Il Naxçıvan potrebbe peraltro rappresentare anche la causa del prossimo conflitto tra Armenia e Azerbaigian, dato che permangono tutt’oggi alcuni nodi irrisolti che derivano dalla complessa posizione geografica di questa regione. Il Naxçıvan è infatti collegato all’Azerbaigian da una strada che, percorrendo la valle dell’Arasse, per circa 45 chilometri attraversa la regione armena dello Zangezur (uno dei tanti perniciosi risultati della trasformazione di vecchi confini amministrativi in confini di Stato), rappresentando tale attraversamento un collo di bottiglia che l’Azerbaigian intendeva eliminare attraverso il negoziato rifiutato dall’Armenia. Il corridoio di Zangezur sarà quindi, molto probabilmente, l’obiettivo militare nel prossimo conflitto armeno-azero, che potrebbe essere imminente[29].

Nel frattempo l’ingarbugliata crisi del Nagorno-Karabakh, che non si era risolta durante il primo conflitto armeno-azero del 1992-94, non si risolse neppure dopo il secondo conflitto, durato dal 27 settembre al 10 novembre 2020.

Di fatto la seconda guerra del Nagorno-Karabakh fu una guerra per procura contro l’Armenia combattuta dall’Azerbaigian per conto della Russia e della Turchia.

Esposta all’attacco azero sostenuto da armi turche e russe, senza alcuna possibilità di ottenere aiuti da parte occidentale, se non attraverso una blanda disapprovazione diplomatica per l’aggressione azera da parte di nazioni tradizionalmente amiche dell’Armenia (Grecia, Israele), posta quindi tra l’incudine e il martello, la piccola e debole Armenia guidata dal primo ministro Pašinyan ha dovuto accettare la proposta di cessate il fuoco “mediata” dalla Russia. L’accordo in nove punti prevedeva il mantenimento del controllo azero sulle aree occupate dal suo esercito nel corso dell’offensiva, incluse alcune località comprese nei confini dell’ex oblast autonomo, seguita dall’evacuazione delle forze armate armene da tre distretti già compresi nell’Artsakh: Agdam (entro il 20 novembre), Kalbajar (entro il 25 novembre) e Lačin (entro il 1 dicembre). Un corridoio stradale posto sotto il controllo di forze militari russe di interposizione avrebbe connesso la parte rimasta dell’Artsakh (ridotto dagli 11.400 chilometri quadrati dal 1994 a poco meno di 3200 chilometri quadrati) alla Repubblica Armena, passando per l’abitato di Lačin.

La terza guerra del Nagorno-Karabakh (19-20 settembre 2023) e la dissoluzione dell’Artsakh

Al di là delle ripercussioni politiche in Armenia prodotte dalla severa amputazione imposta all’Artsakh dalla poco benevola mediazione russa, tali da provocare sollevazioni popolari e accuse di tradimento ai danni del primo ministro Pašinyan, la crisi del Nagorno-Karabakh si è riproposta nel 2023.

Non erano mancati segnali di tensione precedenti al precipitare degli eventi: nel mese di aprile 2023 era stato costruito un posto di blocco azero lungo il corridoio di Lačin, preceduto alla fine del 2022 dall’installazione di ulteriori posti di blocco lungo le vie d’ingresso all’Artsakh, con l’intento di isolarlo completamente, contravvenendo tuttavia agli accordi di cessate il fuoco del 2020.

Confidando ancora una volta nell’appoggio russo e turco, il 19 settembre 2023 l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva in grande stile contro l’Artsakh, con la giustificazione di porre termine a delle presunte attività terroristiche condotte dalle milizie armene sopravvissute nella regione. L’operazione, conclusa il giorno successivo, ovvero il 20 settembre 2023, anche con l’occupazione di esigue porzioni di territorio della Repubblica Armena, ha comportato, da parte dei demoralizzati vertici politici e militari dell’Artsakh, la sottoscrizione del disarmo totale e l’accettazione del negoziato diretto con l’Azerbaigian.

Il 28 settembre 2023 il presidente della Repubblica dell’Artsakh, Samvel Šahramanyan, ha firmato l’accordo che prevede il definitivo scioglimento della Repubblica dell’Artsakh, previsto per il 1° gennaio 2024.

Probabilmente non sono rimasti estranei agli eventi le dure critiche del primo ministro armeno alle forze di interposizione russe nella gestione della crisi umanitaria creatasi per il blocco azero al corridoio di Lačin, tale da minare qualsiasi fiducia da parte di Pašinyan nei confronti del governo di Mosca, non dichiaratamente ma ormai chiaramente schierato dalla parte dell’Azerbaigian.

