OTT e paradisi fiscali: Apple ha oltre 891 mld di dollari su conti esteri e Google 43. Anche gli USA si mobilitano

di Raffaella Natale |

Secondo Moody’s, nel 2015 alcune aziende hi-tech potrebbero arrivare ad avere fino 400 mld di dollari liquidi sui conti esteri. Tasse eccessivamente alte o solo scuse per sottrarsi al fisco?

Stati Uniti


Apple

Si accende la polemica sugli OTT che bypassano il fisco. Anche gli Stati Uniti presentano il conto ai ‘giganti’ americani di internet, che spostano le loro sedi nei paradisi fiscali, per sottrarsi al pagamento delle tasse.

Diversi Paesi europei sono già scesi in campo per trovare le giuste soluzioni normative ed evitare che le grandi web company, che fanno incassi d’oro da noi, si avvantaggino delle infrastrutture locali senza pagare alcun tributo.

La Francia s’è mobilitata, costituendo una commissione di esperti con l’obiettivo di rivedere i meccanismi tributari (Leggi Articolo Key4biz), e sulla scia anche Italia, Spagna e Germania hanno aperto gli occhi (Leggi Articolo Key4biz).

 

Facciamo un po’ di conti: Apple ha oltre 891 miliardi di dollari su conti esteri, Google 43 miliardi e Cisco 42 miliardi.

Le compagnie hi-tech, forse consapevoli che non potranno sottrarsi ancora per molto al pagamento delle imposte, stanno adesso cercando di convincere le autorità di Washington a trovare il modo ‘più conveniente’ di rimpatriare questi fondi senza pagare eccessive imposte: “E’ nell’interesse del Paese – argomentano – per investire e creare lavoro negli Stati Uniti”.

 

Ovviamente queste aziende non sono le uniche, si stima in oltre mille miliardi di dollari la tesoreria di alcuni gruppi ‘parcheggiati’ all’estero.

 

Il fenomeno è molto comune tra le società ricche di asset intangibili. “Ogni azienda che dispone di proprietà intellettuali, sia software che brevetti, ha la possibilità di assegnarle a controllate estere con sedi in un paradiso fiscale“, spiega Robert McIntyre, direttore dell’associazione Citizens for Tax Justice, gruppo politico liberale.

Nel caso di Apple, informa McIntyre, “praticamente tutto il denaro che si trova all’estero non è mai stato tassato da nessuno”.

 

A luglio, l’agenzia di rating Moody’s Investors Service stimava che 22 gruppi americani del settore hi-tech a marzo avevano mantenuto il 70% della loro liquidità all’estero e che il totale potrebbe superare dai 289 ai 400 miliardi di dollari nei prossimi tre anni.

Second Moody’s, queste società sono restie a rimpatriare questi fondi, perché una volta rientrati negli USA potrebbero essere tassati fino al 35%.

 

Nel 2004, le multinazionali avevano reclamato, e alla fine ottenuto, un tasso più favorevole del 5,25%.

Dallo scorso anno, Microsoft, Cisco e Pfizer hanno avviato una campagna, sostenendo che una nuova riduzione potrebbe arrivare a creare 2,9 miliardi di nuovi posti di lavoro negli USA, ma al momento hanno sospeso la loro mobilitazione con l’intensificarsi della campagna per le presidenziali, anche se hanno assicurato che riprenderanno la loro attività dopo novembre.

 

Qualche mese, Peter Oppenheimer, Chief Financial Officer di Apple, sosteneva che “L’attuale regime fiscale dissuade fortemente le società americane che diversamente potrebbe riportare in patria una parte sostanziale della loro liquidità”.

Ma l’amministrazione Obama ritiene che la riduzione accordata nel 2004 non abbia prodotto l’effetto sperato, ragione per la quale resta ostile a un nuovo intervento in questa direzione.

 

Il candidato repubblicano alle presidenziali, Mitt Romney, propone un nuovo sistema ‘territoriale’, con il quale gli utili sarebbero tassati nel territorio dove vengono realizzati, facendo valere che l’attuale sistema “incoraggia le multinazionali americane a mantenere i loro profitti all’estero”.

Ma per Seth Hanlon, del think tank Center for American Progress, questo piano incoraggerebbe il trasferimento di lavoro e investimenti.

Il fiscalista Christopher Bergin è del parere che l’attuale sistema tributario faccia acqua da tutte le parti: ci sono talmente tante scappatoie che “le grosse aziende possono assoldare armate di avvocati ed esperti e riuscire nell’intento di ridurre il loro carico di tasse”.

“Apple – conclude Bergin – non fa nulla di male a trarre vantaggio da regole scritte. E’ il codice tributario che è ingiusto“.