Google e tasse: ‘Orgogliosi del nostro sistema. Non le paghiamo perchè le norme lo consentono…’

di Raffaella Natale |

Per Erich Schmidt si chiama ‘capitalismo’, per il Ministro inglese Cable ‘I Governi non possono avallarlo’. Ma le norme le fanno i politici e quelle vigenti permettono di bypassare il fisco.

Europa


Eric Schmidt

Google bypassa il fisco? “Orgogliosi della struttura che siamo riusciti a creare. E’ tutto legale”.

E’ così che Erich Schmidt, presidente di Google, risponde a Bloomberg sulla procedura di ottimizzazione fiscale adottata dal numero uno al mondo nelle ricerche online che gli ha permesso di non pagare ben 2 miliardi di dollari d’imposte sul reddito nel 2011, traghettando 9,8 miliardi di dollari di fatturato in una società di comodo alle Bermuda, quasi il doppio rispetto al 2009. Un sistema, quello di domiciliarsi nei paradisi fiscali, al quale ricorrono tante multinazionali e soprattutto le web company (Amazon, Facebook, eBay) che fanno profitti miliardari e si sottraggono al pagamento delle tasse grazie al profit shifting.

 

Google, per voce del suo presidente, lo dice chiaramente: “Non abbiamo intenzione di pagare più tasse. Si chiama capitalismo. Siamo orgogliosamente capitalisti. Su questo non ho alcun dubbio“.

 

Il colosso di Mountain View se ne infischia degli accertamenti tributari aperti in Italia, Francia o Gran Bretagna e delle perquisizioni della Guardia di Finanza nelle sue sedi.

“E’ tutto legale – replica Schmidt – paghiamo tutte le tasse che prevede la legge. Abbiamo sfruttato tutti gli incentivi che i governi ci hanno offerto”.

 

In Italia, per Big G risultano redditi non dichiarati per oltre 240 milioni di euro e una Iva non pagata pari ad oltre 96 milioni di euro. I dati si riferiscono a una verifica svolta dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano nel maggio 2007 per gli anni 2002-2006 e sono contenuti nella risposta del Ministero dell’Economia a una interrogazione del deputato del Pd Stefano Graziano in Commissione Finanza (Leggi Articolo Key4biz).

 

Se ci spostiamo all’Inghilterra, dove la Commissione parlamentare dei Conti pubblici sta indagando, nel 2010, la società di Mountain View ha versato all’erario inglese appena 238 mila sterline di tasse a fronte di un fatturato di 175 milioni di sterline (Leggi Articolo Key4biz). Stando ai documenti consegnati dal gruppo all’Autorità americana di Borsa (Securities and Exchange Commission – SEC), nel 2011 la Gran Bretagna risulta essere il secondo mercato per Google dove registra l’11% delle sue vendite per 4,1 miliardi di dollari di fatturato, ma dove ha pagato solo 6 milioni di sterline di imposte sul reddito.

Eppure, la società ha dichiarato alla Commissione d’essere in perdita per gli anni 2010-2011.

 

In Francia, invece, secondo indiscrezioni di stampa (non confermate) Google dovrebbe al fisco 1,7 miliardi di euro. Il sistema di ottimizzazione fiscale adottato dalla compagnia americana gli ha permesso finora di non pagare mai più di 5 milioni di euro d’imposte contro un fatturato annuo di circa 1,5 miliardi di euro (Leggi Articolo Key4biz).

 

Resta visibilmente impressionato dalla dichiarazione di Schmidt, il Ministro britannico dell’Economia Vince Cable: “Può anche trattarsi di capitalismo, ma non è certamente compito del governo avallarlo”.

 

Il problema riguarda anche gli Stati Uniti, dove un’associazione di consumatori, la Consumer Watchdog, sta premendo perché la Commissione Finanze del Senato apra un’inchiesta sulle pratiche di elusione fiscale.

Il presidente di quest’associazione non ha usato mezzi termini: “Ciò che rende l’attività di Google tanto più riprovevole è che il suo slogan – ‘Don’t be Evil’ – è del tutto ipocrita“.

 

Matt Brittin, di Google UK, ha dichiarato: “Google rispetta le regole adottate dai politici. Sono loro che hanno fissato le aliquote fiscali”.

 

Ed è proprio questo il nocciolo della questione. La procedura di ottimizzazione fiscale adottata da Google, così come dalle altre multinazionali, non è illegale.

E’ la politica che si deve dare una mossa, che deve intervenire per cambiare le attuali norme che consentono di imputare i profitti a società collocate ad arte nei Paesi con regimi fiscali più vantaggiosi. Finché queste norme esistono, i responsabili finanziarie delle multinazionali le sfrutteranno.