In mancanza di una efficace difesa degli interessi armeni da parte della Russia e della OTSC, sarebbero pertanto partiti segnali a favore dell’Occidente, provocando la convocazione dell’ambasciatore armeno al ministero degli esteri russo, dopo che l’Armenia aveva provveduto a ritirare il suo rappresentante presso l’alleanza OTSC, inviando in seguito aiuti umanitari all’Ucraina, accompagnati dalla visita della moglie del primo ministro armeno a Kiev, e invitando infine alle forze armate americane a tenere un’esercitazione militare congiunta, peraltro mai avvenuta.

Di fronte alla reazione armena non si può escludere che dal Cremlino sia stato dato campo libero alla rappresaglia.

Se l’intenzione di Pašinyan era quella di lanciare un inequivocabile segnale a Mosca, al fine di costringere il Cremlino a compiere qualche passo a favore del suo storico alleato transcaucasico, ha sortito tuttavia il risultato opposto, per di più con effetto immediato[30].

Il quasi epilogo, in attesa del colpo di grazia

Il conflitto, sebbene sia durato appena due giorni, ha provocato e sta tuttora provocando una fuga di massa di armeni dalle rimanenti regioni dell’Artsakh, compresa la capitale Stepanakert, occupata dalle forze armate azere.

Non sono ancora pienamente noti i numeri dell’esodo armeno dal Nagorno-Karabakh (Artsakh), tuttavia l’Ong Human Rights Watch il 5 ottobre ha azzardato una cifra approssimativa che, già alla fine di settembre 2023, avrebbe oltrepassato le 100 mila unità[31]. Considerata la popolazione armena rimasta a vivere nell’Artsakh fino al 19 settembre 2023, si tratta all’incirca dell’80 per cento del totale.

La fuga in sé non sembra essere provocata da violenze diffuse o pogrom, ma è semmai il risultato congiunto del crollo repentino dell’ultimo bagliore di autorità armena nella regione, assieme al timore che il Nagorno-Karabakh, una volta che sia sottoposto a controllo diretto delle autorità azere, possa essere l’obiettivo di una campagna di pulizia etnica anti-armena. I precedenti storici non aiutano gli armeni del Nagorno-Karabakh a essere anche solo moderatamente ottimisti.

Lo stesso presidente azero Ilham Aliyev, non certo conosciuto per benevole dichiarazioni verso gli armeni, ha due caratteristiche che potrebbero renderlo quanto meno sospetto di totale insensibilità alle ragioni delle popolazioni armene che hanno da sempre abitato le terre recentemente annesse all’Azerbaigian. Innanzi tutto è figlio di Heydar, ex alto ufficiale del KGB e già segretario del Partito Comunista Azero (ruoli che gli hanno procurato sospetti mai comprovati di connivenze con gli organizzatori del pogrom di Sumgait nel 1988), a sua volta nativo del Naxçıvan, regione storicamente armena da sempre contesa tra i due Paesi e, fino al 1916, popolata da poco meno del 40 per cento di armeni, rapidamente calati dopo i tragici eventi del primo dopoguerra al 10 per cento (1926), fino a scomparire totalmente dopo l’indipendenza dell’Azerbaigian[32].

In secondo luogo Ilham Aliyev è noto, anche in Occidente, per aver ritirato il titolo onorifico di “scrittore del popolo”, con relativa pensione, allo scrittore azero Akram Aylisli, nativo anch’egli del Naxçıvan, autore nel 2012 di un romanzo-denuncia dei pogrom contro gli armeni, Sogni di pietra, che gli guadagnò in patria l’accusa di tradimento e una serie di persecuzioni politiche e giudiziarie, culminate nel suo arresto all’aeroporto di Baku, nel 2016, all’età di 78 anni, mentre si stava imbarcando per Venezia, dove si sarebbe recato al festival letterario “Incroci di civiltà”; da allora gli è stato impedito di lasciare l’Azerbaigian ed è come se fosse scomparso[33].

Insomma, al di là dei due Aliyev, ricordando i pogrom del 1905, il massacro e la distruzione di Šuši nel 1920, le violenze anti-armene a Sumgait e nel resto del Paese, nel 1988, e a Baku, nel 1990, oltre agli oltraggi contro i luoghi di culto e il patrimonio storico-artistico armeni (per esempio la sistematica distruzione dei xač’k’ar, le croci di pietra finemente intagliate che segnalavano la presenza di comunità armene e che sono pertanto state prese di mira dai fanatici nazionalisti azeri per cancellare la memoria della loro esistenza), si capirà bene perché, anche in mancanza di documentate efferatezze in questo scorcio di 2023, la prudenza consigli agli armeni di abbandonare il Nagorno-Karabakh prima che sia troppo tardi.

Il risultato al momento è una vera e propria pulizia etnica, ma estremamente raffinata, dato che nessuna organizzazione internazionale potrebbe accusare l’Azerbaigian di aver provocato volutamente l’esodo degli armeni.

