Alla borsa dei valori, quelli etici e non quelli azionari, della rete, ancora una volta risulta sotto pressione la net neutrality.
Come al solito il bersaglio è l’invadenza dei grandi distributori di contenuti: Google, Facebook e sopratutto Netflix.
Ma qualcosa sta mutando nella tradizionale distribuzione di ruoli fra buoni e cattivi.
BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) – mediasenzamediatori.org. Analisi e approfondimenti sul mondo dei media e del digitale, con particolare attenzione alle nuove tendenze della galassia multimediale e dei social network. Clicca qui per leggere tutti i contributi.La net neutrality, bandiera del libertarismo digitale (ognuno ha diritto di correre liberamente sulle autostrade online) sta assumendo in poco tempo i tratti più arcigni e meno mansueti del monopolio.
La mela non è più nettamente divisibile a metà, con i ricchi cattivi, proprietari da una parte, che come i latifondisti privatizzatori dei verdi pascoli nel Far West, vogliono recintare le corsie, e dall’altra i buoni allevatori, nella fattispecie i net provider, che invece vogliono far scorrazzare chiunque liberamente nel broadband.
Solo qualche settimana fa, a fine febbraio, la FCC americana, su imbeccata prescrittiva della Casa Bianca di Obama, aveva decretato che i buoni dovevano vincere.
Dopo qualche giorno, ai primi di marzo, lo squillo di tromba del Wall Street Journal: ma siete sicuri che la libertà e l’individualismo digitale si preservi lasciando ad ognuno di poter sequestrare connettività a rotta di collo?
Urla di riprovazione da parte del fronte libertario: dagli smanettoni di Anonymous, fino alle istituzioni comunitarie europee, passando per l’intellettualità digitale più raffinata, tutti a gridare giù le mani dalla rete.
Ora la quadriglia che si sta ballando sulla rete scompagina i ruoli: i buoni sembrano meno buoni e i cattivi assumono un’aria più problematica.
Qualcosa di rilevante sembra bollire in pentola, siamo alla vigilia di un grande breaking digital.
Un segnale ci viene da Londra, dove la Royal Society prevede che fra 15 anni la rete collasserà.
Troppi e troppo ingombranti i pacchetti video che ingombrano la rete.
Fra 5 anni il traffico dati dovrebbe aumentare di ben dieci volte, conducendo alla vigilia di un colossale intasamento.
Non è la prima volta che il Pierino di turno grida al lupo.
Già nel ‘93 venne un allarme da un vero guru come Robert Metcalfe, fondatore della 3Com e autore di una delle leggi più strategiche della vita digitale che recita “L’utilità e il valore di una rete sono pari ad n^2 – n dove n è il numero degli utenti“, che trasformata in simboli:
N(N−1), oppure N²−N.
Una relazione che ha guidato i piani marketing delle principali aziende digitali. Più di 20 anni fa Robert Metcalfe aveva profetizzato un imminente black out della rete.
Due anni dopo si rimangiò tutto, anche in virtù di un’altra implacabile legge, quella di Moore, secondo la quale ogni 18 mesi raddoppia il potere di calcolo di un microchip, che modifica costantemente i fattori tecnologici, rimpicciolendo i contenuti ed aumentando la potenza di connessione.
Ma oggi siamo alle viste di una capacità di previsione più consistente e rodata. Soprattutto, abbiamo la possibilità di prefigurare in laboratorio le condizioni di attività digitale a distanza di 10/15 anni con estrema precisione.
La britannica Royal Society proprio sulla base di queste prefigurazioni ci dice che il processo di ingorgo sulla rete sta diventando inevitabile.
Troppo video, anzi troppa TV.
Ed è questa la svolta che inverte i ruoli fra buoni e cattivi.
Infatti fino a quando la net neutrality era un lascia passare per la moltitudine di navigatori, fra i quali si mischiavano creativi, startupper, e innovatori diffusi, allora si trattava di una garanzia di progresso e sviluppo. E le grandi agenzie di servizio, da Google ai social, ne era l’infrastruttura cognitiva.
Ora però questa effervescenza sociale si sta impantanando dinanzi all’arrivo degli elefanti televisivi.
Sono infatti i pesantissimi pacchetti di film che vengono mossi da net provider come NetFlix, ma fra poco anche da Google e Facebook, o la stessa Amazon, che rendono la rete ormai un blockbuster on demand.
Il punto su cui si balla riguarda il destino e la fisionomia della stessa rete: un’infrastruttura televisiva che riproduce, di fatto, il meccanismo broadcasating, da “uno a tanti”, o un ecosistema di relazioni sociali dove il formato dominante è quello “da tanti a tanti”?
E’ questa la posta in gioco.
Per certi versi l’annuncio che viene da Telecom Italia di una soluzione sperimentale per la TV online con protocollo UDP, ossia di un emissione unica che permette a tutti di intercettarla, come la vecchia antenna televisiva, senza dover impegnare uno spazio di banda per ogni utente, aggrava la situazione.
Certo che la rete rimarrà funzionale.
Fra 10 anni, con buona pace della Royal Society, avremo comunque soluzioni e pratiche che sposteranno sul versante del software il carico connettivo che oggi grava sulla infrastrutture, come il modello Torrent già 10 anni fa annunciava.
Ma avremo ancora uno spazio libero per il sapere di tutti?
Avremo una noosfera, come la intendeva Pierre Teilhard de Chardin, che vide prima di tutto la possibilità di dare forma ad una specie di “coscienza collettiva” degli esseri umani che scaturisca dall’interazione fra le menti umane?
Se questo è oggi il tema, allora dobbiamo dire che paradossalmente rimanere ostaggio della potenza distributiva dei grandi provider è oggi ancora più pericoloso che riprodurre isole di mercato tradizionale, con opzioni selettive di traffico.
E’ il momento di riprendere in mano il tema di quale sia il fine delle rete liberandoci dalla gretta logica di diritti fini a se stessi per cui il fine della rete è la pratica della rete stessa.