Condivido, dunque sono: ecco come il passaggio da ‘conversazione’ a ‘connessione’ ha cambiato le nostre relazioni e noi stessi

di Alessandra Talarico |

La psicologa Sherry Turkle analizza gli effetti dei dispositivi ‘always-on’ sulle nostre abitudini e il nostro modo di essere. E consiglia: (re)impariamo e trasmettiamo alle nuove generazioni il valore della solitudine e delle conversazioni 'vis a vis'

Mondo


Condivido dunque sono?

In che modo i telefonini e internet stanno modificando il nostro modo di comunicare è un tema dibattuto fin dalla comparsa delle comunicazioni elettroniche. Ma il parere della psicologa e docente del MIT Sherry Turkle – autrice del libro “Alone Together: Why We Expect More From Technology and Less From Each Other” – è particolarmente ricco di spunti da cui partire per riflettere sulla ‘vera’ comunicazione tra individui, relegata negli ultimi anni a mera ‘connessione’.

 

Sull’inserto domenicale del New York Times, Sunday Reviews, la Turkle stigmatizza innanzitutto l’abitudine di stare sempre attaccati al telefonino – per inviare sms o leggere la posta – mentre si pranza in famiglia, nel corso di un appuntamento galante, in classe, a lavoro durante una riunione. Abitudine che ha dato vita a una nuova, difficile capacità: quella di mantenere il contatto visivo con chi ti sta seduto di fronte mentre ci si dedica allo scambio di messaggi con qualcun altro. “E’ difficile ma bisogna imparare a farlo”, dice la Turkle.

Dopo aver studiato per 15 anni le nuove tecnologie di comunicazione, la Turkle è giunta alla conclusione che “i dispositivi che molti di noi si portano dietro sono così potenti che non hanno solo cambiato quello che facciamo, ma chi siamo”, facendoci abituare all’idea di stare “soli insieme”: stiamo con qualcuno, ma anche da un’altra parte, connessi con chi vogliamo.

“Per qualcuno potrebbe essere una buona idea, ma il risultato è che finiamo per nasconderci uno all’altro, anche se siamo costantemente connessi”: ognuno, insomma, pur stando in compagnia, è rinchiuso nella propria bolla, fatta di connessioni remote e touch screen.

 

Le persone con cui stiamo in contatto, spiega, vengono allo stesso tempo tenute a distanza di sicurezza, mentre ogni individuo può presentare al mondo la propria idea di sé stesso: basta cancellare quello che non piace e postare qualcosa di più bello.

 

“Le relazioni umane sono ricche, confuse e impegnative, ma abbiamo imparato a ripulirle con la tecnologia e il passaggio da conversazione a connessione fa parte di questo processo”, spiega la Turkle, secondo cui le email, Facebook, Twitter, hanno guadagnato un posto in tutti gli ambiti delle nostre vite (nel commercio, nelle storie d’amore, nelle amicizie), ma per quanto valore abbiano non dovrebbero mai sostituire una conversazione faccia a faccia.

Quest’ultima “permette di cogliere toni e sfumature, di vedere le cose dal punto di vista dell’altro, ci insegna la pazienza”, mentre le comunicazioni digitali tendono a esigere velocità, come le connessioni su cui si basano.

 

Quello di cui ci rendiamo meno conto, tuttavia, è che perdendo il contatto con gli altri, lo perdiamo anche con noi stessi: stiamo tutti diventando meno avvezzi alla riflessione, convinti che rispondere alla domanda posta da un social network –  ‘che stai pensando’? – sia veramente la stessa cosa che riflettere su noi stessi, come se davvero questi strumenti potessero colmare il vuoto relazionale che essi stessi hanno contribuito a creare.

 

La Turkle giunge quindi alla conclusione che ormai le persone si aspettano più dalla tecnologia – che fornisce “l’illusione della compagnia senza le esigenze di una relazione” – che dai propri simili.

“I dispositivi sempre-connessi-sempre-con-te alimentano tre potenti fantasie: che c’è sempre qualcuno che ci ascolta; che possiamo sempre prestare attenzione a quello che ci interessa e che non saremo mai soli”, afferma la psicologa, sottolineando che, in sostanza, questi dispositivi hanno reso la solitudine un problema che può essere risolto: basta avere un dispositivo connesso a portata di mano.

 

Un nuovo modo di essere che la Turkle definisce “condivido, dunque sono”, parafrasando la locuzione cartesiana ‘cogito ergo sum’ (penso, dunque sono).

“Usiamo la tecnologia per definire noi stessi condividendo i nostri pensieri e sentimenti come se li stessimo provando”: se, insomma, nell’era pre-digitale eravamo soliti pensare ‘Ho una sensazione; voglio fare una telefonata’, ora il nostro impulso è: ‘Voglio avere una sensazione; ho bisogno di fare una telefonata’.

Ci connettiamo, dunque, per “sentire di più”, ma così facendo rifuggiamo dalla solitudine rivolgendoci agli altri senza veramente viverli: “…è come se usassimo gli altri per sostenere il nostro io sempre più fragile”, sottolinea la Turkle.

 

Se, insomma, non si impara a stare soli, si finisce per sentirsi sempre soli e, quindi, per pensare che una connessione costante allevierà un disagio che ci siamo costruiti.

Semmai, conclude la Turkle, è vero il contrario. Ecco perchè consiglia: “alziamo gli occhi, guardiamoci, e iniziamo a conversare”.