E così siamo all’epilogo, in attesa che si compia il destino di questa regione martoriata, fissato per il primo giorno del prossimo anno, ovvero il 1° gennaio 2024, e in attesa che si compia anche il destino dell’Armenia, minacciata da un nuovo attacco militare azero volto ad annettere il corridoio di Zangezur.

Di fronte a simili prospettive non possiamo fare altro che aspettare che l’incudine e il martello finiscano il loro lavoro, osservandoli nella più totale impotenza. Forse è proprio vero: povera Armenia, così lontana da dio e così vicina alla Russia e alla Turchia.  


[1] Il primo presidente dell’Azerbaigian indipendente, Heydar Aliyev (1993-2003), padre dell’attuale presidente Ilham Aliyev (2003-oggi) si riferiva ad Azerbaigian e Turchia con l’espressione «Bir millet, iki devlet» (in azero: «Bir millət, iki dövlət»), letteralmente “una nazione, due Stati”. Si aggiunga che dal 1992 la Repubblica dell’Azerbaigian utilizza l’alfabeto latino modificato e adattato su modello turco, abbandonando l’uso del cirillico.

[2] La Turchia riconosce dal 1974 una repubblica secessionista nell’isola di Cipro, dal 1983 denominata ufficialmente Repubblica Turca di Cipro Nord. La Russia ha sostenuto la nascita delle seguenti repubbliche secessioniste: Abkhazia, indipendente dal 1999 e riconosciuta nel 2008; Ossezia del Sud, indipendente dal 1992, riconosciuta nel 2008; Transnistria, indipendente dal 1990, non riconosciuta da Mosca ma dalle altre repubbliche secessioniste filo-russe; Crimea, indipendente nel febbraio 2014 e annessa alla Federazione Russa nel marzo 2014; Doneck e Lugansk, indipendenti nel 2014, riconosciute da Mosca nel febbraio 2022 e annesse alla Federazione Russa nel settembre 2022.

[3] Francisco Villar, Los indoeuropeos y los orígenes de Europa. Lenguaje e historia, Madrid, Gredos, 1996 (614 p.); trad. italiana, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia, Bologna, Il Mulino, 1997, 682 p. [citazione alle pp.539-541]

[4] Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, Bologna, Il Mulino, 2020, 224 p., [citazione alla p.29]

[5] Gabriella Uluhogian, Gli armeni, Bologna, Il Mulino, 2009, 232 p. [citazione alla p.26]

[6] Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, op.cit., p.65.

[7] Ivi, pp.72-74.

[8] Georg Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, Monaco, C.H.Beck, 1963; trad. italiana, Storia dell’Impero Bizantino, Torino, Einaudi, 570 p.; cit. alle pp.313-317

[9] Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, op.cit., p.83

[10] Ivi, p.85

[11] Gabriella Uluhogian, Gli armeni, op.cit., p.44

[12] Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, op.cit., p.88

[13] Pronuncia: Artzach, simile pertanto alla più recente traslitterazione Artsakh.

[14] Cfr. Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, op.cit., p.97

Le lettere Ł e ł si pronunciano come la r francese.

[15] Gabriella Uluhogian, Gli armeni, op.cit., pp.46-47, 180-181

[16] Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, op.cit., p.140

[17] Ivi, p.141

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p.143

[20] Ivi, p.153

[21] Ivi, p.154

[22a] Il riferimento è all’ultima e più tragica fase del genocidio della popolazione armena dell’Impero Ottomano, la cui trattazione, riferendosi ai massacri avvenuti nelle regioni anatoliche, non quindi nella regione transcaucasica al centro dell’attenzione di questo articolo, è qui riassunta in forma puramente incidentale.

