Pubblicità social

Sembrano selfie, ma è pubblicità camuffata: 7 casi scovati sui social

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Sui social network, in particolare su Instagram, vip e influencer postano foto in cui la pubblicità al brand spesso non è dichiarata. L’Antitrust inglese in difesa dei consumatori: aggiungere #ad che indica advertising.

Sui social network siamo subissati dai selfie. Per questo motivo l’autoscatto è diventato il principale volano delle pubblicità. Vip, YouTuber, fashion blogger e influencer, continuamente, si scattano foto mentre mostrano brand. Spesso, però, questo spot è camuffato. Non è dichiarato. E il consumatore social è consapevole di trovarsi di fronte a una pubblicità? Dunque da oggi in poi prima di aggiungere una “reazione” (like, commenti e cuoricino) fate caso a se lo scatto non è frutto di un contratto pubblicitario, valutate se il vostro “Mi Piace” potrebbe contribuire ad aumentare il cachet del protagonista del selfie.

Sembrano selfie, ma sono pubblicità: 7 casi scovati su Instagram e Facebook

Il social network preferito dai brand è Instagram, ormai zeppo di selfie, soprattutto sexy. Veline, star della musica, attrici, modelli e anche adolescenti, sconosciuti ai più, si immortalano mentre sono in casa (il bagno e la camera da letto i posti preferiti), in un ristorante e anche in strada: apparentemente sembrano delle semplici e banali fotografie, ma spesso sono pubblicità non esplicita. Come in questi 7 casi che abbiamo scovato.

  1. Perché Melissa Satta su Instagram nel comunicare la pubblicazione di un nuovo post sul suo sito web indossa una felpa nera con un evidente marchio?
  2. Perché in quest’altro scatto dove “posa” palesemente per una nota griffe scrive nel post semplicemente: “Foto scattata da mio marito Boateng”?satta3 3
  3. Perché Belen Rodriguez di prima mattina si ritrae sul letto con questo berretto?2
  4. E cosa notate nella foto di Anna Tatangelo in versione casalinga?tata3
  5. E perché Fedez si lascia fotografare mentre fuma con una sigaretta elettronica?fedez
  6. Che necessità ha il giornalista sportivo Pierluigi Pardo nel mostrarsi su Facebook con una formazione di calcio posizionata su un mini campo di calcio accerchiato da famosi confetti di cioccolato?
  7. E in quest’altra foto Pardo non sembra un vero testimonial? Anche se il Testo Unico dei doveri del giornalista vieta a chi è iscritto all’Ordine (Pardo è iscritto nell’elenco dei professionisti) di prestare la voce e il volto per pubblicità a scopi di lucro.pardo-su-facebook pardo1

Pubblicità camuffata nei selfie, il consumatore social lo sa?

Nulla contro la pubblicità anche sui social network, se è chiara, trasparente e dichiarata. Ma se è camuffata, non esplicita, allora si vuole ingannare i follower, che ignari e inconsapevoli si ritrovano parte del target pubblicitario? Si ricorre a questa astuzia perché gli utenti dei social si fidano di più delle loro star preferite, dei loro coetanei e non di una pubblicità dichiarata. A volte le star del web taggano i brand e le case di moda, ma è sufficiente per far capire che è un contenuto sponsorizzato?

Aggiungere l’hashtag #advertising

La prima Antitrust a prendere sul serio la vicenda è stata quella inglese, infatti la Competition and Markets Authority ha richiamato circa 40 celebrità e 15 imprese “per aver indotto in errore il pubblico con pubblicità indiretta su social network”. E per porre fine alla cosiddetta unlabelled advertising, la “pubblicità senza etichetta”, l’agenzia governativa, che tutela la concorrenza nel Regno Unito, ha chiesto di inserire l’hashtag #ad che indica advertising (pubblicità) oppure contenuto #sponsorizzato.

E in Italia?

La vicenda ancora non è stata presa in considerazione dall’Antitrust italiana, infatti non risulta un’istruttoria in corso perché non ha ricevuto nessuna segnalazione, nonostante la normativa sulla pubblicità si applica, come ovvio, a qualsiasi mezzo di diffusione: non solo tv, radio, giornali e periodici, ma anche social. Infatti in televisione sugli spot c’è la dicitura “pubblicità”, in radio è preceduta da un jingle, sui giornali e periodici è ben riconoscibile così come sui siti d’informazione. Una pubblicità mascherata quanta vita ha sui vecchi media? Sui social viaggia indisturbata.

*Gli sviluppi dell’articolo: i 7 casi sono stati sottoposti all’attenzione dell’Unione Nazionale Consumatori, che ha presentato poi un esposto all’Antitrust. L’Authority ha scritto agli influencer per esercitare la sua moral suasion e nel frattempo “sta indagando sul fenomeno”.

Aggiornamento:

Il 20 luglio 2017 l’Antitrust ha scritto ai più noti influencer italiani per mettere la parola fine alla pubblicità occulta sui social network. Nelle sue lettere, l’Autorità ricorda che la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale, affinché l’intento commerciale di una comunicazione sia percepibile dal consumatore, ha evidenziato come il divieto di pubblicità occulta abbia portata generale e debba, dunque, essere applicato anche con riferimento alle comunicazioni diffuse tramite i social network, non potendo gli influencer lasciar credere di agire in modo spontaneo e disinteressato se, in realtà, stanno promuovendo un brand.

Come documentato da tempo su Key4biz, il fenomeno della pubblicità occulta sui social è assai diffuso e Instagram è la piattaforma preferita dagli influencer, fra cui ad esempio Anna Tatangelo, Melissa Satta, Belen ecc.

L’Autorità ha pertanto individuato criteri generali di comportamento e ha chiesto di rendere chiaramente riconoscibile la finalità promozionale dei post, aggiungendo hastag come ad esempio, #pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, #prodottofornitoda; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.

Considerato che il fenomeno del marketing occulto è ritenuto particolarmente insidioso, in quanto è in grado di privare il consumatore delle naturali difese che si ergono in presenza di un dichiarato intento pubblicitario, l’Autorità sollecita tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nel fenomeno a conformarsi alle prescrizioni del Codice del Consumo, fornendo adeguate indicazioni atte a rivelare la reale natura del messaggio, laddove esso derivi da un rapporto di committenza e abbia una finalità commerciale, ancorché basato sulla fornitura gratuita di prodotti.

Per approfondire la nostra inchiesta curata da Luigi Garofalo