Una prima fase ebbe inizio già durante il sultanato di ‘Abdül Hamid II, quando il rafforzamento delle rivendicazioni politiche e culturali armene produsse come reazione la creazione, nel 1891, di reggimenti Hamidiye, formati prevalentemente da elementi curdi su modello dei reparti cosacchi russi. Nelle regioni interne dell’Anatolia avevano il compito ufficiale di mantenere l’ordine, ma il compito ufficioso era quello della repressione delle attività politiche e rivoluzionarie armene. Tra il 1895 e il 1896, al culmine delle tensioni politiche con i partiti armeni, avvennero i primi massacri su larga scala (i cosiddetti “massacri hamidiani”), che produssero tra le 100 mila e le 200 mila vittime (seimila nella sola Istanbul), distruzioni e devastazioni di chiese e monasteri, oltre a un’ondata di profughi diretti verso la Transcaucasia, i Paesi arabi, l’Europa e l’America. Singulti di questo biennio insanguinato si ebbero in Cilicia nell’aprile 1909, costando la vita a 35 mila persone nel corso di un pogrom durato diverse settimane, che comportò addirittura la distruzione completa del quartiere armeno della città di Adana. La seconda fase, che coincide in gran parte con il periodo di partecipazione ottomana al primo conflitto mondiale, è quella più nota e propriamente pianificata, già preceduta da un’ondata di violenze in Cilicia e nella città di Van, ed ebbe inizio il 24 aprile 1915, quando centinaia di intellettuali e politici della comunità armena di Istanbul furono arrestati e quasi subito uccisi, uniche vittime armene nella capitale e a Smirne nel corso del conflitto. Altrove il massacro fu invece sistematico, ufficializzato dalla legge del 30 maggio 1915 che prevedeva il “temporaneo” trasferimento degli armeni dalle regioni dei combattimenti, ovvero dall’intera Anatolia. La deportazione, orchestrata dai militari dell’Organizzazione Speciale (Teșkilat-ı Mahsusa) e preceduta da saccheggi e massacri da parte di bande (çete) composte da turchi, curdi e circassi, comportava la separazione delle famiglie, l’uccisione immediata degli uomini e l’avvio di vecchi, donne e bambini lungo una marcia della morte segnata da fame, malattia e sevizie, che si concludeva nei campi di raccolta di Aleppo e, soprattutto, di Deir ez-Zor (località dal destino lugubre, nota infatti anche alle più recenti cronache come ultima città-roccaforte dell’ISIS fino al novembre 2017). Il numero delle vittime di questa ultima fase è tuttora oggetto di discussione, dalle 300 alle 600 mila secondo i più ottimisti, tra il milione e il milione e mezzo secondo le più recenti e affidabili stime. Di certo c’è che nel 1923, nel corso del primo censimento della Repubblica di Turchia, risultavano esserci in tutto il Paese appena 70 mila armeni, quasi tutti concentrati a Istanbul. Per una più ampia trattazione e ulteriori riferimenti bibliografici, si veda anche il saggio in lingua italiana di Marcello Flores, Il genocidio degli armeni (II edizione), Bologna, Il Mulino, 2017, 348 p.  

[22b] Ivi, pp.172-173

[23] Ivi, pp.173-176

[24] Ivi, pp.183-185

[25] Ivi, p.186

[26] Ivi, p.187

[27] Ivi, pp.190-193

[28] Paolo Bergamaschi, “Nagorno Karabakh, la guerra che poteva essere evitata”, Osservatorio Balcani e Caucaso, 13 novembre 2020: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Nagorno-Karabakh/Nagorno-Karabakh-la-guerra-che-poteva-essere-evitata-206388

[29] Shireen Hunter, “Conflict in the Caucasus may not be over”, Responsible Statecraft, 11 ottobre 2023, https://responsiblestatecraft.org/armenia-azerbaijan-nagorno-karabakh-2665878766/

[30] Gabriel Gavin, “We can’t rely on Russia to protect us anymore, Armenian PM says. Once one of the Kremlin’s closest allies, Armenia is now conducting joint drills with US soldiers”, Politico, 13 settembre 2023, https://www.politico.eu/article/we-cant-rely-russia-protect-us-anymore-nikol-pashinyan-armenia-pm/

[31] https://www.hrw.org/news/2023/10/05/guarantee-right-return-nagorno-karabakh

[32] La progressiva scomparsa di popolazione armenA nel Naxçıvan è stata accompagnata anche da documentati e recenti atti di vandalismo nei confronti del patrimonio storico-culturale armeno, come nel caso del cimitero di Julfa: https://en.wikipedia.org/wiki/Armenian_cemetery_in_Julfa

L’antica città di Julfa, nota nelle fonti armene come Jułay, fu spopolata in seguito alla deportazione dell’intera sua popolazione, ordinata nel 1604 dallo shah Abbas, in un sobborgo di Isfahan, che assunse la denominazione di Nor Jułay, Nuova Giulfa secondo le fonti italiane, fiorente colonia armeno-persiana dedita a una fortunata attività commerciale per tutti i secoli XVII e XVIII, con agenzie di commercio diffuse fino al Mediterraneo orientale e persino a Venezia, dove si installò la famiglia Scerimanian, detta in seguito Serimàn, di cui si osserva ancora oggi il palazzo nel sestiere Cannaregio. Cfr. Gabriella Uluhogian, Gli armeni, op.cit., pp.180-181, 193-194.

Alla colonia armena di Giulfa è inoltre connessa, sempre a Venezia, l’esistenza di una calle nel sestiere Castello dove si concentravano le abitazioni dei mercanti armeni, che ricevette il nome di “ruga Giuffa”.

[33] Gian Antonio Stella, “Ora diteci dov’è Akram Aylisli. Coscienza (rinnegata) degli azeri”, Corriere della Sera, 5 novembre 2020.